Cassazione Penale, Sez. 4, 25 febbraio 2016, n. 7784

“…nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento negligente del medesimo lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre comunque alla insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente.
Sul punto, si è osservato che le norme antinfortunistiche sono destinate a garantire la sicurezza delle condizioni di lavoro, anche in considerazione della disattenzione con la quale gli stessi lavoratori effettuano le prestazioni, con le seguenti precisazioni: che, nel campo della sicurezza del lavoro, gli obblighi di vigilanza che gravano sul datore di lavoro risultano funzionali anche rispetto alla possibilità che il lavoratore si dimostri imprudente o negligente verso la propria incolumità; che può escludersi l’esistenza del rapporto di causalità unicamente nei casi in cui sia provata l’abnormità del comportamento del lavoratore infortunato e sia provato che proprio questa abnormità abbia dato causa all’evento; che deve considerarsi abnorme il comportamento che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro.”

“Ebbene, deve a questo punto della trattazione rilevarsi che la Corte territoriale ha escluso il carattere abnorme della condotta posta in essere dal lavoratore infortunato – dichiarando espressamente di fare riferimento all’orientamento interpretativo sopra ricordato espresso dalla giurisprudenza di legittimità – sulla base di un quadro fenomenologico e fattuale del tutto lacunoso e, perciò, in termini non conferente, al fine di consentire all’organo giudicante di verificare la sussumibilità, o meno, della fattispecie concreta nella nozione di abnormità, elaborata dal diritto vivente. Tanto si afferma, posto che la stessa Corte di merito, nel riferire i termini della vicenda, osserva che non è risultata chiarita la dinamica del sinistro, essendo rimaste da accertare: sia le ragioni per le quali il lavoratore si liberò dalla cintura protettiva, visto che ancora si trovava in quota; sia il motivo che lo spinse a fare ritorno, senza cintura, in corrispondenza della zona del tetto esposta a rischio di cadute dall’alto, per raggiungere la quale, durante il turno lavorativo appena terminato, il lavoratore aveva utilizzato un presidio individuale anticaduta.”

Fatto

1. La Corte di Appello di L’Aquila, con sentenza in data 30.07.2014, in parziale riforma della sentenza di condanna resa dal Tribunale di Chieti, sezione distaccata di Ortona il 26.04.2012, nei confronti di M.Ar., M.Ad., V.M. e R.A., in ordine al reato di cui all’art. 589, cod. pen., assolveva M.Ar. dal reato ascrittogli per non aver commesso il fatto; dichiarava non doversi procedere nei confronti di R.A. con riguardo alle contravvenzioni a lei contestate, perché estinte per intervenuta prescrizione; rideterminava la pena inflitta a M.Ad., V.M. e R.A., concesse le attenuanti generiche da ritenersi equivalenti alla contestata aggravante e confermava nel resto le statuizioni del primo giudice.
Agli imputati M.Ar. e M.Ad., in qualità di legali rappresentanti della ditta M. & C. s.r.l., committente, a V.M., in qualità di legale rappresentante della ditta La Teatina di V.M., appaltatrice delle opere di rimozione della copertura in amianto del capannone della ditta M. e a R.A., in qualità di legale rappresentante della ditta ADPN Coperture di DP.A., subappaltatrice delle opere di montaggio della copertura con pannelli isolanti, si contesta di avere colposamente provocato la morte di L.DM., collaboratore della ditta ADPN, che passando su un pannello del lucernaio lo sfondava, precipitava al suolo da una altezza di undici metri e riportava politrauma fratturativo da precipitazione. Segnatamente, a M.Ar. e M.Ad. si addebita di non aver valutato, nel piano operativo di sicurezza, il rischio di sfondamento dei lucernai posti sulla copertura con l’approntamento delle opere necessarie per impedire la caduta dei lavoratori all’interno del capannone ove venivano eseguiti i predetti lavori; a V.M. e R.A. si addebita di aver eseguito i lavori sul tetto del capannone senza avere preventivamente accertato le caratteristiche di resistenza dei carichi e di non aver adottato le necessarie precauzioni atte a garantire l’esecuzione dei lavori in presenza di lucernai o coperture fragili, in condizioni di sicurezza e per non aver valutato nel Piano Operativo di Sicurezza, i rischi di sfondamento dei lucernai; a V.M., quale datore di lavoro committente, si contesta di non avere promosso la cooperazione e il coordinamento degli interventi di protezione e prevenzione dei rischi attuati dalla propria impresa e dalla impressa ADPN, elaborando un unico documento di valutazione dei rischi.
