Le considerazioni esposte sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
La Circolare 43 dell’8 novembre scorso, emanata dal Ministero del Lavoro, ed esattamente della Direzione generale dell’Attività Ispettiva, a seguito della conferma della sentenza del TAR del Lazio sez. III n.168/2013 circa la tematica della legittimità del provvedimento di diniego ad una richiesta di accesso alle dichiarazioni resa dai lavoratori sentiti nel corso di una verifica ispettiva, al fine di consentire un’attività di difesa/controdeduzioni da parte di un obbligato in solido del datore di lavoro, avrebbe dovuto dare una risposta definitiva o comunque stabilire un punto fermo nella annosa questione giurisprudenziale tra il diritto alla difesa previsto dall’art.24 della costituzione e il riconoscimento del diritto al diniego da parte dell’organo di vigilanza, a salvaguardia dei lavoratori cha con le loro dichiarazioni hanno dato la possibilità alla Stato di perseguire degli illeciti o dei reati .
La salvaguardia delle fonti testimoniali sia nel diritto penale, che come in questo caso nel diritto del lavoro, è assolutamente un’ assioma fondamentale dell’azione dello Stato per salvaguardare il diritto del medesimo e della collettività sancito dalla legge avverso a quelle azioni o attività illegali che consentono un privato di non osservare un precetto giuridico ignorandolo o aggirandolo con dolo al fine di garantire il proprio interesse privato.
Tuttavia anche il diritto di difesa avendo una validità costituzionale non può essere in alcun modo ignorato o derogato.
A mio parere però, il problema deve porsi in altri termini.
Innanzi tutto e in primo luogo si deve dire che le dichiarazioni dei lavoratori o di chi abbia notizie da fornire all’organo di vigilanza in servizio ispettivo ordinario sono una parte dell’attività svolta dagli ispettori e non certo esaustiva al fine di determinare la presenza di illeciti e perfino di reati che necessitano l’acquisizione di altri elementi probatori.
In secondo luogo va detto che senza l’attività di denuncia da parte dei lavoratori – addirittura garantita e specificatamente tutelata dal Testo Unico della Sicurezza del Lavoro Decreto Legislativo 81/08 attribuendo tale attitudine/capacità al RLS – o meglio ancora, dall’attività testimoniale richiesta ai singoli lavoratori durante un ispezione, a cui – tra l’altro – non si comprende come legalmente questi si potrebbero sottrarsi senza incorrere in un reato (basti pensare al semplice rifiuto di dare le proprie generalità ad un pubblico ufficiale), lo Stato non potrebbe garantire il rispetto della legalità e dell’applicazione della normativa (nel quale l’obbiettivo è proprio l’interesse della collettività individuata tra i lavoratori).
In terzo luogo bisogna tenere conto che l’interesse del lavoratore denunciante o del lavoratore che ha rilasciato delle dichiarazioni (legittimamente richieste dall’organo di vigilanza a cui deve rispondere in modo veritiero senza alcuna reticenza) corrisponde l’interesse dello Stato a perseguire coloro che non adempiono agli obblighi di legge, e quindi all’applicazione delle previsioni normative per il principio di legalità.
È come in poche parole oltre all’interesse dello Stato a far rispettare la legge esista un interesse legittimo da parte della collettività affinchè il precetto giuridico violato venga contestato e chi lo ha causato venga punito ripristinando in quel contesto la legalità.
Legalità che in particolare nel mondo del lavoro incide pesantemente sugli equilibri economici delle aziende che spesso in presenza di fenomeni come il “lavoro nero” vedono alterata la concorrenza e quella di incidere sul mercato tra imprese virtuose e imprese potremmo dire non interessate ad operare legalmente, pur di prendere una commessa o vincere un appalto.
Ecco perche si può parlare di interesse generale della collettività. Esattamente come quello che esiste nei confronti del pagamento delle imposte da parte di tutti coloro che ne sono obbligati. E che da cittadini usufruiscono dei servizi pubblici pagati con le tasse.
In ultimo, come ovvia e logica conseguenza, se al contrario, fosse prevalente il diritto del presunto contravventore, l’autore dell’illecito, anche a scopo di difendersi poter accertare chi lo ha denunciato tra i propri lavoratori o collaboratori o chi tra questi ha rilasciato dichiarazioni che lo danneggino, è evidente che egli potrebbe avere propositi di rivalsa nei confronti di questi che pagherebbero le conseguenze di una loro richiesta di tutela da parte dello Stato o della loro collaborazione nei confronti degli organi di vigilanza.
È evidente che in questi termini nessuno più parlerebbe con gli ispettori che si sentirebbero rispondere non so e/o non ricordo non c’ero. L’impossibilità quindi di arrivare ad acquisire gli elementi necessari per l’individuazione di illeciti, reati e dei loro autori.
