di Roberto Ibba
Psicologo del lavoro e delle organizzazioni, formatore, coach professionista e psicoterapeuta.
Il primo decennio d’inizio millennio ha rappresentato il periodo più instabile, dinamico, appassionante e al contempo contraddittorio della storia contemporanea. La tecnologia è esplosa ai massimi livelli e non c’è aspetto della nostra vita che non ne sia stato in qualche modo influenzato. E mentre, da un lato, le infrastrutture di telecomunicazione (umts, internet, satellite) hanno moltiplicato i possibili canali di comunicazione, allorché permettono di interagire in tempo reale con persone che si trovano agli antipodi, dall’altro è lecito domandarsi – a rischio persino di sembrare scettici o antimoderni – se proporzionalmente all’evoluzione di tali tecnologie sia anche cambiata, per il genere umano, la capacità di comunicare efficacemente e di comprendersi a vicenda.
Quel che è sicuro è che è aumentata in modo esponenziale la quantità di messaggi scambiati; ma riteniamo perciò minimamente appagato il bisogno-desiderio di comunicare? Forse in realtà noi tutti stiamo ancora vivendo, e per molti versi subendo, l’impatto di complesse trasformazioni epocali sulle nostre vite e di conseguenza nei rispettivi ambiti di convivenza, per poterci pronunciare convintamente a tale riguardo.
È evidente che siamo in presenza di una doppia velocità: quella dell’innovazione tecnologica da una parte e quella del progresso sociale e civile, dall’altra. E mentre una corre senza sosta, l’altra, certe volte, dà l’impressione di rallentare, e persino di procedere all’indietro, anche se ci sono talvolta segnali provenienti dalla società civile che ci fanno essere ottimisti a riguardo. La maggior parte delle persone sono, ad ogni modo, alla ricerca di un faticoso adattamento rispetto alla complessità del vivere e avvertono la difficoltà di essere pienamente consapevoli di ciò che realmente può costituire, per loro stessi, una vita migliore (oltre a interrogarsi su cosa fare per raggiungerla).
A tale riguardo sono stati scritti trattati da parte di illustri studiosi di psicologia, filosofia, economia e teologia; non è pertanto mia prerogativa potermi pronunciare in merito. Intendo dare solo un modesto contributo alla riflessione, traendo ispirazione dalle innovative conclusioni, cui sono pervenuti gli economisti della commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi [1], rielaborate però nell’ottica della psicologia del lavoro e delle organizzazioni. Secondo gli approcci tradizionali basati su misure economiche, il benessere di un Paese e, di conseguenza dei suoi abitanti, si stabilisce a partire dal valore d’incremento economico.
Per stimare il benessere di un’economia si utilizza il valore misurato attraverso il totale dei beni e dei servizi prodotti in un determinato Stato, indicato dalla Produzione e dal Reddito Nazionale, ossia dal Pil (Prodotto Interno Lordo).
Il limite significativo di un tale approccio è rappresentato dal fatto che esso risulta composto da misure grezze: il totale delle attività economiche. Non si valuta, ad esempio, la differenza tra prezzo pagato e valore ricevuto a livello individuale. Se da una parte il PIL misura anche quelle attività economiche che sono conseguenza d’inefficienza e di spreco, dall’altra esso elude di misurare tutta una serie di attività importanti, per la semplice ragione che esse sfuggono ai suoi indicatori. Basti fare il seguente esempio: mentre il reddito dichiarato dalle baby-sitter contribuisce al PIL, il reddito che non viene corrisposto alle madri per la cura dei figli non contribuisce al PIL, pur tuttavia ambedue le attività hanno lo stesso reale valore economico di sostegno al reddito familiare.
Ma soprattutto, il paradosso è che non si fa distinzione tra le attività che contribuiscono alla percezione di benessere e le attività che non vi contribuiscono: qualsiasi operazione o attività economica in quanto tale è ritenuta positiva e persino le attività di riparazione dei danni causati da attività umane, come ad esempio le guerre, finiscono per aumentare il PIL [2].
