All’art 375 DPR 547/55 si prescrive che, per l’esecuzione di lavori di riparazione o manutenzione di qualsiasi macchinario da effettuarsi unicamente ad impianto fermo debbano essere previste ed adottate misure di sicurezza idonee ad evitare pericoli per chi effettui i lavori di riparazione o manutenzione. Inoltre, la giostra in questione, pur non rientrando nella tipologia di macchinari soggetti alla normativa prevista dal DPR n. 459/96, imponeva al produttore ex D.Lvo n. 115/95 (ndr. decreto abrogato dal dlgs 172/2004; vd. anche dlgs 206/2005) la sicurezza strutturale del macchinario ed al giostraio invece l’onere di predisporre ex art 35 D.Lvo n. 626/94 presidi antinfortunistici idonei a garantire la sicurezza dei lavoratori e di terzi avventori e segnaletica atta a segnalare il possibile pericolo.
Nel caso di specie, invece, i giudici del merito danno atto in motivazione che l’imputato aveva del tutto omesso di effettuare il preventivo piano di valutazione dei rischi (ex art 4, commi 1 e 11 del citato decreto legislativo), avendo predisposto solo alcune transenne amovibili ai lati della giostra (peraltro finalizzate ad altro, e nello specifico ad indirizzare gli avventori verso la cabina anche per pagare il biglietti di ingresso) senza alcuna reale funzione di prevenzione e sicurezza per i lavoratori”.
Fatto
1. La Corte di Appello dì Salerno, pronunciando nei confronti dell’odierno ricorrente, T.L., con sentenza del 17.3.2014, confermava la sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore, emessa in data 9.2.2012, con condanna al pagamento delle spese processuali.
Il G.M. del Tribunale di Nocera Inferiore, all’esito di giudizio ordinario, aveva dichiarato T.L. responsabile del reato p. e p. dagli artt. 113-589 co. 2° cod. pen. perché, in cooperazione con il fratello T.A. , entrambi quali datori di lavoro e utilizzatori e committenti delle prestazioni lavorative, il primo (T.L.) anche quale proprietario della giostra denominata “tappetino” o “Jamaica”, ciascuno tenendo in essere una condotta colposa produttiva dell’evento, per colpa consistita in imprudenza, imperizia e negligenza ovvero nell’inosservanza delle norme precauzionali (nella specie violazione degli artt. 375 dpr 547 del 27/04/55, 35, 4 co. 1 e 11 del D.Lvo 626/94) e segnatamente nell’aver fatto eseguire al lavoratore C.F. il lavoro di riparazione della giostrina denominata “Jamaica ‘ mentre la macchina era in movimento e, comunque, senza predisporre adeguate misure di sicurezza atte ad inibire l’accesso agli organi pericolosi in movimento, cagionavano la morte del predetto C.F. il quale, mentre era intento ad eseguire la riparazione della giostrina veniva colpito alla nuca da un elemento pericoloso in moto. In Roccapiemonte il 14/08/2006
Il giudice di prime cure assolveva T.A. dal reato a lui ascritto per non aver commesso il fatto, mentre condannava l’odierno ricorrente T.L., concessegli le circostanze attenuanti generiche, valutate come equivalenti alla contestata aggravante, alla pena di anni uno di reclusione, con la sospensione condizionale della pena, oltre al pagamento delle spese processuali e al risarcimento danni in favore delle costituite parti civili, con una provvisionale di € 12.000,00 e rifusione della spese alla costituita parte civile.
2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, T.L., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:
a. Violazione dell’art. 606, lett. e) cod. proc. pen. per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla mancata risposta alle doglianze difensive, dotate del requisito della decisività, contenute nei motivi di appello ed alla decisione di non disporre la rinnovazione parziale del dibattimento ordinando perizia per la corretta ricostruzione del sinistro.
Il ricorrente deduce che la sentenza impugnata, dopo aver richiamato i motivi di impugnazione, non avrebbe motivato sulle doglianze, omettendo l’autonoma e doverosa disamina delle stesse.
