Repertorio Salute

Cassazione Penale, Sez. 4, 04 agosto 2015, n. 34085

Infortunio di un capofficina durante il collaudo di una macchina fresatrice. Prassi tollerata di rimozione del presidio di sicurezza e responsabilità datoriale.


 

Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: FOTI GIACOMO
Data Udienza: 26/02/2015

Fatto

-1- P.S. ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Firenze, del 18 ottobre 2013, che ha confermato la sentenza del tribunale della stessa città, sezione distaccata di Pontassieve, che lo ha ritenuto colpevole del reato di lesioni colpose gravi, aggravate dalla violazione di norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, in pregiudizio di G.V..
Secondo l’accusa, condivisa dai giudici del merito, l’imputato, nella qualità di amministratore delegato della “A. Coop s.r.l.”, e quindi di datore di lavoro del G.V., per colpa generica e specifica, quest’ultima individuata nella violazione degli artt. 35 co. 4 lett. b e 89 co. 2 del d.lg.vo n. 626/94, ha determinato un infortunio a causa del quale il dipendente ha subito lesioni alle mani, con conseguente stato di malattia per un periodo superiore ai quaranta giorni.
L’infortunio si è verificato mentre il G.V., capofficina da dieci anni, era intento alla registrazione ed al collaudo finale di una macchina fresatrice prodotta dall’azienda. Neil’eseguire tale operazione, il lavoratore è rimasto ferito alle mani, avendo volontariamente disinserito il sistema di sicurezza, di cui era fornita la fresatrice, che, quando la macchina era in movimento, faceva abbassare automaticamente il carter di protezione. Tale imprudente manovra, secondo quanto riferito dallo stesso lavoratore infortunato e da alcuni suoi compagni di lavoro, costituiva una prassi operativa che egli utilizzava normalmente “per vederci meglio”.
Le corte d’appello, dopo avere escluso che il P.S. avesse in alcun modo violato il dovere di formazione e di informazione del dipendente, che aveva una specifica e pluriennale competenza ed esperienza, avendo anche partecipato alla progettazione della macchina alla quale era addetto, e dopo avere dato atto del concorso di colpa della vittima nella determinazione dell’infortunio, ha rilevato un specifico profilo di colpa nella condotta dello stesso per avere quantomeno tollerato la pericolosa prassi operativa instauratasi tra i lavoratori, in forza della quale il collaudo delle macchine avveniva previa esclusione del sistema di sicurezza. Prassi a fronte della quale l’imputato aveva tenuto un atteggiamento negligente, avendo omesso di vigilare e di intervenire per impedirla.
Di qui la conferma della sentenza di condanna. ”
-2- Avverso detta decisione ricorre, dunque, il P.S., che deduce:
a) Inosservanza o erronea applicazione della legge e vizio di motivazione della sentenza impugnata.
Si sostiene nel ricorso che nessun addebito di colpa possa muoversi all’imputato e che l’infortunio è stato causato dalla condotta abnorme del lavoratore, idonea ad interrompere qualsiasi nesso causale fra un’eventuale condotta negligente del datore di lavoro e l’evento determinatosi. Il G.V., invero, disattendendo precise ed a lui note norme antinfortunistiche, aveva consapevolmente disinserito il sistema di sicurezza, pur essendo perfettamente consapevole dei rischi cui andava incontro. Si è trattato, quindi, secondo il ricorrente, di un comportamento gravemente colposo del lavoratore, al quale deve unicamente ricondursi l’infortunio, con conseguente esonero di responsabilità del datore di lavoro.
Quanto al tema della prassi operativa instauratasi nell’azienda, osserva il ricorrente che essa non ha avuto alcuna influenza causale, avendo la stessa corte territoriale osservato che nessun rilievo può avere il fatto che gli altri operai potessero non avere ricevuto un’adeguata formazione e informazione sui rischi che comportavano gli interventi sulla macchina. Se una prassi è esistita, si sostiene nel ricorso, essa non ha avuto alcuna efficacia causale. Non è stato, peraltro, in nessun modo accertato che l’imputato avesse tollerato una prassi pericolosa, non essendo stato mai provato che lo stesso ne fosse stato a conoscenza né che un controllo più pressante da parte del datore di lavoro avrebbe impedito l’evento.
b) Inosservanza o erronea applicazione della legge e vizio di motivazione della sentenza impugnata in punto di mancata declaratoria di improcedibilità per mancanza di querela e di determinazione della pena.

