Repertorio Salute

Cassazione Penale, Sez. 2, 16 febbraio 2018, n. 7639

Il mobbing integra il reato di maltrattamenti in famiglia se il rapporto presenta le caratteristiche della para-familiarità.


Presidente Cammino
Relatore Pellegrino

Fatto

1. La Corte di Appello di Torino, con sentenza in data 29/11/2016, decidendo a seguito di rinvio disposto dalla Corte Suprema di Cassazione (sesta sezione penale, sentenza n. 53416 del 22/10/2014), in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Torino, sezione distaccata di Chivasso, del 18/12/2012, ritenuto il reato di lesioni personali aggravate (capo B) assorbito in quello di maltrattamenti continuati in concorso (capo A), esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 572, ultimo comma, cod. pen. limitatamente al periodo successivo all’aprile 2008, rideterminava:
– la pena inflitta a M.V. nella misura di anni uno e mesi uno di reclusione riducendo ad Euro 40.000,00 il risarcimento del danno a favore di Ma.Ca. e ad Euro 3.000,00 in favore di Ma.Mi. , con conferma nel resto della sentenza appellata;
– la pena inflitta a M.S. nella misura di mesi otto di reclusione riducendo ad Euro 40.000,00 il risarcimento del danno a favore di Ma.Ca. e ad Euro 3.000,00 in favore di Ma.Mi. , con conferma nel resto della sentenza appellata.
2. Propongono ricorso per cassazione M.V. e M.S. spiegando, in parte, motivi comuni e, in parte, motivi autonomi.
3. Ricorsi di M.V. e M.S. con proposizione di censure comuni.
3.1. Primo motivo comune ai due ricorsi.
Lamentano i ricorrenti:
– violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 572 cod. pen..
Si censura la sentenza impugnata che, invece di affrontare preliminarmente il quesito posto dalla Suprema Corte in sede di annullamento in ordine all’eventuale sussistenza del “presupposto” per l’applicabilità dell’art. 572 cod. pen. (il rapporto di para-familiarità), ha anteposto ad esso l’esame delle singole condotte contestate nel capo d’imputazione senza peraltro neppure considerare sul punto le doglianze contenute nei motivi di appello pretermesse nel precedente giudizio. La Corte d’appello giunge a ravvisare una situazione di para-familiarità avuto riguardo alle “dinamiche relazionali in seno all’azienda” sulla base delle seguenti risultanze:
– M.V. concentra su di sé tutte le prerogative dirigenziali, prende in assoluta autonomia tutte le decisioni concernenti i lavoratori, è quotidianamente presente in azienda, impartisce direttamente disposizioni ai dipendenti;
– M.V. è a conoscenza di alcuni aspetti della vita privata della lavoratrice Ma.Ca. ;
– la Ma. si trova in condizione di subordinazione in quanto, nonostante i tentativi di far valere i suoi diritti, non è stata riassegnata alle originarie mansioni ed è stata demansionata.
In realtà, la circostanza che vi sia un diretto coinvolgimento del datore di lavoro nelle realtà lavorative di ridotte dimensioni, non configura per ciò solo una comunità para-familiare; l’assoluta comunanza di vita deve tradursi in una stretta ed intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente caratterizzata dalla condivisione dei momenti tipici del contesto familiare: situazione che, nella fattispecie, non si è affatto verificata.
Il fatto che M.V. fosse a conoscenza di questioni inerenti la persona del dipendente è aspetto privo di chiaro ed univoco significato perché situazione alquanto frequente nelle realtà aziendali di medie-piccole dimensioni.
Anche la rilevata condizione di “schiacciante subordinazione” cui la lavoratrice sarebbe stata sottoposta non ha alcun significato nel senso ritenuto in sentenza.
In ogni caso, il comportamento complessivo della Ma. a partire dal rientro in azienda dopo la maternità rivela l’assenza di uno stato di subordinazione/soggezione rispetto al datore di lavoro.
3.2. Secondo motivo comune ai due ricorsi.
Lamentano i ricorrenti:
– vizio di motivazione in ordine all’omessa/erronea valutazione delle doglianze contenute nell’atto di appello.
