Con l’art. 23 del D.Lgs. n. 151/2015 il Legislatore delegato termina il lavoro di revisione di alcuni articoli dello Statuto dei Lavoratori del 1970 che ne rappresentavano “gli elementi caratterizzanti”: dopo aver eliminato, per i nuovi assunti nelle imprese dimensionate oltre le quindici unità (cinque per quelle agricole), a partire dal 7 marzo 2015, l’art. 18 (sia pure nella versione già cambiata nel 2012 dalla legge n. 92), dopo aver profondamente mutato i contenuti dell’art. 2103 c.c., richiamato dall’art. 13, in materia di mansioni e di “ius variandi”, giunge, ora, a ritoccare l’art. 4 relativo agli impianti audiovisivi e ad altri strumenti di controllo introducendo grosse novità.
Cambia, come vedremo, l’approccio sistematico al tema: si passa infatti (comma 1 del vecchio art. 4) dal principio generale del divieto (con alcune eccezioni legate all’accordo sindacale o, in alternativa, all’autorizzazione amministrativa della Direzione territoriale del Lavoro) al principio positivo dell’impiego dei mezzi di controllo a distanza.
Afferma il Legislatore delegato, sulla scorta della previsione contenuta nella L. n. 183/2014 che
gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti di controllo dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato con la RSU o le RSA. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa Regione ovvero in più Regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo gli impianti e gli strumenti di cui al periodo precedente possono essere installati previa autorizzazione della Direzione territoriale del Lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più Direzioni territoriali del Lavoro, del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Diversi sono, quindi, gli aspetti da approfondire.
Gli impianti audiovisivi e di controllo possono essere, liberamente, installati ma se da questo discende la possibilità di un controllo dell’attività dei dipendenti ciò può avvenire, come in passato, per esigenze legate alla produzione ed alla organizzazione del lavoro, per la sicurezza del lavoro ma anche per la tutela del patrimonio aziendale che va inteso come beni non soltanto materiali ma anche immateriali dell’azienda (si pensi alle banche dati dei clienti e dei fornitori, ai progetti dei futuri prodotti da lanciare sul mercato, ecc.) ed occorre, in via preventiva, un accordo da stipulare con le rappresentanze aziendali dei lavoratori.
Qui, cambia poco, nel senso che gli impianti non possono essere installati (resta la sanzione penale prevista dall’art. 38 della legge n. 300/1970 richiamata al comma 3 dal nuovo art. 171 della legge n. 196/2006) se prima non è intervenuto un accordo sindacale o l’autorizzazione del Ministero del Lavoro o delle proprie articolazioni territoriali. Questo principio è molto importante ed è, sicuramente, da sottolineare in quanto la progressiva estensione di fatti delittuosi, spinge, sempre più, i piccoli esercizi commerciali (bar, ristoranti, farmacie, distributori di carburante, tabaccai, ecc.) ad installare telecamere di controllo che inquadrano continuamente il personale che espleta il proprio lavoro, magari anche “agganciate” alla Polizia di Stato o ai Carabinieri: ebbene, i titolari di tali attività pensano (sulla base anche di indicazioni delle imprese di installazione) di essere in regola ma, in realtà, non lo sono in quanto l’accordo sindacale o l’autorizzazione amministrativa hanno natura preventiva.
Si dirà: ma se non c’è rappresentanza sindacale all’interno dell’azienda (cosa oltre modo probabile, nelle piccole imprese) cosa deve fare il datore? Deve, se lo desidera, cercare un accordo con le organizzazioni sindacali locali di categoria comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o, in alternativa, rivolgere la richiesta alla Direzione territoriale del Lavoro che, in generale, ha sessanta giorni di tempo per rilasciarla (DPCM 22 dicembre 2010, n. 275) ma che, in virtù anche di semplificazioni, a vario titolo, messe in atto in vari contesti, giunge in termini più brevi. Di ciò, ad esempio, è espressione la nota del Ministero del Lavoro n. 7162 del 16 aprile 2012 nella quale si afferma che non è necessario l’accertamento tecnico preventivo dello stato dei luoghi, perché ininfluente ai fini del rilascio del provvedimento autorizzatorio, è sufficiente la rilevazione delle specifiche dell’impianto dalla documentazione prodotta che, per i profili tecnici, va richiamata nell’autorizzazione.