Diritto

Il ricorso è infondato.
Il ricorrente, in realtà, attraverso la prospettazione di vizi motivazionali e di violazione di legge, ripropone questioni già poste all’attenzione dei giudici di ambedue i gradi del giudizio di merito che le hanno respinte avendole ritenute del tutto infondate.
-1- Sulle questioni poste dal ricorrente all’attenzione della Corte con il primo motivo di ricorso – concernenti la colpa del lavoratore e la presenza della prassi operativa che caratterizzava il lavoro di registrazione e di collaudo delle macchine fresatrici, come quella sulla quale si è verificato l’infortunio – si sono invero già compiutamente espressi i predetti giudici. Questi, con decisione conforme e del tutto condivisibile, hanno, come già sopra osservato, da un lato, dato atto della condotta imprudente del lavoratore, dall’altro, rilevato che dagli atti era emersa una pericolosa prassi operativa che induceva i collaudatori delle macchine, come il G.V., ad eseguire il proprio intervento dopo avere disinserito il sistema di sicurezza di cui le fresatrici erano dotate.
Sotto ambedue gli aspetti prospettati, i giudici hanno reso motivazione del tutto coerente ed in sintonia con i principi a tale proposito affermati da questa Corte, pur ampiamente dagli stessi richiamati. Essi hanno, in particolare, giustamente sostenuto che al datore di lavoro non si richiede solo di assicurare al dipendente un’adeguata formazione professionale ed una specifica informazione circa i rischi connessi con l’attività di lavoro svolta (sotto tale profilo, come già osservato, la corte d’appello non ha rinvenuto violazioni di sorta addebitabili all’imputato), né solo di mettere a disposizione dello stesso presidi di sicurezza idonei ad evitare il pericolo di infortuni (sotto tale profilo nessun addebito è stato rivolto all’imputato), ma anche di vigilare costantemente le modalità di esecuzione dei lavori affidati, al fine verificare che essi si svolgano nel rispetto delle norme antinfortunistiche e con l’utilizzo dei previsti presidi di sicurezza, attraverso la pratica attuazione, da parte dei lavoratori, delle conoscenze acquisite e delle informazioni ricevute.
Di guisa che, è stato giustamente e conclusivamente sostenuto, l’omessa vigilanza dei dipendenti, nei termini sopra indicati, rappresenta specifica violazione degli obblighi che gravavano sul P.S.. Condotta che certamente integra il reato allo stesso oggi contestato.
Hanno, dunque, i giudici del gravame ben considerato la condotta del lavoratore, e ne hanno rilevata l’imprudenza laddove alle operazioni di registrazione e di collaudo egli procedeva dopo avere disinserito il sistema di sicurezza (“per vederci meglio”). Imprudenza, tuttavia, giustamente ritenuta, alla stregua dei principi affermati sul punto da questa Corte in numerose decisioni, talune delle quali espressamente citate nelle sentenze di merito, del tutto ininfluente ai fini della esclusione della responsabilità del datore di lavoro, la cui posizione di garanzia, è stato giustamente affermato, gli impone di tutelare il lavoratore anche dagli incidenti dovuti a sua disattenzione o imprudenza.
Salvo che la condotta dello stesso si riveli del tutto abnorme, imprevedibile ed esorbitante rispetto alle mansioni affidate; laddove è stato tuttavia ritenuto, in tema di infortuni sul lavoro, che il concetto di “abnormità” implica che il lavoratore abbia posto in essere una condotta del tutto avulsa rispetto alla mansioni affidategli, una condotta imprevedibile, ontologicamente lontana dalle ipotizzabili scelte del lavoratore. Ipotesi giustamente esclusa nel caso del G.V., la cui condotta è stata motivatamente ritenuta del tutto riconducibile nell’ambito dei compiti allo stesso assegnati, e quindi prevedibile, in quanto correlata al desiderio dell’operaio di espletare la propria ordinaria attività di lavoro più facilmente e velocemente.