La difesa, lungi dall’aver prestato quiescenza alla ricostruzione accusatoria ne ha, punto per punto, contestato l’impostazione ponendo in evidenza le molte criticità della testimonianza della parte civile. Invero, la Corte d’appello in sede di rinvio, dopo aver ritenuto sussistenti i presupposti per applicare la fattispecie di cui all’art. 572 cod. pen. alle dinamiche connesse al rapporto lavorativo in essere tra la Ma. e la Stac Plastic, avrebbe dovuto – ma ciò non è avvenuto – rispondere alle doglianze formulate con i motivi di appello, critiche dotate del requisito della decisività, rafforzate ed alimentate dal materiale acquisito nell’ambito della perizia espletata in forza della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale chiesta dalla difesa e disposta dalla Corte territoriale: perizia che aveva escluso la compatibilità tra la patologia riscontrata con le caratteristiche della pretesa violenza psicologica esercitata sul luogo di lavoro.
3.3. Terzo motivo comune ai due ricorsi.
Lamentano i ricorrenti:
– vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del nesso causale tra la malattia della persona offesa ed il comportamento vessatorio del datore di lavoro.
Secondo i giudici di secondo grado, il nesso causale tra la malattia psichica della Ma. e le condotte asseritamente maltrattanti subìte sarebbero provate dagli accertamenti peritali compiuti dal dott. Gallino, le cui conclusioni non sarebbero state validamente contrastate dalle considerazioni del consulente tecnico della difesa, prof. F. .
In realtà, il modus operandi seguito dal perito appare del tutto censurabile avendo lo stesso, da un lato, prestato un’adesione acritica al racconto della persona offesa sia sulla malattia che sugli atti persecutori denunciati, come se si trattasse di dati oggettivi ed incontrovertibili e, dall’altro, lasciato senza risposta gli interrogativi proposti dalla difesa tramite il proprio consulente.
4. Motivo esclusivo nell’interesse di M.V. .
Lamenta il ricorrente:
– violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 133, 163 e 164 cod. pen., con riferimento all’omessa concessione della sospensione condizionale della pena, beneficio asseritamente negato in ragione dei precedenti penali e della già avvenuta fruizione del beneficio con sentenza del Tribunale di Torino in data 06/07/2009, irrevocabile in data 02/07/2010.
I precedenti penali del reo e la pregressa fruizione del beneficio non sono ostativi al riconoscimento al ricorrente di una seconda sospensione condizionale della pena, dal momento che i precedenti si riferiscono ad ipotesi contravvenzionali ed il beneficio riconosciuto con sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. del 03/10/1997 di fatto risulta caducato non avendo l’imputato commesso, nei due anni successivi, alcun delitto o contravvenzione della stessa indole ed essendo i fatti in contestazione non più previsti dalla legge come reato.
La Corte d’appello è così caduta in errore nell’applicazione dell’art. 164 cod. pen. avendo ritenuto oggettivamente (e non soggettivamente) non concedibile il beneficio in questione.
5. Motivo esclusivo nell’interesse di M.S. .
Lamenta la ricorrente:
– violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 110, 572 cod. pen..
Se M.V. , come riconosce la sentenza impugnata, ha effettivamente operato nella conduzione della Stac Plastic e nella gestione delle mansioni e della postazione di lavoro della Ma. , nella veste di esclusivo titolare di tutte le prerogative aziendali, nessun indispensabile e rilevante contributo causale poteva fornire M.S. alla realizzazione del fatto: da qui l’illogicità dell’affermazione della Corte territoriale secondo la quale la ricorrente nulla avrebbe fatto “per impedire al padre di attuare le decisioni volte alla squalificazione professionale, al demansionamento ed isolamento della lavoratrice…”.

Diritto

1. I ricorsi – nei primi due assorbenti profili comuni di doglianza – sono fondati e, come tali, appaiono meritevoli di accoglimento.
