Omessa manutenzione degli impianti elettrici. Se due sono le società utilizzatrici di tali apparecchiature, due saranno le società responsabilli delle omissioni.
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: ANDRONIO ALESSANDRO MARIA
Data Udienza: 24/04/2015
Fatto
1. – Il Tribunale di Cassino ha condannato l’imputato alla pena di euro 4000,00 di ammenda, concesse le circostanze attenuanti generiche, per i reati di cui agli artt. 64, comma 1, lettere e) ed e), 68, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 81 del 2008, perché, quale legale rappresentante di una società, ometteva di sottoporre gli impianti elettrici a regolare manutenzione, non provvedeva ad eliminare i difetti idonei a pregiudicare la sicurezza dei lavoratori e ometteva di sottoporre gli impianti e i dispositivi di sicurezza destinati alla prevenzione alla regolare manutenzione e al controllo di funzionalità (il 18 agosto 2009).
2. – Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, un’impugnazione qualificata come appello, con la quale chiede, in primo luogo, di essere assolto, sul rilievo che nei locali dello stesso stabilimento operava anche un’altra società che utilizzava le stesse apparecchiature, cosicché non si poteva dire sufficientemente accertato a quale società fossero da imputare le violazioni contestate. In punto di pena, poi, il giudice avrebbe dovuto applicare l’art. 68, comma 2, del d.lgs. n. 81 del 2008, in forza del quale la violazione di più precetti riconducibili alla categoria omogenea di requisiti di sicurezza relativi ai luoghi di lavoro di cui all’allegato 4 [punti elencati] è considerata un’unica violazione e punita con la pena prevista dal comma 1, lettera b), dello stesso articolo.
Diritto
3. – L’impugnazione – che deve essere qualificata come ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen., perché proposta contro sentenza non appellabile, ai sensi dell’art. 593, comma 3, cod. proc. pen., in quanto recante condanna alla sola pena dell’ammenda – è inammissibile.
Il ricorrente non formula censure relative a lacune o vizi logici della motivazione, limitandosi a contestare nel merito la valutazione dei fatti. In particolare, sostiene che presso lo stabilimento operavano due diverse società, ma non contesta di entrambe le società, ovvero anche la sua, utilizzassero gli stessi locali e le stesse apparecchiature in relazione alle quali sono state riscontrate le contestate contravvenzioni e che fossero, dunque, entrambe obbligate all’osservanza delle disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro.
Né può trovare applicazione nel caso di specie la disposizione dell’art. 68, comma 2, del d.lgs. n. 81 del 2008, secondo cui la violazione di più precetti riconducibili alla categoria omogenea di requisiti di sicurezza relativi ai luoghi di lavoro di cui all’allegato IV, punti 1.1, 1.2, 1.3, 1.4, 1.5, 1.6, 1.7, 1.8, 1.9, 1. 10, 1.11, 1.12, 1.13, 1.14, 2.1, 2.2, 3, 4, 6.1, 6.2, 6.3, 6.4, 6.5, e 6.6, è considerata una unica violazione ed è punita con la pena prevista dal comma 1, lettera b). Le fattispecie alle quali tale disposizione si riferisce sono, infatti, del tutto diverse rispetto alle violazioni dell’art. 64, lettere c) ed e), qui contestate.
4. – Non può essere dichiarata la prescrizione dei reati contravvenzionali (contestati come commessi il 18 agosto 2009), che sarebbe maturata il 18 agosto 2014, dopo la pronuncia della sentenza impugnata. A fronte di un ricorso inammissibile, quale quello in esame, trova infatti applicazione il principio, costantemente enunciato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen., ivi compresa la prescrizione, è preclusa dall’inammissibilità del ricorso per cassazione, anche dovuta alla genericità o alla manifesta infondatezza dei motivi, che non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione (ex multis, sez. 3, 8 ottobre 2009, n. 42839; sez. 1, 4 giugno 2008, n. 24688; sez. un., 22 marzo 2005, n. 4).
Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in€ 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 24 aprile 2015.