La Corte territoriale rilevava che l’incidente si era verificato nel cantiere ove operavano più imprese contemporaneamente, cosicché il committente aveva l’obbligo di designare un coordinatore per l’esecuzione dei lavori, il quale avrebbe dovuto coordinare i rischi di interferenza. Sul punto, il Collegio rilevava che, se pure le doglianze dedotte dalla imputata V.M. erano fondate, laddove l’esponente aveva osservato che l’omessa elaborazione del documento di valutazione dei rischi integra un reato proprio del committente, l’affermazione di responsabilità della prevenuta doveva essere confermata, essendo stato accertato che il Piano di Sicurezza e di Coordinamento era stato, nel caso, redatto dalla medesima imputata.
In riferimento alla posizione della imputata R.A., la Corte distrettuale osservava che la circostanza che il L.DM. non fosse dipendente della ditta ADPN Coperture non assumeva rilievo, posto che L.DM., di fatto, agiva come dipendente della predetta impresa, ricevendo ordini e disposizioni dalla responsabile della richiamata società.
La Corte di Appello escludeva poi che il sinistro fosse riferibile causalmente alla condotta colposa realizzata dallo stesso lavoratore deceduto, il quale, dopo essersi liberato dei dispositivi di protezione personale, al termine della fase di lavoro, aveva inopinatamente fatto ritorno sul tetto, dal quale era poi precipitato. Al riguardo, il Collegio considerava che l’azione del lavoratore, se pure imprudente ed avventata, non poteva qualificarsi come abnorme, essendosi svolta sul tetto ove la vittima stava operando e non potendo perciò considerarsi come totalmente avulsa rispetto alle possibili scelte operative del lavoratore.
Rispetto alla posizione dei fratelli M., la Corte di Appello considerava che risultava decisivo verificare se costoro fossero realmente a conoscenza del fatto che nel cantiere operava una pluralità di imprese, posto che la contestazione discende proprio dalla omessa designazione del coordinatore per l’esecuzione dei lavori con elaborazione di un unico documento di valutazione dei rischi per l’eliminazione delle interferenze. Il Collegio riteneva che il vaglio delle emergenze istruttorie fosse indicativo della circostanza che i M. erano stati informati dell’ingresso in cantiere della ditta operante in regime di subappalto e che dunque i predetti imputati avevano avuto effettiva consapevolezza della contemporanea presenza di una pluralità di imprese che operavano nel cantiere.
La Corte distrettuale riteneva pertanto sussistente l’obbligo in capo ai predetti committenti di elaborare un documento di valutazione dei rischi contenente le misure adottate per l’eliminazione delle interferenze; e rilevava che a carico dei committenti militava anche il fatto di avere consentito l’inizio dei lavori in presenza di specifiche situazioni di pericolo, come nel caso di specie. Il Collegio mandava peraltro assolto M.Ar., per non aver commesso il fatto, valorizzando la circostanza che costui non si fosse occupato dei contratti aziendali, ma avesse operato in diverse località.
2. Avverso la predetta sentenza della Corte di Appello di L’Aquila ha proposto ricorso per cassazione R.A., a mezzo del difensore.