2. Va preliminarmente considerato che, secondo l’insegnamento giurisprudenziale dettato da questa Suprema Corte, le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cd. “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para – familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra (rapporto supremazia – soggezione), dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, e come tale destinatario, quest’ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo (cfr., Sez. 6, n. 28603 del 28/03/2013, P.C. in proc. S. e altro, Rv. 255976; Sez. 6, n. 26594 del 06/02/2009, P.C. in proc. P. e altro, Rv. 244457; Sez. 6, n. 685 del 22/09/2010, dep. 2011, P.C. in proc. C., Rv. 249186; Sez. 6, n. 43100 del 10/10/2011, R.C. e P., Rv. 251368; Sez. 6, n. 16094 del 11/04/2012, I., Rv. 252609). La modulazione di tale rapporto, dunque, avuto riguardo alla ratio della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 572 cod. pen., deve comunque essere caratterizzata dal tratto della “familiarità”, poiché è soltanto nel limitato contesto di un tale peculiare rapporto di natura para – familiare che può ipotizzarsi, ove si verifichi l’alterazione della sua funzione attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti: si pensi, in via esemplificativa, al rapporto che lega il collaboratore domestico alle persone della famiglia presso cui svolge la propria opera o a quello che può intercorrere tra il maestro d’arte e l’apprendista. L’inserimento di tale figura criminosa tra i delitti contro l’assistenza familiare si pone in linea, del resto, con il ruolo che la stessa Costituzione assegna alla “famiglia”, quale società intermedia destinata alla formazione e all’affermazione della personalità dei suoi componenti, e nella stessa prospettiva ermeneutica devono essere letti ed interpretati soltanto quei rapporti interpersonali che si caratterizzano, al di là delle formali apparenze, per la loro natura para – familiare (cfr., da ultimo, Sez. 6, n. 24642 del 19/03/2014, PG in proc. L G, Rv. 260063).
3. Occorre altresì evidenziare che, se da un lato, è vero che l’art. 572 cod. pen., ha “allargato” l’ambito delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello strettamente endo – familiare, è pur vero, dall’altro lato, che la relativa fattispecie incriminatrice è inserita nel titolo dei delitti in materia familiare ed espressamente indica nella rubrica la limitazione alla famiglia ed ai fanciulli, sicché non può ritenersi idoneo a configurarla il mero contesto di un generico rapporto di subordinazione/sovraordinazione. Da qui la ragione dell’indicazione del requisito della para – familiarità del rapporto di sovraordinazione, che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità. Se così non fosse, come peraltro si è già avuto modo di osservare in questa sede, ogni relazione lavorativa caratterizzata da ridotte dimensioni e dal diretto impegno del datore di lavoro dovrebbe, per ciò solo, configurare una sorta di comunità (para)familiare, idonea ad imporre la qualificazione, in termini di violazione dell’art. 572 cod. pen., di condotte che, pur di eguale contenuto ma poste in essere in un contesto più ampio, avrebbero solo rilevanza in ambito civile con evidente profilo dí irragionevolezza del sistema (Sez. 6, n. 12517 del 28/03/2012, R. e altro, Rv. 252607).
4. Nella fattispecie, in sede di annullamento, la Suprema Corte aveva ordinato alla Corte territoriale di verificare innanzitutto l’esistenza di una situazione di para – familiarità e di uno stato di soggezione e subalternità della Ma. rispetto al M. , avendo riguardo “…non al numero dei dipendenti dell’azienda, alla durata del rapporto di lavoro, alla reiterazione delle condotte discriminatorie nei confronti di una pluralità di soggetti ed alla reazione della vittima, bensì, da un lato, alle dinamiche relazionali in seno all’azienda e, nello specifico, a quelle intercorrenti fra la lavoratrice ed i datori di lavoro imputati; dall’altro lato, all’esistenza o meno di una condizione di soggezione e subalternità della vittima, confrontandosi con le condotte, oggetto di specifica contestazione, attuate dai M. in danno della Ma. , quali… l’assegnazione a mansioni diverse e meno qualificanti da quelle svolte prima della maternità o addirittura a nessuna mansione…, nel ghettizzarla ed a lasciarla fuori da occasioni conviviali comuni ai lavoratori…, nell’adottare nei confronti della medesima provvedimenti disciplinari sino al licenziamento per giusta causa, poi riconosciuta dal giudice del lavoro come inesistente, e, quindi, nel rifiutare di dare attuazione al disposto reintegro nel posto di lavoro nonché, data forzata attuazione a tale provvedimento, nell’attuare comportamenti ostili, persecutori, denigratori e lesivi della dignità personale della dipendente…”, verificando “… se le condotte attuate… in danno della persona offesa siano connotate dai caratteri dell’abitualità, della sistematicità e dell’intenzionalità persecutoria…”.