Quanto al tema della prassi operativa, i giudici hanno osservato che di essa si era avuta precisa notizia, non solo dal lavoratore infortunato, ma anche dal teste, ispettore B., il quale aveva riferito di avere notato, in sede di sopralluogo eseguito dopo l’incidente, altri due operai (D. e M.), addetti alle stesse operazioni in occasione delle quali si era verificato l’incidente, svolgere il loro compito con le stesse pericolose modalità operative del G.V.. Dichiarazioni giustamente ritenute significative, poiché attestavano che l’infortunio patito da quest’ultimo non era la semplice conseguenza di una banale ed occasionale disattenzione dell’operatore, bensì di un’abitudine di lavoro che riguardava, non solo l’odierno infortunato, ma anche i suoi compagni di lavoro e di mansioni.
Di qui, la legittima conclusione dei giudici secondo cui si era instaurata, nell’esecuzione delle operazioni di registrazione e collaudo delle macchine fresatrici, una vera e propria prassi operativa estremamente rischiosa, la cui eliminazione spettava proprio all’odierno ricorrente che, invece di proibirla, l’ha quantomeno tollerata; non avendo egli, comunque, adeguatamente vigilato per impedire che la stessa si formasse e continuasse a manifestarsi.
Né può il ricorrente oggi sostenere non esservi prova della sua consapevolezza di detta prassi. Deve, in proposito, invero osservarsi che le richiamate, da parte dei giudici del merito, abitualità e generalità di detta prassi, e quindi la sua evidenza, erano tali da non potere essere ignote al datore di lavoro; al quale, peraltro, spettano, come si è già osservato, i doveri di attenta e costante vigilanza dell’effettivo e generale rispetto delle norme di sicurezza e di sollecito intervento al fine di eliminarne l’inosservanza. Di guisa che, anche l’omessa vigilanza integra una specifica violazione di legge, della quale il datore di lavoro è chiamato a rispondere.
Non può, quindi, condividersi, e non rileva nel caso in esame, la tesi del P.S., secondo cui non sarebbe stato provato che egli fosse a conoscenza di tale prassi, atteso che l’ignoranza della stessa, ove effettivamente riscontrabile, non ne esclude la responsabilità per il reato contestato.
Sembra, infine del tutto evidente il rapporto causale tra la condotta addebitata all’imputato e l’evento verificatosi, laddove si consideri che, se costui avesse rispettato i propri doveri, come sopra richiamati, il G.V. non avrebbe iniziato, tanto meno continuato, a svolgere le mansioni affidategli con le stesse rischiose modalità operative, e dunque l’incidente non si sarebbe verificato.
-2- Inammissibili sono le censure concernenti la mancanza di querela, che avrebbe dovuto indurre i giudici ad emettere declaratoria d’improcedibilità, e l’entità della pena irrogata.
Ambedue tali tematiche sono state congniamente esaminate dalla corte territoriale e definite in senso opposto alle tesi difensive, con motivazione del tutto esaustiva e coerente, rispettosa delle norme di riferimento.
Quanto alla prima questione, la corte territoriale ha osservato, da un lato, che l’affermazione del G.V. di essere guarito entro il 37° giorno si presentava approssimativa e generica, dall’altro, che la data di guarigione emergeva dalla documentazione medica acquisita, che attestava come le lesioni riportate dal G.V. fossero guarite oltre il 40° giorno. Il che esclude che, su una circostanza di puro fatto, attentamente verificata dai giudici del merito, possano proporsi ulteriori contestazioni nella presente sede di legittimità.
Quanto alla pena, le doglianze del ricorrente si presentano manifestamente infondate, avendo i giudici del gravame, attraverso un corretto esercizio del potere discrezionale che la legge loro riconosce in materia, legittimamente ritenuto che la stessa doveva considerarsi congrua e commisurata ai fatti, essendo stata anche ridotta per le attenuanti generiche e sostituita la pena detentiva con quella pecuniaria.
Il ricorso deve essere, dunque, rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 26 febbraio 2015.

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