Infortunio mortale con una macchina: modifica che vanifica le misure di sicurezza.
Presidente: Brusco
Relatore: Serrao
Fatto
1. In data 22/05/2014 la Corte di Appello di Venezia ha parzialmente riformato la sentenza emessa dal Giudice dell’Udienza Preliminare presso il Tribunale di Rovigo, rideterminando la pena inflitta a R.C. in mesi cinque e giorni dieci di reclusione a seguito della rilevata prescrizione dei reati ascritti ai capi 3 e 4 dell’imputazione, confermando nel resto la sentenza di primo grado.
2. Il Giudice dell’Udienza Preliminare presso il Tribunale di Rovigo, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato R.C. colpevole del reato di cui all’art. 589 cod. pen. (capo 1) per avere cagionato la morte di F.F. per negligenza, imprudenza ed inosservanza di legge perché, quale datore di lavoro, legale rappresentante dell’impresa ERRE DUE, aveva impiegato il predetto operaio agricolo qualificato super ad operazioni che importavano l’utilizzo di una macchina “pellettizzatrice” (marca (OMISSIS) ) adibita all’accatastamento su bancali di legno di sacchi di pellets per riscaldamento; la macchina era stata modificata con l’apertura di una via d’accesso agli organi in movimento in origine protetti da una barriera e tale apertura non era stata munita di un dispositivo che impedisse l’avvio della macchina in caso di accesso del lavoratore, il quale era stato così schiacciato dalla parte mobile superiore di una pressa mentre stava riposizionando un bancale mal collocato dal dispositivo automatico della macchina, bloccatasi per tale evento; la pressa si era, infatti, rimessa in movimento a seguito dell’operazione effettuata dal lavoratore; il giudice di primo grado aveva dichiarato l’imputata colpevole, altresì, della contravvenzione di cui agli artt. 72 e 389 lett.c) d.P.R. 27 aprile 1955, n.547 (capo 3), per avere omesso di dotare la portiera che consentiva di superare la schermatura di protezione degli organi in movimento della macchina di un dispositivo che all’apertura ne bloccasse il movimento e della contravvenzione di cui agli artt.35, comma 1, e 89 lett.a) d.lgs. 19 settembre 1994, n.626 per avere messo a disposizione dei lavoratori dipendenti un impianto costituito dalla “linea di produzione dei bancali di pellets” non idoneo ai fini della sicurezza, assolvendo invece l’imputata dalla contravvenzione di cui agli artt. 41 e 389 lett. c) d.P.R. n.547/1955 per avere omesso di munire la macchina di idonea protezione degli organi pericolosi.
2.1. La dinamica del sinistro era stata così ricostruita dal giudice di primo grado: il lavoratore deceduto era alle dipendenze della società con mansioni di operaio agricolo qualificato super con contratto a tempo determinato dal 1 febbraio 2006 al 23 dicembre 2006; era addetto al macchinario descritto in imputazione, costruito nell’anno 1993, revisionato nel 2006 ed installato presso la ERRE DUE alla fine del mese di giugno 2006; il F. stava operando alla macchina sopra indicata in prossimità della linea di accatastamento dei sacchi di pellets e si era inoltrato oltre le barriere di protezione del nastro trasportatore che alimenta, con bancali vuoti, la rulliera dove avviene, mediante una pressa, l’accatastamento dei sacchi di pellets; la griglia che impediva l’accesso alla zona di lavorazione, originariamente uniforme e priva di aperture, era stata modificata prima del 29 luglio ricavandone una sorta di porta rimovibile, tale da consentire l’accesso nella zona per la manutenzione e per la sistemazione dei bancali durante la lavorazione; il giorno 31 luglio 2006 il lavoratore stava, in particolare, riposizionando un bancale che aveva bloccato il nastro, avendo avuto accesso alla macchina mentre questa era in funzione grazie all’apertura presente nella griglia, quando la parte mobile superiore della pressa si era abbassata, schiacciandolo.