Con unico motivo l’esponente sottolinea che alla R.A. si addebita il mancato rispetto delle norme di sicurezza in cantiere. Al riguardo, osserva che risulta accertato che gli operai indossavano la cinture di sicurezza anticaduta, durante la lavorazione; e considera che la Suprema Corte deve allora valutare se la condotta posta in essere da L.DM. possa considerarsi come abnorme e non prevedibile. Sul punto, l’esponente rileva che L.DM., finito il lavoro, dopo essersi liberato dei cavi anticaduta, sempre indossati durante la lavorazione, aveva arbitrariamente percorso alcuni metri verso il centro del tetto, raggiungendo così un lucernario fatiscente, che cedeva sotto il peso dell’uomo. Ciò posto, considera che l’unico modo per impedire al L.DM. di porre in essere una tale condotta sconsiderata sarebbe stata la coercizione fisica, coercizione peraltro non prevista dalle leggi antinfortunistiche. L’esponente osserva che anche l’osservanza delle prescrizioni di sicurezza, per le quali erano state contestate ipotesi contravvenzionali dichiarate prescritte, non avrebbe evitato la verificazione dell’evento lesivo, come in concreto verificatosi. Assume, in conclusione, che il fatto posto in essere da L.DM., se pure lo stesso lavoratore sia da considerare dipendente della ADPN, attivò un autonomo nesso eziologico, privo di alcuna correlazione con la condotta omissiva addebitata alla prevenuta.
3. Avverso la sentenza che occupa ha proposto ricorso per cassazione la coimputata V.M., a mezzo del difensore.
Con il primo motivo la parte osserva che la Corte di Appello non ha censurato l’ordinanza istruttoria del Tribunale di Ottona del 19.05.2011, con la quale è stata acquisita agli atti la relazione del funzionario della ASL che era stato incaricato dello svolgimento delle indagini.
Con il secondo motivo viene dedotta la violazione di legge ed il vizio motivazionale.
La parte richiama la normativa antinfortunistica di riferimento; rileva che il destinatario specifico dell’obbligo di verifica dei rischi è da individuarsi nel committente. Ed afferma che il committente avrebbe dovuto, nel caso, provvedere alla nomina del coordinatore per la valutazione dei rischi. La ricorrente osserva che la Corte di Appello, una volta affermato che il piano di sicurezza e coordinamento spettava al committente, non avrebbe dovuto sanzionare l’appaltatore per eventuali mancate valutazioni di rischi relative al singolo POS.
Con il terzo motivo viene denunciata la violazione di legge e la illogicità della motivazione. L’esponente rileva che la Corte territoriale ha errato nel qualificare la relazione che era stata predisposta dalla imputata, previa effettuazione di sopralluoghi, come piano di coordinamento, atteso che si trattava di incombente funzionale alla sola rimozione delle lastre di ETERNIT. Osserva, inoltre, che l’apposizione di tavole in legno sul lucernario e di nastro erano presidi idonei a garantire la sicurezza; considera che detto materiale correttamente doveva essere
rimosso a fine giornata; e rileva che l’apposizione di reti protettiva non era tecnicamente praticabile, in ragione del tipo di lavorazione di cui si tratta.
Con il quarto motivo l’esponente osserva che la Corte di Appello ha errato nel ritenere sussistente il nesso di derivazione causale tra la condotta che si ritiene omessa e l’evento; ciò in quanto, anche ipotizzando l’osservanza della norma cautelare, da parte della prevenuta, l’evento si sarebbe comunque verificato, posto che L.DM., senza ragione, una volta finito il turno di lavoro e dopo aver dismesso i presidi individuali di protezione, ebbe a portarsi al centro del tetto, sfondandolo con il proprio peso.
4. Ha proposto ricorso per cassazione il coimputato M.Ad., a mezzo dei difensori.
La parte ripercorre l’intera vicenda processuale, si sofferma specificamente sul contenuto del compendio probatorio e sulla posizione dei diversi dichiaranti.
Quindi, con il primo motivo, denuncia il vizio motivazionale e il travisamento della prova, con riguardo alla circostanza relativa alla esistenza di incontri tra M.Ad. e DP.A..
Con ulteriore motivo viene dedotta la violazione di norme processuali, il vizio di motivazione ed il travisamento della prova.