Ci si duole, in particolare, che la sentenza, alle pagine 9 e 10, sembrerebbe condividere le doglianze difensive circa il grado di efficacia impeditiva del danno del comportamento omesso dal ricorrente, in presenza di una condotta del lavoratore anomala, imprevista e imprevedibile, senza tuttavia trarne le conseguenze in punto di decisione.
L’accertamento del comportamento del lavoratore, unitamente alla verifica della disposizione impartita allo stesso di riparare la componente meccanica, sarebbe stato, secondo il ricorrente, indispensabile al fine di comprendere, se ove fosse stata compiuta l’azione dovuta da parte del datore di lavoro, l’evento lesivo si sarebbe ugualmente verificato.
Il ricorrente si riporta, poi, al contrasto tra le consulenze espletate, che non consentirebbe di spiegare la posizione assunta dal lavoratore in ragione delle lesioni che ne cagionavano la morte e il motivo per cui lo stesso si sarebbe introdotto nell’area vietata, allorquando avrebbe dovuto solo staccare i biglietti degli avventori della giostra.
I rilievi avrebbero dovuto avere risposta anche in considerazione dell’oggettiva carenza del materiale probatorio utilizzabile per la decisione.
Non sarebbe stato eseguito l’esame autoptico e non sarebbe stato verificato il difetto di funzionamento dell’erogatore di fumo, ritenuto dai giudici di merito la causale per cui il lavoratore avrebbe superato le transenne accedendo all’area interdetta mentre la giostra era in movimento.
Non sarebbe stata espletata né una consulenza tecnica del P.M., né una perizia finalizzata alla ricostruzione della dinamica dell’incidente, nonostante l’avvenuta richiesta in tal senso.
Per tali motivi ci si duole era stata richiesta la rinnovazione del dibattimento, richiesta su cui la Corte di appello, avrebbe disatteso la richiesta ex art. 603 cod. proc. pen., senza fornire alcuna motivazione.
Il ricorrente evidenzia, infine, l’incompatibilità delle lesioni riportate dalla vittima con la ricostruzione operata in base ai riscontri derivanti dall’esame del cadavere, come argomentato nella perizia della difesa.
b. Violazione dell’art. 606, lett. e) cod. proc. pen. per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla sussistenza del nesso causale tra le violazioni antinfortunistiche contestate e l’evento morte, alla condotta in concreto esigibile al datore di lavoro ed alla concreta rappresentazione, per costui, della possibilità di verificazione dell’evento attesa la condotta anomala, imprudente ed eccezionale posta in essere dal lavoratore.
Il vizio di motivazione carente, contraddittoria ed illogica riguarderebbe anche la sussistenza del nesso causale tra le violazioni antinfortunistiche contestate e l’evento, nonché la prevedibilità dello stesso.
L’imputato sarebbe stato ritenuto responsabile per non aver predisposto, in qualità di datore di lavoro, adeguate misure di sicurezza volte ad inibire l’accesso ad una zona pericolosa per la presenza di meccanismi in movimento.
La convinzione della colpevolezza sarebbe fondata sul duplice assunto che l’evento non si sarebbe verificato ove fossero state predisposte idonee misure di sicurezza per impedire l’accesso all’area pericolosa e se non fosse stato richiesto alla vittima di intervenire in manutenzione di un erogatore di fumo, mentre la giostra era in funzione.
Non vi sarebbe prova, però, che T.L. abbia mai richiesto al lavoratore di riparare l’erogatore di fumo, estraneo ed esterno alla giostra, mentre questa era in movimento, né vi sarebbe la prova del malfunzionamento di tale erogatore.
Di conseguenza, non sarebbe delimitabile la condotta esigibile dal datore di lavoro.
Nei motivi di appello sarebbe stata richiamata la circostanza che la giostra era fornita di misure di sicurezza a tutela dei lavoratori e dei clienti.
La transenna amovibile presente, unitamente alla presenza dell’addetto al controllo dell’ingresso dei clienti, che era proprio il C.F., vittima dell’incidente, avrebbero soddisfatto, a detta del ricorrente, la normativa in materia.
