La disciplina normativa che informa la materia della prevenzione degli infortuni sul lavoro, come noto, configura la responsabilità del datore di lavoro individuandolo quale destinatario dell’obbligo di adozione delle misure di prevenzione e di sorveglianza a tutela del lavoratore al fine di ridurre l’incidenza statistica degli eventi di danno.
La sintesi tra il diritto formale e la sua applicazione alle singole fattispecie compiuta dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, consente di registrare un orientamento piuttosto restrittivo che, di fatto, nell’ambito del processo penale rende particolarmente oneroso l’impegno difensivo richiesto per evitare l’affermazione della penale responsabilità, anche in situazioni ove non vi siano sostanziali addebiti da ascrivere al datore di lavoro.
Tuttavia nell’alveo della continua evoluzione giurisprudenziale ritengo interessante segnalare ai lettori di Repertorio Salute un recente arresto giurisprudenziale (Cass. Pen. Sez. IV, sent. 26.06.2014 (depositata il 29.7.2014), n. 33417/14) che tratta trasversalmente più temi riconducibili alla responsabilità del datore di lavoro e, segnatamente, quelli della delega di funzioni e del nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento lesivo cagionato al lavoratore.
Il fatto addebitato per il quale risultava imputato il legale rappresentante di un’impresa di grandi dimensioni, aveva ad oggetto la condotta di un dipendente rimasto gravemente infortunato a seguito della caduta da una scala non aperta a forbice, come previsto dalle istruzioni del fabbricante, di talché, la Procura competente, aveva contestato al prevenuto gli artt. 35, comma 4, lett.a) d.lgs. n.626/94 (per non aver preso le misure necessarie affinché l’attrezzatura di lavoro fosse installata in conformità con le istruzioni del fabbricante ed utilizzata correttamente) e 590, secondo e terzo comma, c.p. (lesioni colpose cagionate con colpa generica e specifica).
La condanna inflitta in primo grado dal Tribunale di Teramo poi confermata dalla Corte di Appello di l’Aquila, per quanto è possibile evincere dalla lettura della sentenza in commento, risultava fondata sulla ritenuta responsabilità del datore di lavoro a causa dell’erronea modalità di utilizzo della scala che non poteva essere esclusa né dal comportamento del lavoratore ritenuto scevro da profili di abnormità, anomalia ed eccezionalità, né dalla complessità della struttura dell’azienda.
La Suprema corte, nel dirimere i profili di legittimità sollevati con i motivi di ricorso, rivisitando criticamente le argomentazioni dedotte nella sentenza resa in grado di appello, ne ha disposto l’annullamento senza rinvio, affermando il principio secondo il quale in un’azienda di grandi dimensioni il legale rappresentante di una società non può ritenersi automaticamente responsabile di ogni violazione degli obblighi antinfortunistici, qualora per il rispetto delle cautele delle misure prevenzionistiche abbia specificamente investito dei preposti, tecnicamente idonei e capaci, perciò tenuti a far osservare le regole di condotta all’uopo imposte. E l’obbligo del datore di lavoro (corollario della sua posizione di garanzia) di sorvegliare ed accertare che il preposto usi concretamente ed effettivamente i poteri determinativi e direzionali attribuitigli, non può estendersi sino a richiedere la continua presenza del datore di lavoro in ogni locale aziendale all’interno di un’impresa di grandi dimensioni perché, opinando diversamente, come sostenuto dai Giudici del merito, si configurerebbe una forma di responsabilità oggettiva.
Inoltre, nel riformare la sentenza impugnata, la Corte di Cassazione, richiamando un già esistente orientamento giurisprudenziale ha precisato, altresì, che pur in assenza di delega formale i collaboratori del datore di lavoro (dirigenti e preposti) per il fatto stesso di essere inquadrati come tali all’interno dell’organigramma aziendale, nell’ambito delle rispettive competenze ed attribuzioni, risultano destinatari iure proprio dell’osservanza dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega ad hoc, sotto tale profilo ritenuta non indispensabile.
È interessante segnalare l’ulteriore passaggio della parte motiva della sentenza in commento relativo alla ritenuta insussistenza del nesso di causalità laddove, la Suprema corte, degradando il percorso logico seguito dalla Corte di Appello a mera congettura difficilmente avallabile anche solo sul piano logico e delle regole di comune esperienza, ha ritenuto insussistente il rapporto eziologico tra la asserita condotta omissiva e l’evento, osservando che quest’ultimo si era determinato in via del tutto accidentale trattandosi, verosimilmente, di mero scivolamento dell’operaio nel discendere la scala.