Lavoratore investito dal muletto in retromarcia. Scorretta valutazione dei rischi specifici, nel settore viabilità, nonché mancanza di idonea segnaletica.
Presidente: BLAIOTTA ROCCO MARCO
Relatore: DI SALVO EMANUELE
Data Udienza: 18/04/2017
Fatto
1. P.G. ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, con la quale, in riforma della sentenza assolutoria di primo grado, è stata dichiarata la penale responsabilità del ricorrente, in ordine al reato di cui all’art. 590 cod. pen. perché, in qualità di datore di lavoro, omettendo di individuare, nel documento di valutazione dei rischi, misure di prevenzione e protezione da attuare per la gestione della viabilità all’interno dei capannoni ed omettendo di apporre la dovuta segnaletica, cagionava lesioni personali gravi al dipendente G.G., il quale, mentre era intento al proprio lavoro, veniva investito, all’interno del capannone, da un carrello elevatore, che stava effettuando una manovra di retromarcia.
2. Il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione, in considerazione dell’inattendibilità degli esiti del sopralluogo effettuato dal tecnico della Asl di Milano soltanto dopo qualche mese dalla verificazione del sinistro. Il G.G. infatti nel giorno del sinistro avrebbe dovuto svolgere la propria attività lavorativa al di fuori dei capannone. Si recò all’interno di quest’ultimo esclusivamente per invitare il collega A.M. a bere un caffè. Poiché quest’ultimo rifiutò, il G.G. scese dal muletto su cui, in violazione di ogni disposizione, era salito, senza alcuna prudenza, e venne investito dal muletto stesso. Ha infatti dichiarato A.M. che il G.G. si chinò, nelle vicinanze del mezzo, per raccogliere dei bollini da alcune confezioni di dolci, rendendosi di fatto invisibile al A.M., che, nel compiere la manovra di retromarcia, urtò con lo pneumatico posteriore destro il piede della persona offesa. Si è trattato dunque di un comportamento abnorme da parte del G.G., che, all’orario in cui si verificò l’infortunio, non avrebbe neanche dovuto essere presente sul luogo di lavoro, poiché il suo turno non era ancora iniziato, e che tenne una condotta assolutamente al di fuori della normale prevedibilità. Appare dunque insussistente il nesso di causalità, poiché le lesioni subite dal lavoratore non sono conseguenza di un’azione od omissione dell’imputato, in quanto, se il G.G. non avesse distolto l’attenzione del collega dall’attività lavorativa, addirittura salendo e poi scendendo inopinatamente dal muletto, non si sarebbe verificato l’infortunio.
2.1. La Corte d’appello, trattandosi di ribaltamento dell’esito assolutorio del giudizio di primo grado, avrebbe dovuto risentire i testi e confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza. Il giudice di secondo grado si è invece limitato a ripercorrere le argomentazioni svolte negli atti d’appello del pubblico ministero e della parte civile, senza minimamente considerare le argomentazioni dell’imputato e riconoscendo un concorso di responsabilità della parte lesa, nella misura del 65%, in contrasto con la ritenuta responsabilità dell’imputato e senza neanche rappresentare i motivi a sostegno di tale quantificazione.
Si chiede pertanto annullamento della sentenza impugnata.
Diritto
1. La prima doglianza è infondata. L’interruzione del nesso causale è, infatti, configurabile esclusivamente laddove la causa sopravvenuta inneschi un rischio nuovo e del tutto incongruo rispetto al rischio originario, attivato dalla prima condotta (Cass., Sez. 4, n. 25689 del 3-5-2016, Rv. 267374; Sez. 4, n. 15493 del 10-3-2016, Pietramala, Rv. 266786; n.43168 del 2013, Rv. 258085). Ne deriva che, laddove si verifichi un infortunio sul lavoro, l’interruzione del nesso causale è ravvisabile esclusivamente qualora il lavoratore ponga in essere una condotta del tutto esorbitante dalle procedure operative alle quali è addetto ed incompatibile con il sistema di lavorazione ovvero non osservi precise disposizioni antinfortunistiche. In questi casi, è configurabile la colpa dell’Infortunato nella produzione dell’evento, con esclusione della responsabilità penale del titolare della posizione di garanzia (Cass., Sez. 4, 27-2-1984, Monti, Rv. 164645; Sez 4, 11-2-1991, Lapi, Rv. 188202). Viceversa, nel caso di specie, il giudice a quo ha posto in rilievo che l’ingresso del G.G. nell’area dove stava lavorando il mulettista non può considerarsi atto abnorme, essendo assai probabile che qualsiasi lavoratore, anche esperto, ove non venga adeguatamente reso edotto dei rischi specifici di un’area, vi si rechi, esponendosi ai