… I giudici di secondo grado hanno ribadito che il datore di lavoro aveva messo a disposizione dei lavoratori solo dispositivi di protezione che, invece, nel documento di valutazione dei rischi erano previsti in via del tutto residuale (ramponi monta – palo e cintura di sicurezza), ovvero allorquando, in ragione di peculiari situazioni (es. pali posizionati su terreni estremamente impervi), non fosse possibile avvalersi degli altri sistemi (in via gradata autopiattaforma e scale), da utilizzarsi prioritariamente. Nel caso di specie la pianeggiante conformazione dei luoghi avrebbe certamente consentito l’utilizzo dell’autopiattaforma, così scongiurando i rischi di caduta dall’alto correlati alla rottura del palo per effetto delle sollecitazioni derivanti dall’arrampicata del lavoratore, donde l’addebito a titolo di colpa di quanto verificatosi a causa del mancato utilizzo di un mezzo meccanico per portare in quota l’operaio…
Presidente: IZZO FAUSTO
Relatore: TORNESI DANIELA RITA
Data Udienza: 28/11/2017
Fatto
1. Con sentenza emessa in data 5 gennaio 2015 il Tribunale di Biella dichiarava O.P. responsabile del reato di cui all’art. 590, comma 3, in relazione all’art. 583, comma 1, n. 1 cod. pen. e, concesse le attenuanti generiche, la condannava alla pena di mesi quattro di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali. Pena sospesa.
1.1. In particolare all’imputata veniva addebitato di «avere cagionato, nella qualità di legale rappresentante della società G.D. Telecomunicazioni a r.l. corrente in Savigliano, con colpa consistita in imprudenza, negligenza, imperizia e violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, al dipendente M.A. lesioni personali gravi, segnatamente “fratture costali multiple con pneumotorace ed emot., fratture apofisi traversa sin. L 5, fratture multiple bacino, rottura milza” tali da determinare incapacità di attendere alle proprie ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai 40 giorni (specificamente giudicate guaribili in gg. 148). In particolare, in conseguenza della violazione di cui agli artt. 29 co. 1 del d.lgs. 81/2008, per aver elaborato un documento della valutazione dei rischi incongruo che, non tenendo conto e non valutando tutti i rischi relativi alle cadute dall’alto, non indicava le misure di prevenzione e protezione da adottare e 111 co. 1 lett. a) del d.lgs. 81/2008 per non aver fornito al lavoratore l’idonea attrezzatura atta a garantire condizioni di lavoro sicuro contro le cadute dall’alto (quale ad es. il cestello autosollevante) – ometteva l’adozione di idonee misure di prevenzione in conseguenza delle quali il predetto lavoratore, mentre operava legato su un palo per sganciare i vecchi raccordi telefonia per la sostituzione, dopo essersi spezzato il palo alla base, cadeva a terra da un’altezza di 4/5 metri e si provocava le lesioni di cui sopra. Con le aggravanti dell’essere la lesione grave (avendo determinato l’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo non inferiore a 148 giorni) e dell’essere il fatto commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. In Magnano in data 13.09.2010».
1.2. La Corte di Appello di Torino, in parziale riforma della sentenza di primo grado, riconosceva la sussistenza dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen. in ragione dell’intervenuto risarcimento del danno in favore della persona offesa e, per l’effetto, rideterminava la pena finale inflitta in Euro 7.500,00 di multa, così sostituita la corrispondente pena detentiva di mesi uno di reclusione. Revocava, su richiesta dell’appellante, il beneficio della sospensione condizionale della pena. Confermava, nel resto, la decisione impugnata.
1.3. All’esito dei giudizi di merito è risultato accertato che l’attività di lavoro comandata il giorno 13.09.2010 al M.A., operaio dotato di grande esperienza nello svolgimento dell’intervento manutentivo cui era stato addetto (c.d. mansione di guardafili), consisteva nella sostituzione dei cavi della linea telefonica posti su dei pali lignei che si trovavano nella zona di Magnano; ciò implicava il raggiungimento in quota dei cavi telefonici posti su dei pali lignei che avrebbero dovuto essere staccati per la loro successiva sostituzione. Per adempiere a tale compito il M.A., dopo avere provveduto a saggiarne la tenuta di uno dei pali secondo le disposizioni impartite dalla società, si era arrampicato su di esso avvalendosi dei soli strumenti fornitigli dall’azienda, ovvero dei c.d. ramponi monta-palo e della cintura di sicurezza e quando aveva quasi raggiunto la sommità, detto palo si era improvvisamente spezzato, determinando, così, la sua caduta da un’altezza di 4 – 5 metri, non essendo assicurato ad alcuni idoneo dispositivo di trattenuta.