5. Fermo quanto precede, il giudice del rinvio ha ritenuto la sussistenza dei presupposti per ravvisare un’ipotesi di c.d. “mobbing” lavorativo sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 572 cod. pen., assumendo che:
– la Stac Plastic aveva quale unico ed indiscusso “padrone” M.V. , che concentrava su di sé tutte le prerogative dirigenziali, riservandosi relazioni con clienti e fornitori, prendendo in assoluta autonomia tutte le decisioni concernenti i lavoratori, non potendo le sue determinazioni essere messe in discussione da nessuno;
– la relazione tra il datore di lavoro ed i dipendenti era stretta e continuativa, sostanziandosi in una presenza quotidiana in azienda e nell’imposizione diretta degli ordini: lo stesso datore di lavoro aveva spesso sottolineato la dimensione “artigianale” dell’impresa, definendo la Stac Plastic come “casa propria” e l’azienda come una “famiglia”, rivendicando il proprio diritto a decidere tutto, ivi compreso di “tenere la Ma. a fare niente” (v. esame Dutto ud. 23/12/2011);
– la coimputata M.S. aveva confermato il ruolo egemone del padre, ed in particolare lo stretto rapporto tra quest’ultimo ed i dipendenti, cosa che lo portava a farsi carico anche di problematiche di natura personale di questi ultimi (v. trasc. ud. 29/06/2012);
– gli stessi dipendenti della Stac Plastic non avevano avuto remore a descrivere la situazione aziendale come del tutto analoga a quella di una famiglia patriarcale di stampo tradizionale, in cui il padre (nella specie, il titolare) assumeva in piena autonomia tutte le decisioni che riguardavano i familiari (in questo caso, i dipendenti), le imponeva senza intermediari e senza confrontarsi con alcuno e si faceva carico di tutte le questioni che riguardavano i sottoposti, dai quali, però, non tollerava essere messo in discussione (v. dich. B.A., ud. 14/03/2011; dich. Tonni Patrizia, ud. 06/11/2012), essendo le idee dei lavoratori del tutto irrilevanti e comunque di scarsissimo peso.
Sempre il giudice del rinvio, aveva tratto la prova della ricorrenza di una situazione para – familiare dal fatto che M.V. era a conoscenza di alcuni aspetti della vita privata della Ma. e quest’ultima, nonostante i suoi frustrati tentativi di far valere i propri diritti, non solo non era stata riassegnata alle originarie mansioni ma addirittura era stata demansionata.
6. Fondato è il primo motivo comune di ricorso.
A parere del Collegio, la sentenza impugnata è nuovamente incorsa nel vizio motivazionale.
6.1. Invero, la circostanza del comprovato diretto coinvolgimento del datore di lavoro nell’azienda di piccole dimensioni (quale è la Stac Plastic) attraverso le condotte sopra descritte (assunzione di tutte le prerogative aziendali, adozione in autonomia assoluta di tutte le decisioni concernenti i lavoratori, presenza quotidiana in azienda, imposizione diretta degli ordini ai dipendenti), non configura, per ciò solo, una comunità para – familiare, idonea ad attrarre alla sfera dell’illiceità penale le eventuali condotte vessatorie poste in essere dal datore di lavoro.
6.2. Inoltre, l’assidua comunanza di vita – nella fattispecie, rimasta comunque indimostrata – deve tradursi, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 572 cod. pen., non in una generica presenza nel luogo di lavoro, bensì in una stretta ed intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente caratterizzata dalla condivisione di tutti i momenti tipici del contesto familiare (ad esempio, il consumo comune dei pasti, il pernottamento nei medesimi luoghi, la costante ed assidua vicinanza fisica, il mutuo soccorso, la solidarietà morale, la confidenzialità): in particolare, proprio con riferimento alla mera conoscenza di particolari della vita privata, va evidenziato come trattasi di elemento di carattere non decisivo ai fini della prova della para – familiarità in ambito lavorativo, ben potendo derivare detta conoscenza da ragioni strettamente legate al rapporto di lavoro in presenza di dati, lato sensu sensibili, che il lavoratore è tenuto a riferire al datore di lavoro (per permessi, malattia, reperibilità, variazioni d’orario) ovvero perché la confidenza potrebbe essere oggetto di un narrato estemporaneo rivelato in modo del tutto scollegato da ogni altro contesto.