E ancora un altro esempio: uno spazio di verde trasformato in un’area parcheggio di automobili, o meglio, in un ennesimo edificio residenziale, è considerato, da questi indicatori, come un fatto positivo di sviluppo, senza prendere atto della distruzione del capitale naturale che ne consegue. Quando entrò in crisi il modello economico di stima dello sviluppo e del benessere, il tentativo di superare quegli elementi negativi propri degli approcci strettamente economici, ha consentito ai ricercatori sociali di guadagnare sempre maggiore credito nell’ambito della comunità scientifica internazionale. Questi studiosi, nell’arco di vari decenni di ricerca, hanno contribuito a definire strumenti quanto mai complessi, come gli indicatori sociali, attribuendo, progressivamente, maggior importanza ai sentimenti, alle emozioni ed alle aspirazioni delle persone e, soprattutto, descrivendo la notevole variabilità soggettiva con cui vengono percepiti tali aspetti (per loro natura squisitamente soggettivi) ai fini della stima del benessere. Si deve a questi stessi ricercatori, l’aver delineato nuove prospettive di ricerca basate sulla misura degli elementi qualitativi dell’attività produttiva. Con il proposito di rilevare le dimensioni più significative dello sviluppo economico, essi hanno sempre promosso indagini, survey, centrate sugli individui, fino a poi giungere, in anni più recenti, agli approcci basati su misure squisitamente soggettive.
Uno dei sistemi più evoluti nella determinazione del benessere soggettivo è il World Database of Happiness (WDH), un registro in continuo aggiornamento, che memorizza i risultati delle ricerche disponibili condotte sulla “felicità”. L’obiettivo che si prefigge è di scoprire quali ambienti forniscono le migliori possibilità per una vita felice e quali stili di vita favoriscono la felicità. Per la sua realizzazione Ruut Veenohven, l’ideatore del database, è partito dalla definizione di felicità, concepita come un giudizio soggettivo sulla qualità della vita, considerata nella sua globalità e complessità. La felicità – secondo Veenohven – non è dunque valutata in riferimento a degli specifici aspetti della vita, bensì è riferita alla soddisfazione nel suo insieme e pertanto indica un apprezzamento di natura tipicamente soggettiva. La valutazione sulla qualità globale è considerata frutto di un processo di costruzione, in cui i vari elementi vengono esaminati ed ordinati dal soggetto stesso e ciò implica che ogni aspetto abbia un peso relativo nella valutazione, tanto che è possibile affermare che non emerge alcuno standard oggettivo di felicità. A partire da tale tipologia di analisi, quali sono le ricadute che riguardano in particolare il mondo del lavoro?
Proviamo a considerare, a tale riguardo, un paradosso, quello per cui quando la persona è occupata, le condizioni lavorative [3] che egli si trova a vivere hanno le caratteristiche per diventare una delle fonti principali di benessere ma spesso anche, com’è noto, di malessere. Se, viceversa, la persona è inoccupata o peggio ancora disoccupata – ancorché sostenuta economicamente –, egli percepisce come principale ostacolo al raggiungimento del proprio benessere psicologico non tanto l’assenza di lavoro (E. Jaques affermava che l’appartenenza a sistemi sociali protegge dalle angosce psicotiche che minacciano il proprio benessere psicologico [4]), quanto la mancanza di una condizione lavorativa da egli ritenuta soddisfacente. Da ciò deduciamo che non è l’avere o no un qualsivoglia lavoro a fare la differenza in termini di benessere, ma la qualità del lavoro in sé: il benessere lavorativo rappresenta una dimensione rilevante di soddisfazione esistenziale (e di sviluppo della psiche), in misura dell’investimento emotivo, cognitivo e valoriale da parte del soggetto.
Il benessere e la qualità della vita possono essere analizzati valutandone gli indicatori oggettivi, come il reddito, le condizioni di salute e lo status sociale. Tuttavia, i soli fattori oggettivi – in particolare gli indicatori economici – non forniscono una valutazione adeguata delle risorse di un individuo, del suo livello di integrazione sociale e del suo successo nel perseguire obiettivi professionali e personali. Tali fattori non permettono neppure di trarre conclusioni definitive sul livello di benessere di una nazione, o di una comunità.
(Veenhoven, 2002)
Ma se la qualità di vita percepita dipende in larga misura dal benessere lavorativo ed esso, come sappiamo, è in stretta correlazione con il benessere organizzativo, applicando la proprietà transitiva – anche in considerazione del ruolo che la vita lavorativa occupa nella realtà dei singoli – possiamo dedurre che esista una forte correlazione tra qualità della vita e benessere organizzativo, che si estrinseca attraverso le dimensioni del benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori in ogni tipo di mansione.