La parte ripropone la doglianza relativa alla dedotta inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da N.DP., per omessa applicazione dell’art. 63 cod. proc. pen., essendo emerso che il predetto dichiarante avesse svolto la funzione di amministratore di fatto dell’impresa operante nel cantiere, teatro del sinistro. Osserva che la valutazione espressa, al riguardo, dalla Corte di Appello – laddove si è affermato che la circostanza che DP.A. avesse condotto trattative con l’azienda della V.M. non determinava a carico del dichiarante l’assunzione della posizione di garanzia in ordine alle omissioni rilevate – è smentita dalla intervenuta richiesta di rinvio a giudizio, nei confronti del predetto dichiarante, per il medesimo reato di omicidio colposo per cui oggi è processo, evenienza che ha fatto seguito alla trasmissione degli atti al pubblico ministero, disposta dal Tribunale.
Ciò posto l’esponente osserva che le dichiarazioni rese da DP.A. dovevano essere qualificate come inutilizzabili “erga omnes”; e che, di converso, proprio sulla base di quanto riferito dal DP.A., la Corte territoriale ha fondato il convincimento rispetto al fatto che i M. sapessero che nel cantiere operavano diverse imprese.
Il ricorrente deduce la carenza di motivazione rispetto al tema di prova, specificamente indicato nell’atto di appello, relativo alla circostanza che l’appaltatore dei lavori, “la Teatina” di V.M. e S., avesse comunicato ai M. di avere affidato in parziale subappalto l’esecuzione delle opere. Al riguardo, osserva che la Corte di Appello ha illogicamente dato credito alle perplesse e contraddittorie dichiarazioni rese da S. Loris e DP.N., pur dopo aver considerato che i predetti testi risultavano portatori di uno specifico interesse a sostenere la consapevolezza, da parte dei M., dell’esistenza del subappalto. Sul punto, il deducente sottolinea che alcun riscontro alla tesi sostenuta dai giudici di merito discende dal fatto che, sul piano documentale, sia emerso il rapporto intercorso tra appaltatore (La Teatina) e subappaltatore (ADPN), posto che il tema di prova involge la consapevolezza in capo al committente (M. & C. srl) dell’intervenuto subappalto.
Con ulteriore motivo il ricorrente osserva che correttamente La Teatina ebbe a redigere il piano di sicurezza e coordinamento, essendo l’unico soggetto che aveva consapevolezza del novero dei soggetti che operavano nel cantiere. La parte rileva che L.DM. operava all’insaputa dei M., su incarico della ADPN o de La Teatina. L’esponente considera che nel caso di specie non sussiste un contratto di subappalto e che neppure sussiste la prescritta autorizzazione scritta, da parte del committente. La parte rileva che il giudice di secondo grado ha omesso di accertare tali circostanze.
Il ricorrente assume che erroneamente la Corte di Appello abbia fatto riferimento al disposto di cui all’art. 3, comma 4, d.lgs. n. 494/1996, giacché nel caso di specie il rischio di caduta dall’alto non risultava aggravato dalla natura dell’attività, tanto è vero che il committente non aveva effettuato la notifica preliminare alla ASL, prevista dall’art. 11 del medesimo decreto.
L’esponente osserva che la Corte di Appello ha errato nella qualificazione giuridica del rapporto intercorrente tra La Teatina e la ditta ADPN, ritenuto erroneamente rientrante nello schema del subappalto. Ribadisce che, nel caso, si è verificata la diversa ipotesi della interposizione fittizia di manodopera, di talché non sussiste in capo al M. l’obbligo di designazione del coordinatore per l’esecuzione. A sostegno dell’assunto, la parte richiama il contenuto delle diverse deposizioni testimoniali, acquisite agli atti.
Infine, l’esponente ribadisce che l’omessa nomina del coordinatore per l’esecuzione non ha rilevanza sul piano del determinismo causale, posto che nel POS predisposto dalla ditta appaltatrice era indicata la messa in opera di reti metalliche protettive (se pure non realizzate), di talché il coordinatore non avrebbe che potuto constatare la intervenuta previsione di idonee protezioni. Sotto altro aspetto considera che la dinamica dell’infortunio colloca la causa del sinistro non sul piano della mancata previsione dei fattori di rischio, bensì su quello della omessa adozione dei dispositivi anticaduta da parte del lavoratore. E considera che, escluso ogni profilo di colpa specifica in capo al M., al predetto può se del caso ascriversi una residuale colpa generica.