6.3. Parimenti, anche con riferimento alla condizione di soggezione/subalternità della lavoratrice, v’è assenza di motivazione ovvero motivazione del tutto tautologica, nella parte in cui si sono ritenuti sufficienti, nella prospettiva probatoria, i tentativi della Ma. di far valere i propri diritti.
In realtà, lo stato di subordinazione/soggezione richiederebbe la prova (che, nella fattispecie, sembra non emergere) che il lavoratore “perseguitato” si trovi in una condizione di sostanziale “giogo” rispetto al datore di lavoro, ossia in uno stato nel quale lo stesso sia costretto ad accettare il sopruso, le mortificazioni ed un sostanziale isolamento, avendo cura di evitare qualsivoglia forma di ribellione per scongiurare il pericolo di incorrere in possibili sanzioni, finendo con il subire la propria autosvalutazione come “male” minore o, comunque, come conseguenza inevitabile del proprio stato.
7. Fondato è anche il secondo motivo di gravame.
Evidenziano i ricorrenti come nell’originario atto di appello avessero contestato l’impostazione accusatoria ponendo in evidenza le molte criticità della testimonianza della parte civile.
7.1. La Corte territoriale, con la sentenza del 07/02/2014, nell’assolvere gli imputati dal reato di cui all’art. 572 cod. pen. per carenza delle condizioni e dei presupposti della para – familiarità, non entrò nel merito degli accadimenti e delle singole condotte vessatorie e neppure operò il richiesto giudizio di attendibilità della testimonianza della parte civile.
7.2. Successivamente, in sede di rinvio, la Corte territoriale, nel ritenere sussistenti i presupposti del reato in contestazione, ha omesso di rispondere alle doglianze sollevate con l’originario atto di appello: censure che la difesa ha ritenuto dotate del requisito della decisività e, oltretutto, rafforzate dal materiale acquisito nell’ambito della perizia espletata in sede di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.
Invero, integra il vizio di mancanza della motivazione, l’omessa valutazione nella sentenza impugnata delle allegazioni difensive in astratto idonee ad incidere sulla valutazione di attendibilità della testimonianza della persona offesa (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 10758 del 29/01/2015, Giugliano, Rv. 263129). Né può ritenersi precluso al giudice di legittimità l’esame dei motivi di appello al fine di accertare la congruità e la completezza dell’apparato argomentativo adottato dal giudice di secondo grado con riferimento alle doglianze mosse alla decisione impugnata, rientrando nei compiti attribuiti dalla legge alla Suprema Corte la disamina della specificità o meno delle censure formulate con l’atto di appello quale necessario presupposto dell’ammissibilità del ricorso proposto davanti alla stessa Corte (Sez. 2, n. 4830 del 21/12/1994, dep. 1995, Loisi, Rv. 201268).
8. Dal complesso delle risultanze probatorie evidenziate in sede di merito, sia analiticamente che globalmente valutate, la Corte territoriale non risulta aver dimostrato la ricorrenza dei caratteri dell’abitualità, della sistematicità e dell’intenzionalità persecutoria in danno di Ma.Ca. necessari ad integrare la presenza di comportamenti vessatori e mortificanti la dignità della persona ai fini della configurabilità della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 572 cod. pen., omettendo di valutare se le condotte in esame potessero in astratto essere inquadrate nell’ambito di scelte decisionali motivate da ragioni di tipo strettamente fiduciario, pur se criticabili e lesive della sfera morale della persona offesa, che le ha percepite come denigratorie della propria professionalità e dignità di lavoratrice.
9. Ogni altra censura proposta (e segnatamente: il terzo motivo comune, relativo al dedotto vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del nesso causale tra la malattia della persona offesa ed il comportamento vessatorio del datore di lavoro; il motivo esclusivo nell’interesse di M.V. , relativo alla dedotta violazione di legge nonché al vizio di motivazione in relazione agli artt. 133, 163 e 164 cod. pen. (pag. 15 del ricorso); il motivo esclusivo nell’interesse di M.S. , relativo alla dedotta violazione di legge nonché al vizio di motivazione in relazione agli artt. 110, 572 cod. pen. (pag. 13 del ricorso) appare assorbita dalla presente pronuncia.
10. Al disposto annullamento consegue il rinvio degli atti ad altra sezione della Corte d’appello di Torino per nuovo giudizio. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità o gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 d.lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Torino.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità o gli altri dati identificativi 196/03 in quanto imposto dalla legge.

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