Ciò che mancava, secondo la sentenza, erano un segnalatore acustico ed una transenna inamovibile, a fronte di quella amovibile esistente. Ma, certamente, conclude il ricorrente nell’appello, tali misure non avrebbero impedito alla vittima di raggiungere l’erogatore di fumo, in modo da scongiurarne la morte.
La funzione del segnalatore acustico e del cancelletto fisso di impedire l’accesso di persone al di sotto della giostra, sarebbe stata assolta anche dal cancelletto amovibile esistente.
L’evento dannoso sarebbe stato determinato dall’imprevedibilità della condotta del C.F. che avrebbe raggiunto la zona interdetta senza una ragionevole spiegazione e senza che dai dati processuali acquisiti sarebbe emerso l’avvenuta richiesta di tale attività da parte del datore di lavoro.
Il ricorrente evidenzia, che, come sostenuto dal proprio consulente di parte, l’esistenza di un dispositivo di sicurezza volto a disattivare l’alimentazione della giostra, non avrebbe comunque arrestato il movimento della stessa, a causa della forza di inerzia. Pertanto nessuno dei dispositivi ritenuti mancanti avrebbe potuto determinare un esito diverso ed impedire l’accesso ad una zona pericolosa che sarebbe stata consapevolmente occupata proprio da chi doveva impedirne l’accesso a terzi.
Tale doglianza non avrebbe ricevuto adeguata risposta in sentenza, che si sarebbe limitata a recepire acriticamente una congettura del giudice di primo grado.
L’avvenuta condanna, in assenza del nesso di causalità tra la violazione della norma antinfortunistica e l’evento, sarebbe frutto di un grave error in iudicando.
Il dato processuale che il ricorrente avesse richiesto un intervento sull’erogatore di fumo, non suffragato dal minimo riscontro probatorio, sarebbe assolutamente irragionevole.
I giudici di merito avrebbero dato per provato ciò che si sarebbe dovuto provare e non spiegherebbero perché, dopo la richiesta di intervento, il ricorrente non avesse atteso che la giostra fosse ferma, ovvero la giostra non fosse stata bloccata nella posizione di massima altezza.
La sentenza impugnata sul punto renderebbe incomprensibile la ratio decidendi.
Il ricorrente evidenzia che il lavoratore con un’azione eccezionale, atipica ed esorbitante dalle proprie mansioni, avrebbe determinato l’evento dannoso.
La condotta del lavoratore avrebbe interrotto il nesso di causalità esentando il datore di lavoro da responsabilità penale, in quanto inosservante, imprudente, negligente e imprevedibile.
Tale dato sarebbe decisivo, in quanto nessuna risultanza processuale consentirebbe di conoscere le ragioni per cui con la giostra in funzione, il lavoratore, abbia scavalcato le transenne nell’area di manovra rimanendo travolto.
La sentenza impugnata non spiegherebbe dette ragioni e non ricostruirebbe in termini precisi il fatto storico, rappresentando in forma alternativa ed ipotetica i fatti che avrebbe dovuto chiarire.
Tale modalità argomentativa vanificherebbe l’esigenza di controllo del rapporto tra motivazione e oggetto della decisione, nonché del rapporto tra motivazione e dati processuali e della struttura logica della decisione.
Ancora, non sarebbe possibile stabilire quale grado di efficacia impeditiva del danno possa essere riconosciuta al comportamento non tenuto, per affermarsi la sussistenza di un sicuro nesso causale tra omissione ed evento.
Chiede, pertanto, la cassazione, con o senza rinvio, della sentenza impugnata.
Diritto
1. I motivi sopra illustrati sono infondati e, pertanto, il proposto ricorso va rigettato.
2. I giudici del gravame del merito, mostrandone in motivazione evidente condivisione, richiamano le conclusioni in termini di raggiunta prova del giudice di prime cure.
Ebbene, sul punto va ricordato che è giurisprudenza pacifica di questa Corte, in caso di doppia conforme affermazione di responsabilità, che debba essere ritenuta pienamente ammissibile la motivazione della sentenza d’appello per relationem a quella della sentenza di primo grado, sempre che le censure formulate contro la decisione impugnata non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi.