Le parti civili Omissis, eredi di L.DM., hanno depositato memoria. Gli esponenti confutano specificamente i motivi di doglianza dedotti dalla difesa di M.Ad., sottolineando che all’imputato, quale committente, sono stati contestati profili di colpa generica, oltre che specifica; osservano che correttamente i giudici di merito hanno ritenuto utilizzabili le dichiarazioni rese da DP.N. e che meritano condivisione le valutazioni espresse dalla Corte territoriale, circa la consapevolezza dei M. rispetto alla presenza di più imprese operanti in cantiere.

Diritto

1. I ricorsi in esame muovono alle considerazioni che seguono.
2. Si procede in primo luogo all’esame del ricorso proposto nell’interesse dell’imputato R.A., unitamente al quarto motivo del ricorso dell’imputata V.M. ed alle deduzioni in tema di nesso di derivazione causale tra condotta omissiva ascritta ai garanti ed evento lesivo in danno del L.DM., come in concreto verificatosi, affidate all’ultimo motivo del ricorso dell’imputato M.Ad..
Le doglianze sono fondate, nei sensi di seguito esposti.
3. Giova premettere che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio logico della motivazione deducibile in sede di legittimità deve risultare dal testo della decisione impugnata e deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza che il sindacato di legittimità “deve essere limitato soltanto a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l’adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali” (in tal senso, “ex plurimis”, Sez. 3, n. 4115 del 27.11.1995, dep. 10.01.1996, Rv. 203272).
Tale principio, più volte ribadito dalle varie sezioni di questa Corte, è stato altresì avallato dalle stesse Sezioni Unite le quali, hanno precisato che esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per i ricorrenti più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, Sentenza n. 6402 del 30/04/1997, dep. 02/07/1997, Rv. 207945).
4. Così delineato l’orizzonte del presente scrutinio, occorre soffermarsi sulle ragioni espresse dalla Corte di Appello di L’Aquila, nell’escludere che il comportamento posto in essere da L.DM., se pure imprudente, potesse qualificarsi come abnorme.
Il Collegio ha riferito che l’uomo, al termine della fase di lavoro, dopo essersi liberato dei presidi individuali di protezione dei quali era dotato e che aveva indossato nel corso della attività lavorativa, si era nuovamente portato sulla zona del tetto interessata dall’intervento, percorrendo alcuni metri dal luogo dove si trovava; che nel frangente aveva calpestato uno dei pannelli non portanti del lucernario, sfondandolo e precipitando al suolo. La Corte territoriale ha osservato che non sono note le ragioni per le quali L.DM. decise di ritornare sul tetto, una volta finito il turno di lavoro, con le riferite modalità.
A margine di tali rilievi, la Corte distrettuale ha quindi considerato che la descritta condotta, se pure imprudente ed avventata, posto che il lavoratore era inspiegabilmente tornato sul tetto, dopo essersi liberato dal mezzo di protezione individuale di cui disponeva, non esulava dal novero di quelle astrattamente prevedibili, perché svoltasi comunque sul tetto ove la vittima aveva operato sino alla fine del turno.
Come noto, la Corte regolatrice ha chiarito che nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento negligente del medesimo lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre comunque alla insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente. Sul punto, si è osservato che le norme antinfortunistiche sono destinate a garantire la sicurezza delle condizioni di lavoro, anche in considerazione della disattenzione con la quale gli stessi lavoratori effettuano le prestazioni, con le seguenti precisazioni: che, nel campo della sicurezza del lavoro, gli obblighi di vigilanza che gravano sul datore di lavoro risultano funzionali anche rispetto alla possibilità che il lavoratore si dimostri imprudente o negligente verso la propria incolumità; che può escludersi l’esistenza del rapporto di causalità unicamente nei casi in cui sia provata l’abnormità del comportamento del lavoratore infortunato e sia provato che proprio questa abnormità abbia dato causa all’evento; che deve considerarsi abnorme il comportamento che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro. Deve pure osservarsi che la giurisprudenza di legittimità ha più volte sottolineato che l’eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare alcuna efficacia esimente per i soggetti aventi l’obbligo di sicurezza che si siano comunque resi responsabili della violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica (cfr. Sez. 4, sentenza n. 3580 del 14.12.1999, dep. il 20.03.2000, Rv. 215686); e ciò con specifico riferimento alle ipotesi in cui il comportamento del lavoratore rientri pienamente nelle attribuzioni specificamente attribuitegli (Sez. 4, Sentenza n. 10121 del 23.01.2007, dep. 9.03.2007, Rv. 236109).