pericoli derivanti da errate manovre. A ciò è da aggiungersi, in questa sede, che, sotto il profilo giuridico, non può ritenersi causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l’evento, il comportamento imprudente di un soggetto, nella specie il lavoratore, che si riconnetta ad una condotta colposa del datore di lavoro (Cass., Sez. 4, n. 18800 del 13-4-2016, Rv. 267255; n. 17804 del 2015, Rv. 263581; n. 10626 del 2013, Rv.256391). Nel caso in esame, il P.G., secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata, omise di procedere ad una corretta valutazione dei rischi specifici, nel settore viabilità, nonché di apporre in loco idonea segnaletica. E’, pertanto, esente da censure la conclusione del giudice a quo, secondo cui, se è indubbia la sussistenza di profili di colpa a carico del lavoratore, nell’avvicinarsi al carrello elevatore, ciò rileva solo ai fini del risarcimento del danno ma non vale ad elidere il nesso causale rispetto alla condotta del datore di lavoro. Tale asserto è perfettamente in linea con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui compito del titolare della posizione di garanzia è evitare che si verifichino eventi lesivi dell’incolumità fisica intrinsecamente connaturati all’esercizio di talune attività lavorative, anche nell’ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuali negligenze, imprudenze e disattenzioni dei lavoratori subordinati, la cui incolumità deve essere protetta con appropriate cautele. Il garante non può, infatti, invocare, a propria scusa, il principio di affidamento, assumendo che il comportamento del lavoratore era imprevedibile, poiché tale principio non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia (Cass., Sez. 4., 22-10¬1999, Grande, Rv. 214497). Il garante, dunque, ove abbia negligentemente e imprudentemente omesso di attivarsi per impedire l’evento, non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, l’errore sulla legittima aspettativa in ordine all’assenza di condotte imprudenti, negligenti o imperite da parte dei lavoratori, poiché il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l’incolumità del lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse imprudenze e negligenze o dai suoi stessi errori, purché connessi allo svolgimento dell’attività lavorativa (Cass., Sez. 4, n. 18998 del 27-3-2009, Rv. 244005). Ne deriva che il titolare della posizione di garanzia è tenuto a valutare i rischi e a prevenirli e la sua condotta non è scriminata, in difetto della necessaria diligenza, prudenza e perizia, da eventuali responsabilità dei lavoratori ( Cass., Sez. 4, n. 22622 del 29-4-2008, Rv. 240161). Ne consegue che non vi è alcuna antinomia logica fra il riconoscimento di un concorso di colpa del lavoratore, anche in misura notevole (65%), e la declaratoria di responsabilità del datore di lavoro.
2.Del tutto correttamente, poi, la Corte territoriale ha negato qualunque rilievo alla questione relativa all’orario di inizio dell’attività lavorativa, da parte dell’infortunato. Non può infatti ascriversi al G.G. la responsabilità dell’accaduto sulla base del rilievo che, al momento in cui si verificò il sinistro, egli non avrebbe dovuto essere presente sul luogo di lavoro. La violazione delle regole inerenti ai turni di lavoro è infatti del tutto irrilevante ai fini delle valutazioni relative all’infortunio verificatosi. Ai fini dell’ascrivibilità di una responsabilità a titolo di colpa, occorre infatti verificare se la regola violata fosse diretta ad evitare eventi della tipologia di quello verificatosi. L’evento deve dunque apparire come una concretizzazione del rischio che la norma di condotta violata tendeva a prevenire (Cass., Sez. 4, n. 1819 del 03/10/2014, Rv. 261768; n.36857 del 2009 Rv. 244979). Viceversa, le regole dettate in tema di ripartizione dei turni di lavoro non sono certamente volte ad evitare gli infortuni su lavoro, non avendo neanche natura cautelare ma semplicemente organizzativa. E’ dunque giuridicamente infondato qualunque tentativo di istituire una connessione fra un evento lesivo verificatosi e la violazione di una regola di natura non cautelare e preordinata al soddisfacimento di esigenze di carattere operativo, completamente esulanti dall’ottica delle prevenzione degli infortuni sul lavoro.
3. Infondato è anche il secondo motivo di ricorso, che pone due questioni: la mancata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello e il ribaltamento della pronuncia assolutoria di primo grado senza un’adeguata confutazione degli argomenti addotti dal primo giudice.