Il giudice di secondo grado, infatti, nell’effettuare il controllo in ordine alla fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è chiamato ad un puntuale riesame di quelle questioni riportate nei motivi di gravame, sulle quali si sia già soffermato il prima giudice, con argomentazioni che vengano ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate.
In una simile evenienza, infatti, le motivazioni della pronuncia di primo grado e di quella di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell’appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, di guisa che le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (confronta l’univoca giurisprudenza di legittimità di questa Corte: per tutte sez. 2 n. 34891 del 16.05.2013, Vecchia, rv. 256096; conf. sez. 3, n. 13926 del 1.12.2011, dep. 12.4. 2012, Valerio, rv. 252615: sez. 2, n. 1309 del 22.11.1993, dep. 4.2. 1994, Albergamo ed altri, rv. 197250).
Nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non è tenuto, inoltre, a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. sez. 6, n. 49970 del 19.10.2012, Muià ed altri rv.254107).
La motivazione della sentenza di appello è del tutto congrua, in altri termini, se il giudice d’appello abbia confutato gli argomenti che costituiscono l'”ossatura” dello schema difensivo dell’imputato, e non una per una tutte le deduzioni difensive della parte, ben potendo, in tale opera, richiamare alcuni passaggi dell’iter argomentativo della decisione di primo grado, quando appaia evidente che tali motivazioni corrispondano anche alla propria soluzione alle questioni prospettate dalla parte (così si era espressa sul punto sez. 6, n. 1307 del 26.9.2002, dep. 14.1.2003, Deivai, rv. 223061).
E’ stato anche sottolineato di recente da questa Corte che in tema di ricorso in cassazione ai sensi dell’art. 606, comma primo lett. e), la denunzia di minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l’esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione (sez. 2, n. 9242 deir8.2.2013, Reggio, rv. 254988).
3. Il ricorrente deduce vizio motivazionale, ma in realtà pone all’attenzione di questa Corte rilievi in punto di fatto che non possono trovare ingresso nel presente giudizio di legittimità.
Sul punto va ricordato che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. vedasi questa sez. 3, n. 12110 del 19.3.2009 n. 12110 e n. 23528 del 6.6.2006).
Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l’illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (sez. 3, n. 35397 del 20.6.2007; Sez. Unite n. 24 del 24.11.1999, Spina, rv. 214794).
Più di recente è stato ribadito come ai sensi di quanto disposto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene né alla ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento, (sez. 2, n. 21644 del 13.2.2013, Badagliacca e altri, rv. 255542)
Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto.
Non c’è, in altri termini, come richiesto nel presente ricorso, la possibilità di andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. E ciò anche alla luce del vigente testo dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. come modificato dalla l. 20.2.2006 n. 46.
Il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.
Il ricorrente non può, come nel caso che ci occupa, limitarsi a fornire una versione alternativa del fatto (la morte del lavoratore per altre cause ovvero in relazione ad un suo comportamento imprudente assolutamente imprevedibile), senza indicare specificamente quale sia il punto della motivazione che appare viziato dalla supposta manifesta illogicità e, in concreto, da cosa tale illogicità vada desunta.
Com’è stato rilevato nella citata sentenza 21644/13 di questa Corte la sentenza deve essere logica “rispetto a sé stessa”, cioè rispetto agli atti processuali citati. In tal senso la novellata previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da “altri atti del processo”, purché specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto.
4. Se questa, dunque, è la prospettiva ermeneutica cui è tenuta questa Suprema Corte, le censure che il ricorrente rivolge al provvedimento impugnato si palesano manifestamente infondate, non apprezzandosi nella motivazione della sentenza della Corte d’Appello di Salerno alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva.
I giudici del gravame di merito con motivazione specifica, coerente e logica hanno, infatti, dato conto, in primo luogo, richiamando il decisum di primo grado, del perché hanno ritenuto che non fosse necessaria la perizia autoptica sul cadavere a fronte di una causa della morte che secondo quanto accertato in sentenza è chiara (come si legge a pag. 7 della sentenza impugnata “…l’impatto della pedana oscillante era avvenuto con il capo della p.o., come era dimostrato dalla avulsione del cuoio capelluto per strappamento riscontrata sul cadavere della p.o., che era incompatibile con una mera caduta come sostenuto dal C.T.P. della difesa”).