.dal punta di vista dell’impostazione giuridica e giurisprudenziale della questione la circolare 43 fornisce i necessari elementi.
Quanto sopra indicato, sostanzialmente, risulta tra l’altro dalla sentenza del Consiglio di Stato citata nella circolare (sentenza Consiglio di Stato sez. VI n.1842/2008) che indica la legittimità del diniego alla richiesta della difesa di un datore di lavoro ad accedere e visionare le dichiarazioni prese dagli ispettori del lavoro durante un accesso ispettivo “a tutela e salvaguardia di possibili azioni pregiudizievoli e recriminatorie o di pressione nei confronti dei lavoratori e collaboratori della società” così come previsto dagli artt.2 e 3 del DM 757/94.
Tale indirizzo era stato già espresso in altre sentenze del Consiglio di Stato sezione VI n. 65 del 2771/1999, n. 1604 del 19/1/1996 e n. 1842 del 22/4/2008 proprio con la motivazione di salvaguardare l’esigenza di riservatezza di chi abbia reso dichiarazioni, riguardanti se stessi o altri soggetti, senza autorizzarne la divulgazione, non attendendo la sfera di interessi in questione alla sola tutela delle posizioni del lavoratore ed essendo queste ultime comunque rilevanti anche in rapporto all’ambiente professionale di appartenenza più largamente inteso.
Il Consiglio di Stato sottolinea quindi la prevalenza dell’interesse pubblico all’acquisizione di ogni possibile informazione a tutela della sicurezza e regolarità dei rapporti di lavoro rispetto al diritto di difesa delle società e delle imprese sottoposte ad accertamenti o ispezioni.
E non sono praticabili seppur in un’ottica legittima di ricerca di un equilibrio tra l’interesse pubblico e quello della difesa ,secondo lo stesso organo, neanche la riproduzione e consegna delle predette dichiarazioni con omissis in quanto, in rapporto alle singole dichiarazioni di un lavoratore o di un altro questo potrebbe essere comunque individuato e quindi perdere l’anonimato ed essere oggetto di gravi e pesanti pregiudizi da parte del datore di lavoro. (sentenza del Consiglio di Stato 736/09).
D’altra parte la stessa Corte di Cassazione ha più volte ribadito che il datore di lavoro ha la possibilità in dibattimento, in udienza quindi, di contestare le fonti di prova degli organi di vigilanza che hanno prodotto la sua denuncia.
A quanto sopra, si contrappone dal punto di vista giuridico le sentenze del Consiglio di Stato n. 3798 del 29/7/2008 e la n. 4035 del 31/7/2013 che indicano un’altra modalità per garantire la ricerca di equilibrio tra diritto pubblico e diritto della difesa, indicando nella valutazione caso per caso la legittimità per le Direzioni Territoriali del Lavoro (Ispettorati del Lavoro) la possibilità di sottrarre alla richiesta di accesso le dichiarazioni dei lavoratori rese durante l’accesso.
A mio parere, naturalmente alla luce di quanto fin qui detto, le due ultime sentenze non sono condivisibili, creano incertezza e sono in controtendenza con la maggiore parte della produzione giurisprudenziale e con la stessa risoluzione del 14 gennaio scorso del Parlamento Europeo, laddove ai Principi Fondamentali espressi ai punti 15, 29,36, fanno seguito delle precise Raccomandazioni a tutela dell’interesse pubblico e quindi della collettività, al rispetto della legalità e a tutela del rischio di “dumping sociale” e ovviamente degli effetti collaterali.
Per concludere, la circolare 43 del 2013 limitandosi ad una analisi letterale, si limita ad informare le Direzioni Territoriali del Lavoro del quadro giurisprudenziale in atto, spostando in capo al singolo dirigente la possibilità di accoglimento della richiesta di accesso agli atti e quindi trasferendo al dirigente la decisione che dovrebbe a mio parere essere invece ininfluente è stabilita invece con precisione, da una norma di legge, non altrimenti interpretabile.
Per garantire sull’intero territorio nazionale omogeneità di comportamenti e soprattutto certezza del diritto è necessario avere norme di legge chiare, semplici senza alcuna necessità di ulteriori chiarimenti.
Purtroppo, tale situazione si riscontra in molte altre fattispecie giuridiche per le quali i Ministeri e in generale la P.A. non forniscono indicazioni ultimative e definitive (o in un senso o in un altro) producendo incertezza del diritto e causando disagio e quella sensazione di arbitrio così dannatamente diffusa nella cittadinanza e così dannosa al cd. senso dello Stato che viene identificato come una variabile, anziché come una certezza.