I giudici di merito hanno fondato il giudizio di responsabilità a carico dell’imputata risultando comprovato che la società G.D. Telecomunicazioni a r.l. aveva omesso di fornire al lavoratore infortunato le misure di protezione collettiva prioritariamente previste nel documento di valutazione dei rischi nel caso di salite ad altezze superiori a due metri (ovvero, in via prioritaria, l’autopiattaforma oppure, in alternativa – quando l’utilizzo di tale mezzo sia tecnicamente impossibile o non necessario in considerazione del limitato livello di rischio o dalla breve durata dell’intervento – la scala); l’utilizzo dei ramponi e della cinghia di sicurezza era, invece, considerata modalità del tutto residuale.
Tali prescrizioni, contenute nel documento di valutazione dei rischi, erano dettate proprio per evitare il verificarsi di una possibile caduta dall’alto conseguente a fattori esogeni anche non prevedibili, come nel caso di specie.
Nel caso in esame risultava tecnicamente possibile l’utilizzo dell’autopiattaforma in quell’occasione, in ragione delle favorevoli condizioni dei luoghi, risultando le palificazioni collocate in un terreno pianeggiante e solido, facilmente accessibile a mezzi meccanici. I dispositivi di protezione individuale erano divenuti, nella prassi, i soli mezzi ordinari di protezione, non risultando disponibile nessuno dei dispositivi di protezione collettiva che avrebbero dovuto essere impiegati secondo il prestabilito ordine di priorità indicato nel documento di valutazione dei rischi.
2. Ricorre per la cassazione della sentenza O.P., a mezzo del difensore di fiducia avv. Omissis, elevando il seguente motivo:
violazione dell’art. 606, comma 1, lett.e) c.p.p. per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett.e) c.p.p.
La ricorrente, dopo avere richiamato alcune risultanze istruttorie (in particolare gli esiti della consulenza tecnica di parte e alcuni stralci delle dichiarazioni testimoniali rese dalla persona offesa nel corso del dibattimento di primo grado), evidenzia che dagli esiti del dibattimento è risultato comprovato che lo Spresal dell’Asl di Biella ha avallato le procedure aziendali previste nel documento di valutazione dei rischi, così come rielaborato dalla G.D. Telecomunicazioni a seguito della prescrizione ex art. 20 del d.lgs.vo n. 758/94.
In particolare ha specificato che l’attuale DVR., pur continuando a prevedere, in via prioritaria, l’adozione di forme di protezione collettiva, ha tuttavia escluso la possibilità di ricorrere alla piattaforma perché, nella maggior parte dei casi, non sarebbe possibile avvicinare il mezzo al palo.
Sostiene che lo Spresal ha considerato accettabile fronteggiare il rischio di caduta dall’alto per chi opera sui pali con l’adozione delle misure di protezione individuali (ovvero dall’attrezzatura costituita dai ramponi e dalla cintura di sicurezza).
Evidenzia che l’evento va ascritto ad una mera fatalità atteso che la rottura del palo a cm. 115 da terra è anomalo ed risulta altresì singolare che non vi sia stato alcun segno premonitore esterno della compromissione del legno.
2.1. Conclude chiedendo l’annullamento della sentenza della Corte di Appello di Torino con rinvio per nuovo esame.
Diritto
1. Il ricorso va rigettato.
1.1. Va anzitutto evidenziato che l’atto di impugnazione contiene censure non consentite nel giudizio di legittimità, in quanto concernenti la ricostruzione e la valutazione del fatto nonché l’apprezzamento del materiale probatorio, profili del giudizio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito che ha fornito una congrua e adeguata motivazione, immune da vizi logico – giuridici.
Va ricordato che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovo e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 4, n. 31224 del 16/06/2016).
Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l’illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le incongruenze logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché – come nel caso in esame – siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento (Sez. unite n. 24 del 24/11/1999, Spina, Sez. 3, n. 35397 del 20/06/2007).
Più in particolare è stato sottolineato come, ai sensi di quanto disposto dall’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Sez. 2, n. 21644 del 13/02/2013, Badagliacca e altri, Rv. 255542).
Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto, risultando preclusa la possibilità di procedere ad una rinnovata disamina degli elementi probatori acquisiti nel giudizio di merito e ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite.
Alla stregua dei sopraesposti principi, occorre, quindi, riaffermare che, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sia mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre una diversa conclusione del processo; per cui non possono essere considerate tutte le doglianze che «attaccano» la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 2, n. 38393, del 20/07/2016; Sez. 6, n. 13809, del 17/03/2015, Rv. 262965).
Vale, sul punto, anche rammentare che nel caso di c.d. doppia conforme, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, e ciò tanto più ove, come nel caso in esame, i giudici di appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado.
1.2. Nel caso in esame la Corte distrettuale ha puntualmente rivalutato e valorizzato il medesimo compendio probatorio già sottoposto al vaglio del Tribunale e, dopo aver preso atto delle censure dell’appellante, puntualmente esaminate e rigettate, è giunta, con motivazioni congrue e logiche, alle medesime conclusioni in termini di sussistenza della responsabilità della O.P., rendendo così intangibile la valutazione di merito.
I giudici di secondo grado hanno infatti ribadito che il datore di lavoro aveva messo a disposizione dei lavoratori solo dispositivi di protezione che, invece, nel documento di valutazione dei rischi erano previsti in via del tutto residuale (ramponi monta – palo e cintura di sicurezza), ovvero allorquando, in ragione di peculiari situazioni (es. pali posizionati su terreni estremamente impervi), non fosse possibile avvalersi degli altri sistemi (in via gradata autopiattaforma e scale), da utilizzarsi prioritariamente. Nel caso di specie la pianeggiante conformazione dei luoghi avrebbe certamente consentito l’utilizzo dell’autopiattaforma, così scongiurando i rischi di caduta dall’alto correlati alla rottura del palo per effetto delle sollecitazioni derivanti dall’arrampicata del lavoratore, donde l’addebito a titolo di colpa di quanto verificatosi a causa del mancato utilizzo di un mezzo meccanico per portare in quota l’operaio.
Il ricorso, così come prospettato, deducendo vizi motivazionali, tenta in realtà di sottoporre a questa Corte una nuova valutazione di merito, non consentita in sede di legittimità.
2. Inoltre il motivo dedotto reitera doglianze già avanzate e respinte in sede di appello ed è pertanto generico.
Ed invero la ricorrente non si confronta adeguatamente con tali puntuali argomentazioni limitandosi a sollecitare una rivalutazione del materiale probatorio acquisito e valutato conformemente dai giudici di merito, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare, nei modi di rito, eventuali e decisivi travisamenti.
Si è, infatti, esattamente osservato (Sez. VI, sentenza n. 8700 del 21 gennaio 2013, Rv. 254584) che «La funzione tipica dell’impugnazione è quella della critica argomentata avverso il provvedimento cui si riferisce. Tale critica argomentata si realizza attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591 c.p.p.), debbono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Contenuto essenziale dell’atto di impugnazione è, pertanto, innanzitutto e indefettibilmente il confronto puntuale (cioè con specifica indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che fondano il dissenso) con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta).»
Il motivo di ricorso in cassazione è caratterizzato da una «duplice specificità»: «Deve essere sì anch’esso conforme all’art. 581 c.p.p., lett. C (e quindi contenere l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta presentata al giudice dell’impugnazione); ma quando “attacca” le ragioni che sorreggono la decisione deve, altresì, contemporaneamente enucleare in modo specifico il vizio denunciato, in modo che sia chiaramente sussumibile fra i tre, soli, previsti dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), deducendo poi, altrettanto specificamente, le ragioni della sua decisività rispetto al percorso logico seguito dal giudice del merito per giungere alla deliberazione impugnata, sì da condurre a decisione differente» (Sez. VI, sentenza n. 8700 del 21 gennaio 2013 cit.).
3. Il ricorso va pertanto rigettato con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma il 28/11/2017