Già il giudice di primo grado, peraltro, aveva offerto una motivazione congrua e logica e pertanto immune dai denunciati vizi di legittimità, circa le cause della morte, da ricollegarsi al fatto che il C.F. fosse stato colpito violentemente da uno dei bracci della giostra, riportando gravi lesioni alla testa che ne provocarono la morte. In particolare il giudice di prime cure aveva ricordato come il teste dr. P., il quale effettuò l’esame esterno del corpo del C.F. su richiesta del P.M. avesse riferito quanto segue: “…all’esame esterno ho trovato innanzi tutto un’otoragia a destra (ndr. emorragia dal condotto udivo), probabilmente dovuta alla frattura della base cranica, perché con la frattura cranica, soprattutto la rocca petrosa, si ha una fuoruscita di sangue dall’orecchio, quindi un’otoragia a destra, poi ho trovato perdita di capelli, perché io parlo di alopecia, alla zona temporale destra e alla zona occipitale, come da strappamento, perché mi hanno detto che era successo in una giostra, una specie di giostra ad altalena, però non so nemmeno di che giostra si trattava. . . questo incidente nella giostra a Nocera Superiore, una specie di altalena. Poi ho trovato ancora una ferita lacerocontusa alla regione zigomatica sinistra, che si estendeva fino alla rima labiale, ancora frattura composta dell’omero sinistro, nonché della clavicola, e poi ho notato fratture dell’arco costale sempre a sinistra, per cui probabilmente ci sono state anche delle lesioni a carico degli organi all’interno del torace. … dunque da schiacciamento probabile poi ho trovato escoriazioni diffuse al collo e sempre sull’emitorace sinistro. Come causa di morte ho parlato di arresto cardiocircolatorio in politrauma da schiacciamento…”.
Tale deposizione, seppure non avvalorata con un’autopsia del cadavere del C.F., è stata ritenuta da leggere logicamente in un tutt’uno con altri elementi, tra cui le dichiarazioni del M.llo G. dei CC di Castel San Giorgio giunto sul luogo dell’incidente alle 21, il quale riferiva a proposito della giostra che “praticamente c’era una fila di sedili e poi questa oscillava, facendo anche dei giri, per terra, su una pedana diciamo, nell’area di esercizio di questa…, perché poi questa giostra presenta due bracci con i quali ondeggiava. A terra abbiamo notato che c’era un macchinario, che poi abbiamo verificato che era quello che faceva sprigionare il fumo, anche per fare un po’ di scenografia, e a brevissima distanza, sulla lamiera, si vedevano delle tracce di sangue. .. in prossimità di questo congegno…. tipo una saldatrice, un macchinario piccolo” e precisava che “sulla lamiera, sulla pedana, c’erano delle tracce di sangue”.
Le riferite tracce di sangue come si legge nella sentenza di primo grado sono rilevabili anche dai rilievi fotografici operati nell’immediatezza del fatto.
Ciò è stato logicamente ritenuto dai giudici del merito chiarire senza ombra di dubbio che la persona offesa fu colpita con forza da uno dei bracci in cui si articolava la giostra “Jamaica”, la cui peculiarità era proprio l’oscillazione della pedana su cui erano posizionati gli avventori come se si trovassero su grande altalena. E il rinvenimento della tracce di sangue è stato ritenuto mostrare senza alcun dubbio che l’impatto fra il C.F. ed il braccio della giostra avvenne in quel punto, ovvero nelle immediate vicinanze del piccolo macchinario che consentiva la fuoriuscita del fumo per creare un maggiore effetto scenografico della giostra.
5. Se queste sono state le evidenze probatorie valutate dai giudici di merito ai fini della ricostruzione dell’evento che ha portato alla morte del lavoratore, appare dunque giustificato il rigetto da parte della Corte di Appello della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria e di effettuazione in quella sede di una perizia.