Ebbene, deve a questo punto della trattazione rilevarsi che la Corte territoriale ha escluso il carattere abnorme della condotta posta in essere dal lavoratore infortunato – dichiarando espressamente di fare riferimento all’orientamento interpretativo sopra ricordato espresso dalla giurisprudenza di legittimità – sulla base di un quadro fenomenologico e fattuale del tutto lacunoso e, perciò, in termini non conferente, al fine di consentire all’organo giudicante di verificare la sussumibilità, o meno, della fattispecie concreta nella nozione di abnormità, elaborata dal diritto vivente. Tanto si afferma, posto che la stessa Corte di merito, nel riferire i termini della vicenda, osserva che non è risultata chiarita la dinamica del sinistro, essendo rimaste da accertare: sia le ragioni per le quali il lavoratore si liberò dalla cintura protettiva, visto che ancora si trovava in quota; sia il motivo che lo spinse a fare ritorno, senza cintura, in corrispondenza della zona del tetto esposta a rischio di cadute dall’alto, per raggiungere la quale, durante il turno lavorativo appena terminato, il lavoratore aveva utilizzato un presidio individuale anticaduta.
5. In conclusione, il percorso argomentativo sviluppato dai giudici del gravame risulta inficiato dalle dedotte lacune motivazionali, posto che in sentenza non si chiarisce in che contesto è maturata la determinazione del L.DM., che ebbe ad arretrare di alcun metri, dopo essersi liberato dai presidi individuali anticaduta, anziché discendere dal tetto, una volta finito il proprio turno lavorativo.
E deve sottolinearsi che si tratta di lacune che involgono temi di ordine dirimente, nell’ambito dell’accertamento degli elementi strutturali del reato in addebito e, quindi, nell’economia della decisione in esame, atteso che, come sopra si è ricordato, l’eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare alcuna efficacia esimente per i soggetti aventi l’obbligo di sicurezza che si siano comunque resi responsabili della violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica, solo qualora il comportamento del lavoratore rientri nelle attribuzioni specificamente demandategli e l’evento lesivo si collochi nell’area di rischio riferibile ai diversi soggetti gravati da obblighi protettivi (sul tema della possibile valenza interruttiva della sequenza causale, da assegnare a circostanze che introducono un rischio nuovo, rispetto a quelli che il garante è chiamato a governare, sulla base dell’analisi delle specifiche emergenze del caso concreto, vedi Sez. 4, Sentenza n. 33329 del 05/05/2015, dep. 28/07/2015, Rv. 264365).
6. Per quanto detto, si impone l’annullamento della sentenza impugnata, con il rinvio, per nuovo esame della regiudicanda, alla Corte di Appello di Perugia, atteso che la Corte di Appello di L’Aquila non dispone di altre Sezioni. La natura del giudizio demandato al giudice di merito, che involge il tema relativo al preliminare accertamento della dinamica dell’Infortunio, da cui conseguono le possibili valutazione circa la stessa imputabilità dell’evento ai soggetti indicati come garanti dell’Incolumità del lavoratore, come sopra chiarito, assolve il Collegio dal censire ogni ulteriore motivo di ricorso, che resta, allo stato, logicamente assorbito. Alla Corte distrettuale viene demandato il regolamento delle spese tra le parti anche per questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame alla Corte di Appello di Perugia cui rimette il regolamento delle spese tra le parti anche per questo giudizio. Così deciso in Roma in data 11 febbraio 2016.

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