Detto questo, torniamo ad esaminare cosa deve fare il datore di lavoro prima della installazione.
Deve, innanzitutto, cercare un accordo con le rappresentanze sindacali presenti nell’impresa che, ai fini della validità nelle imprese aderenti, ad esempio, al settore confindustriale, seguono le regole fissate dall’accordo sulla rappresentanza. È chiaro che, per le caratteristiche presenti in ogni trattativa, l’accordo è frutto di mediazioni e di “do ut des”: ma, rispetto al passato, molto è cambiato sol che si pensi al fatto che la tradizionale frase, inserita in molti verbali, secondo la quale le immagini non erano utilizzabili ai fini disciplinari (cosa, del resto, avallata da diverse interpretazioni giurisprudenziali), ora non trova un avallo normativo, in quanto il comma 3 afferma che le informazioni raccolte sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro (a determinate condizioni).
Ma, è possibile un accordo aziendale sottoscritto, soprattutto laddove la RSU o la RSA non è presente, da tutti i lavoratori?
La norma sembra chiedere un intervento delle categorie locali che fanno riferimento alle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale o, in alternativa, una richiesta da avanzare alla struttura territoriale del Ministero del Lavoro. C’è, tuttavia, da sottolineare quanto ha affermato la sezione penale della Corte di Cassazione Cass., 11 giugno 2012, n. 22611) secondo la quale con l’acquisizione del consenso da parte di tutti i dipendenti interessati si realizza la tutela richiesta dalla norma, non essendo, di conseguenza, necessario né l’accordo sindacale, né l’autorizzazione della DTL.
Qualora le esigenze aziendali di introdurre audiovisivi e strumenti di controllo si manifestino per più unita produttive ubicate in più Province della stessa Regione o in più Regioni l’accordo collettivo può essere raggiunto con gli esponenti sindacali delle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale le quali, presumibilmente, sentiranno le proprie strutture locali e decideranno di conseguenza.
Ma quale strada alternativa può percorrere il datore di lavoro? Come in passato, l’intervento della Direzione del Lavoro è possibile, su specifica richiesta di autorizzazione da parte del datore di lavoro, in difetto di accordo a livello aziendale: nel caso di imprese con unità produttive ubicate in più Province (con competenze diverse delle singole Direzioni) l’autorizzazione può essere rilasciata dal Ministero del Lavoro, presumibilmente dalla Direzione Generale per le Relazioni industriali e per la Tutela del Lavoro. L’autorizzazione amministrativa sarà conseguente ad una verifica tendente ad accertare che l’installazione delle apparecchiature è finalizzata alle tre esigenze ipotizzate dal Legislatore (produttive ed organizzative, sicurezza del lavoro, tutela del patrimonio). Naturalmente, essendo cambiato il dettato normativo (utilizzazione delle informazioni per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro) non si potrà più scrivere che le informazioni non sono utilizzabili a fini disciplinari come molte articolazioni periferiche hanno, fino ad oggi, riportato nel provvedimento autorizzatorio anche sulla base di precisi indirizzi forniti dal livello centrale. Sicuramente, nel provvedimento potranno essere riportate le raccomandazioni rilasciate dal Garante della privacy con la nota dell’8 aprile 2010:
- informazione ai lavoratori della presenza di telecamere;
- nomina di un incaricato della gestione delle video riprese;
- posizionamento delle telecamere verso le “zone a rischio” cercando, nei limiti del possibile, di non collocarle in maniera unidirezionale verso i lavoratori in attività;
- conservazione delle immagini per un periodo temporale limitato (fatte salve specifiche esigenze);
- avvertenza che una eventuale implementazione degli strumenti di controllo è soggetta ad una nuova autorizzazione o ad un nuovo accordo collettivo.