Come già chiarito da questa Corte, infatti, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel giudizio di appello è evenienza eccezionale, subordinata ad una valutazione giudiziale di assoluta necessità conseguente all’insufficienza degli elementi istruttori già acquisiti, che impone l’assunzione di ulteriori mezzi istruttori pur se le parti non abbiano provveduto a presentare la relativa istanza nel termine stabilito dall’art. 468 c.p.p. (cfr. ex plurimis, sez. 2, sentenza n. 41808 del 27. 9.2013, Mongiardo, rv. 256968); e la mancata rinnovazione in appello dell’istruttoria dibattimentale può essere censurata soltanto qualora si dimostri l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all’assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello (così sez. 6, n. 1256 del 28.11.2013, dep. il 14.1.2014, rv. 258236).
Inoltre, il vizio di mancata assunzione di una prova decisiva può essere dedotto solo quando la presunta prova decisiva, confrontata con le argomentazioni addotte in motivazione a sostegno della decisione, risulti determinante per un esito diverso del processo e non si limiti ad incidere su aspetti secondari della motivazione.
Si lamenta decisività della mancata assunzione della perizia, ma tale doglianza è infondata.
È prova decisiva, infatti, la cui mancata assunzione è deducibile come motivo di ricorso per cassazione, solo quella prova che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante (sez. 3, n. 27581 del 15.6.2010, M., rv. 248105; conf. Sez. 6 n. 14916 del 25.3.2010, Brustenghi e altro, rv. 246667). E’ stato anche precisato che per “prova decisiva” sia da intendere unicamente quella che, non incidendo soltanto su aspetti secondari della motivazione (quali, ad esempio, quelli attinenti alla valutazione di testimonianze non costituenti fondamento della decisione) risulti determinante per un esito diverso del processo, nel senso che essa, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove fosse stata esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia (sez. 2, n. 16354 del 28.4.2006, Maio, rv. 234752).
La mancata assunzione di una prova decisiva può, dunque, costituire motivo di ricorso per cassazione solo quando essa, confrontata con le argomentazioni addotte in motivazione a sostegno della decisione, risulti determinante per un esito diverso del processo e non si limiti ad incidere su aspetti secondari della motivazione (sez. 2, n. 21884 del 20.3.2013, Cabras, rv. 255817). E la perizia non rientra nella categoria della “prova decisiva”, ed il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell’art. 606, comma primo, lett. d), cod. proc. pen., in quanto costituisce il risultato di un giudizio di fatto che, se sorretto da adeguata motivazione, è insindacabile in cassazione (sez. 6 n. 43526 del 3.10.2012, Ritorto e altri, rv. 253707),
La perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, in altri termini, per il suo carattere “neutro” sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, conseguendone che il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell’art.606 comma primo lett. d) cod. proc, pen., in quanto giudizio di fatto che se sorretto da adeguata motivazione è insindacabile in cassazione (sez. 4, n. 14130 del 22.1.2007, Pastorelli ed altro, rv. 236191; conf. Sez. 5 n. 12027 del 6.4.1999, Mandalà G., rv. 214873).
6. Detto delle cause della morte del C.F., come ricostruite con motivazione logica dai giudici del merito, vanno affrontate le doglianze oggi sollevate in punto di responsabilità di T.L..
Il ricorso odierno si sofferma a lungo sulla questione della mancata prova che fu il T.L. ad incaricare la persona offesa di andare ad operare la riparazione del macchinario guastatosi.
I giudici del merito, tuttavia, non fanno mistero che tale prova non ci sia, affidando ad un giudizio di verosimiglianza l’affermazione che potesse essere stato il datore di lavoro a chiedere alla persona offesa di vedere cosa stesse accadendo.
Provato, però e di ciò i giudici del merito danno congruamente conto in motivazione è invece che l’odierno ricorrente era in condizione, dal luogo in cui si trovava a manovrare la giostra, di vedere di fronte a sé il lavoratore e quindi, anche se l’iniziativa di andare a riparare il macchinario fosse stata del C.F., di fermare la giostra.