È possibile sostenere che le condizioni che costituiscono nel suo insieme il benessere organizzativo non dipendano solo da elementi economici e strutturali, quanto piuttosto dalla combinazione di fattori micro e macro e dal substrato di concezioni, credenze e valori, chiamato “cultura organizzativa” (Pettigrew 1979; Siehl e Martin 1984; Shein, 1985, Morgan, 1986; Van Maanen 1988; Trice and Beyer 1993) [5], ognuna delle cui molteplici declinazioni “contiene in sé” una propria rappresentazione di ciò che significa benessere soggettivo.
Così come gli individui possiedono una propria identità, che li rende unici e da cui, in ultima analisi, derivano stati d’animo e comportamenti che possono facilitare o ostacolare la ricerca del proprio benessere, altrettanto le organizzazioni hanno un loro equivalente nella cultura, che è la conseguenza sia dell’influenza della personalità e della salute mentale del leader, sia dell’evoluzione socioeconomica dell’azienda. Non sempre i costrutti di benessere e cultura sono palesi, consapevoli, in grado per ciò stesso di essere esplicitati ed analizzati, anzi tali costrutti il più delle volte sono inconsapevoli, taciti. Proprio per la loro complessità e tendenza ad occultarsi nella ritualità del quotidiano (e del «si è sempre fatto così…») è necessario utilizzare mezzi e metodi appropriati per rilevare le notevoli sfumature e peculiarità con cui si manifestano ad un occhio esperto.
Nei contesti organizzativi la psicologia del lavoro offre risorse metodologiche che consentono di incrementare la consapevolezza circa le concezioni disfunzionali alla base di certe prassi organizzative che si rivelano a lungo andare inefficaci e inefficienti a fornire le condizioni di benessere organizzativo. Ciò è possibile mediante la ricerca di significati dell’agire, al fine di far emergere i modelli organizzativi disfunzionali, alla base del sentimento di malessere lavorativo. Si delinea pertanto una tipologia di contributo professionale volto a costruire modelli di relazione positiva in riferimento al contesto, migliorando la competenza globale alla convivenza, agendo psicologicamente sui gruppi e sull’individuo [6].
Per L. Amovilli, l’intervento psicologico non deriva solo da “contenuti” e “modalità”, esso deve affrontare anche il tema del consenso relativo al processo organizzativo in esame, perché il consenso sostiene la costruzione di comportamenti e processi di pensiero (Amovilli, 2004, pag. 72). Nell’ambito della promozione del benessere organizzativo lo psicologo del lavoro è, quindi, un professionista facilitatore che aiuta i sistemi e le persone a intervenire [7] sugli eventi della propria realtà lavorativa contribuendo, con strumenti e metodi appropriati al contesto, a costruire modalità alternative più funzionali alla convivenza e ai processi in modo da ottenere i risultati di business più efficaci, in armonia con i valori di riferimento. È una figura professionale in grado di contribuire a riorientare i processi in funzione di specifiche domande, con la finalità di produrre conoscenza e cambiamento, mediante un percorso di consapevolezza e apprendimento, e che può avvalersi anche di approcci innovativi come il coaching.
NOTE
[1] La più completa requisitoria contro il Pil, al più alto tasso di Premi Nobel (se ne contano ben 5 tra gli studiosi coinvolti) attualmente disponibile.
[2] Robert Kennedy lo spiegò con chiarezza nel discorso pronunciato all’Università del Kansas il 18 marzo 1968.
[3] A tale riguardo possiamo citare il notevole filone di studi e interventi che hanno come oggetto lo stress da lavoro correlato, reso importante dalla legge 81/2009 e s. m., che ha come tema la sicurezza lavorativa.
[4] E. Jaques, I sistemi sociali come difesa dall’ansia persecutoria e depressiva, in Nuove vie della psicoanalisi, a cura di M. Klein, Il Saggiatore, Milano, 1966.
[5] Non è questa la sede per illustrare tutti gli aspetti e le implicazioni di tale costrutto scientifico, tuttavia è bene ricordare che esiste un’ampia letteratura nell’ambito delle discipline organizzative, che abbraccia oltre mezzo secolo in cui questo approccio di ricerca e intervento ha trovato ampia applicazione e riconoscimento nella comunità scientifica e manageriale.
[6] Per comprendere la natura dell’intervento psicologico nei contesti lavorativi è possibile concepire come una forma sotegno alla partecipazione attiva, finalizzata ad una “riflessione – azione” nei riguardi dei processi organizzativi.
[7] Dal latino intervenio, nell’accezione di partecipare. Dizionario Enciclopedico Italiano.