Ma le grosse novità, rispetto al passato, si rinvengono nei successivi commi 2 e 3. Il comma 2 stabilisce che l’accordo collettivo o, in alternativa, l’autorizzazione amministrativa non sono necessari per quegli strumenti che sono utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e per gli strumenti di registrazione delle presenze e degli accessi in azienda. Tutto questo significa che se un datore di lavoro fornisce per la prestazione computer, telefoni, tablet, smartphone, diviene superfluo quanto affermato al comma 1. Anzi (e qui è il momento di maggiore innovazione rispetto al passato) le informazioni raccolte
sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro:
ma, per far ciò, occorre fornire una adeguata informazione ai lavoratori circa l’uso degli strumenti e la effettuazione dei controlli nel rispetto delle previsioni contenute nel D.Lgs. n. 196/2003.
Qui occorre fare alcune precisazioni.
La prima riguarda (onere del datore di lavoro) l’informazione da fornire ai dipendenti e che deve essere adeguata anche circa le modalità dei controlli, nel pieno rispetto della privacy. Questi ultimi debbono essere strettamente correlati all’attività svolta: di conseguenza, se è possibile controllare (previo avvertimento) un lavoratore che, nell’esercizio della propria attività, si sposta continuamente sul territorio e sul cui smartphone aziendale è stato impiantato un geolocalizzatore, non appare possibile controllare con le stesse modalità un impiegato amministrativo che svolge il proprio lavoro all’interno dell’impresa. Del resto, le informazioni raccolte non potranno essere usate in modo indiscriminato: di qui il richiamo al D.Lgs. n. 196/2003 in base al quale andranno rispettati i principi della correttezza, della pertinenza, della non eccedenza del trattamento e di forme di sorveglianza che non debbono sfociare in situazioni persecutorie.
La seconda concerne la utilizzabilità dei dati. Un uso scorretto degli strumenti aziendali (ad esempio, siti web, estranei all’attività lavorativa, consultati durante l’orario di lavoro) può, senz’altro, essere utilizzato a fini disciplinari, con provvedimenti di natura conservativa ma anche espulsiva, come potrebbe accadere ai dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015 ai quali si applica, in caso di licenziamento, il D.Lgs. n. 23/2015 e, segnatamente, il comma 2 dell’art. 3. In ogni caso le informazioni conosciute possono avere una loro importanza anche per altri fini come, ad esempio, ai fini della corresponsione di premi di produttività.
Da ultimo, le sanzioni in caso di installazione degli strumenti di controllo senza accordo collettivo o senza autorizzazione preventiva, nonché in caso di utilizzazione dei dati acquisiti senza preventiva informazione dei lavoratori: ora il nuovo recita che la violazione delle disposizioni di cui all’art. 113 e all’art. 4, primo e secondo comma, della L. n. 300/1970, è punita con le sanzioni di cui all’art. 38 di quest’ultima disposizione. Esse sono di natura penale e prevedono l’ammenda compresa tra 154 e 1.549 euro, ovvero l’arresto da 15 giorni ad un anno. Tali sanzioni possono essere applicate, nei casi più gravi, congiuntamente e, allorquando il giudice ritenga inefficace l’ammenda a causa delle condizioni economiche del trasgressore, la può aumentare fino ad un massimo di 5 volte. E’ prevista la prescrizione obbligatoria e, in caso di adempimento, l’organo di vigilanza ammette il datore di lavoro al pagamento, in sede amministrativa, entro 30 giorni, di una somma pari ad ¼ del massimo dell’ammenda: il pagamento estingue il reato.
di E. Massi
fonte: www.generazionevincente.it