Punto dirimente dell’affermazione di responsabilità dell’odierno imputato, tuttavia, è quello del mancato rispetto della normativa antinfortunistica.
Già il giudice di primo grado, infatti, richiamato in motivazione dalla Corte territoriale, dà atto che il già citato M.llo G.(cfr. pag. 6 della sentenza di primo grado) ebbe a precisare che la giostra in questione non mostrava transenne o altra sovrastruttura idonea ad impedirne l’accesso nella parte esclusa agli avventori. E aggiunge che il funzionario della ASL SA 1 Dipartimento di prevenzione, D.C., giunto sul posto nella tarda serata del 14 agosto 2006 insieme al collega M., ebbe a verificare che il dispositivo per il gettito del fumo era posto in una zona pericolosa della giostra sottostante la pedana oscillante ed era azionabile da un pulsante posto su una consolle della cabina di controllo posizionata a lato della giostra. Si trattava aveva ben precisato il tecnico di una zona priva di barriere idonee ad impedire l’accesso sia agli avventori o ad estranei all’organizzazione della giostra e risultava, peraltro, quest’ultima del tutto priva di qualsiasi dispositivo atto a bloccare automaticamente il movimento in caso di intrusione in zone pericolose da parte di chiunque.
Nella motivazione (punto specificamente richiamato nella sentenza di appello a pag. 4) si dà atto che è dunque risultato che con ciò si violava la normativa di cui all’art 375 DPR 547/55, laddove si prescrive, in particolare, che, per l’esecuzione di lavori di riparazione o manutenzione di qualsiasi macchinario da effettuarsi unicamente ad impianto fermo debbano essere previste ed adottate misure di sicurezza idonee ad evitare pericoli per chi effettui i lavori di riparazione o manutenzione. Inoltre, la giostra in questione, pur non rientrando nella tipologia di macchinari soggetti alla normativa prevista dal DPR n. 459/96, imponeva al produttore ex D.Lvo n. 115/95 (ndr. decreto abrogato dal dlgs 172/2004; vd. anche dlgs 206/2005) la sicurezza strutturale del macchinario ed al giostraio invece l’onere di predisporre ex art 35 D.Lvo n. 626/94 presidi antinfortunistici idonei a garantire la sicurezza dei lavoratori e di terzi avventori e segnaletica atta a segnalare il possibile pericolo.
Nel caso di specie, invece, i giudici del merito danno atto in motivazione che T.L. aveva del tutto omesso di effettuare il preventivo piano di valutazione dei rischi (ex art 4, commi 1 e 11 del citato decreto legislativo), avendo predisposto solo alcune transenne amovibili ai lati della giostra (peraltro finalizzate ad altro, e nello specifico ad indirizzare gli avventori verso la cabina anche per pagare il biglietti di ingresso) senza alcuna reale funzione di prevenzione e sicurezza per i lavoratori”.
Ed allora già il giudice di primo grado, con una motivazione estremamente diffusa e dopo un’analisi del materiale probatorio attenta e rigorosa in fatto e corretta in diritto, trae le sue conclusioni (cfr. in particolare pagg. 17 e ss, della sentenza di primo grado) in termini di nesso di causalità e di colpa dell’odierno ricorrente, aspetti su cui ritorna il ricorso odierno senza confutare il percorso logico argomentativo seguito in sentenza, che fa buon governo dei principi più volte ribaditi da questa Corte Suprema nella materia de quo.
7. I giudici del merito danno atto, infine, con motivazione logica e congrua, che non è emersa prova alcuna che il lavoratore poi deceduto abbia posto in essere un comportamento abnorme ed imprevedibile, che, per la sua stranezza ed imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all’applicazione della misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro, unico a poter determinare la mancanza di responsabilità in capo a questi ultimi (cfr. ex multis, sez. 4, n. 3444 del 22.10.2004 dep. il 2.2.2005, rv. 230713; sez. 4, n. 23292 del 28.4.2011, Millo ed altri, rv. 250710).
8. Al rigetto del ricorso consegue, ex lege, la condanna al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 17 settembre 2015