Per quanto attiene alla prima questione, occorre osservare che La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con sentenza n. 8999 del 5 luglio 2011, Dan. C Moldavia, si è espressa nel senso che il giudice che, per ultimo, ha la responsabilità di decidere la colpevolezza o l’innocenza di un imputato deve ascoltare personalmente i testimoni dalla cui deposizione deriva la prova principale dei fatti, poiché la valutazione della loro attendibilità è un compito complesso, che non può ridursi alla mera lettura dei verbali delle loro dichiarazioni ( conf. Corte EDU, n. 36605 del 5-3-2013; Corte EDU, n. 17520 del 9-4-2013). Il principio è stato ribadito dalle Sezioni unite, che, con sentenza del 28-4-2016, Dasgupta, hanno condivisibilmente stabilito che il giudice di appello, qualora ritenga di riformare nel senso dell’affermazione di responsabilità dell’imputato, la sentenza di proscioglimento di primo grado, sulla base di una diversa valutazione della prova dichiarativa,ritenuta decisiva dal primo giudice, deve, in ragione di una interpretazione convenzionalmente orientata, ex art. 6, par. 3, lett. d), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,dell’art. 603 cod. proc. pen., disporre la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, mediante l’esame del soggetti che hanno reso le relative dichiarazioni. Ne deriva che la sentenza del giudice di appello che, in riforma di quella di proscioglimento di primo grado, affermi la responsabilità dell’imputato sulla base di una diversa valutazione della prova dichiarativa, ritenuta decisiva, senza avere proceduto alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, è affetta da vizio di motivazione, in quanto la condanna contrasta, in tal caso, con la regola di giudizio dell'”al di là di ogni ragionevole dubbio”, di cui all’art. 533, comma 1, cod. proc. pen. Discende da tale impostazione che non qualunque prova dichiarativa va rinnovata ma soltanto quella che, nella prospettiva del giudice di secondo grado, sia da considerarsi decisiva ai fini della pronuncia sulla responsabilità. Orbene, dall’ analisi del tessuto argomentativo della sentenza impugnata emerge che l’unica prova dichiarativa connotata da tale valenza di decisività, anche in relazione alla tesi difensiva inerente all’abnormità del comportamento dell’infortunato, era l’audizione del mulettista, prova che non era però suscettibile di assunzione di fronte al giudice di appello, atteso che già in primo grado il teste era risultato irreperibile, tant’è che le sue dichiarazioni erano state acquisite ex art. 512 cod. proc. pen.
4. In ordine all’ulteriore questione sollevata dal ricorrente, con il secondo motivo di ricorso, occorre richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado, sostituendo alla pronuncia di assoluzione quella di condanna dell’imputato, ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dimostrandone, in modo rigoroso, l’incompletezza o l’incoerenza ( Sez U., 12-7-2005, Mannino). Il giudice d’appello può infatti pervenire ad una ricostruzione del fatto difforme da quella effettuata dal giudice di primo grado ma, in tal caso, ha l’onere di tener conto delle valutazioni di quest’ultimo e di indicare le ragioni per le quali intenda discostarsene (Cass., n. 37094 del 7-7-2008). Non è invece consentito al giudice di secondo grado ribaltare l’epilogo decisorio sulla base di un iter logico-giuridico del tutto avulso dal percorso argomentativo esperito dal giudice di prime cure. Ove l’apparato giustificativo della sentenza di secondo grado sia dunque caratterizzato da un autonomo itinerario concettuale, senza un serrato confronto con le argomentazioni poste a base della pronuncia assolutoria emessa dal primo giudice, la sentenza di condanna potrà essere annullata nel giudizio di legittimità.
Nel caso in esame, la Corte d’appello ha ribaltato l’epilogo decisorio sulla base di un’accurata confutazione delle argomentazioni formulate dal Tribunale, incentrate, in particolare, come risulta dalla motivazione della sentenza di primo grado, sull’insussistenza del rapporto di causalità tra la condotta omissiva del datore di lavoro e l’evento, considerata, segnatamente, la mancata prova certa della legittimità della presenza del G.G. sul luogo di lavoro, al momento dell’infortunio. Abbiamo, in precedenza, visto come la questione relativa all’orario di lavoro del G.G. sia stata correttamente affrontata dalla Corte d’appello, la quale ha, inoltre, evidenziato la correlazione eziologica fra la condotta omissiva del datore di lavoro e la verificazione dell’evento, sottolineando che, ove fossero state rispettate le cautele antinfortunistiche relative alla valutazione del rischio e all’apposizione di idonea segnaletica, l’evento non si sarebbe verificato. Il giudice a quo ha pertanto correttamente proceduto alla formulazione del giudizio controfattuale, snodo obbligato per l’affermazione del nesso di condizionalità necessaria e ha poi escluso l’abnormità
del comportamento del lavoratore, nei termini poc’anzi analizzati. Trattasi, come si vede, di una motivazione precisa, fondata su specifiche risultanze processuali e del tutto idonea a illustrare l’itinerario concettuale esperito dal giudice di merito. D’altronde, dedurre vizio di motivazione della sentenza significa dimostrare che essa è manifestamente carente di logica e non già opporre alla ponderata ed argomentata valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione dei fatti ( Sez. U. 19-6-1996, Di Francesco, Rv 205621). Esula Infatti dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa – e, per il ricorrente, più adeguata – valutazione delle risultanze processuali ( Sez. U., 30-4-1997, Dessimone, Rv. 207941) .
4. Il ricorso va dunque rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese in favore della parte civile, che si ritiene congruo liquidare in euro 2500, oltre agli accessori di legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al rimborso delle spese di giudizio in favore della parte civile, liquidate in euro 2500, oltre agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 18-4-2017 .