2.2. Il Tribunale, accertato sulla base della consulenza tecnica del pubblico ministero che l’infortunio si era verificato a causa della vanificazione delle misure di sicurezza delle quali era dotata la macchina, affermava che, ancorché non potesse ritenersi dimostrato che l’imputata ne avesse disposto direttamente la modifica, dovesse esserne al corrente o fosse venuta meno all’obbligo di vigilanza.
3. La Corte di Appello di Venezia, su impugnazione dell’imputata, ha confermato in punto di responsabilità con riferimento al capo 1) la sentenza di primo grado, richiamandone sinteticamente la motivazione. La Corte territoriale ha evidenziato che la condotta della vittima non potesse considerarsi anomala ed imprevedibile, essendo il lavoratore intervenuto per consentire la ripresa del funzionamento della macchina ed avendo utilizzato un accesso realizzato sulla struttura di protezione. Con riguardo all’elemento soggettivo, la Corte di Appello ha considerato che nella grata metallica alta circa due metri che isolava la macchina dal resto del capannone era stata realizzata una porta con due maniglie e profili in acciaio, ritenendo trattarsi di un lavoro di una certa complessità che richiedeva, oltre che capacità tecniche, anche qualche ora di lavoro; da tale considerazione ha, quindi, desunto che l’ignoranza di tale modifica da parte dell’imputata fosse colpevole, essendo la stessa avvenuta con modalità pubbliche ed almeno quarantotto ore prima dell’infortunio, avendo un collega del lavoratore deceduto riferito che la mattina del 29 luglio la modifica era già realizzata.
4. Ricorre per cassazione, con atto sottoscritto dai difensori, R.C. , censurando la sentenza impugnata per i seguenti motivi:
a) violazione dell’art. 606 lett. b) cod.proc.pen. per inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 589, secondo comma, 40,42 e 43 cod. pen.; violazione dell’art. 606 lett. e) cod.proc.pen. per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione; violazione dell’art. 606 lett. c) cod.proc.pen. per violazione del combinato disposto degli artt. 516, 521, 522 e 604 cod.proc.pen., nullità della sentenza di appello per violazione della correlazione tra accusa e sentenza. Premesso che la difesa contesta il punto in cui la sentenza di merito ha collocato il momento di realizzazione da parte del F. del varco attraverso il quale egli era entrato all’interno della macchina, la ricorrente deduce che la sentenza di appello ha avvalorato del tutto apoditticamente e con motivazione illogica la tesi della modifica effettuata con 48 ore di anticipo rispetto alla verificazione del sinistro sulla base della complessità della manomissione, omettendo di affrontare la questione della mancata individuazione dell’ora in cui il F. avesse confessato al P. di aver provveduto alla modifica della macchina e, più in generale, il tema della conoscibilità in concreto da parte dell’imputata dell’esistenza e della effettiva pericolosità della modifica apportata.
Il presunto carattere “pubblico” della modifica, si assume, contrasta con il dato per cui il F. aveva svelato al collega l’avvenuta modifica e le ridotte dimensioni dell’azienda militerebbero a favore della realizzazione della modifica nella stessa giornata del 29 luglio, evidenziando il brevissimo lasso di tempo intercorso tra la modifica del macchinario e l’infortunio, rilevante per escludere la colpevolezza dell’imputata. La ricorrente lamenta, altresì, difetto di correlazione tra accusa e sentenza per aver ritenuto l’imputata colpevole di non essersi accorta della manomissione della macchina da parte del lavoratore a fronte della contestazione di aver messo a disposizione del lavoratore un macchinario inidoneo;
b) violazione dell’art.606 lett. b) cod.proc.pen. per inosservanza ed erronea applicazione degli artt.589, secondo comma, 133 e 157, comma 6, cod. pen. nonché degli artt. 72 e 389 lett. c) d.P.R. n. 547/1955 e degli artt. 35, comma 1, e 89 lett. a) d.lgs. n. 624/1994; violazione degli artt.129, comma 2, 533, 442, comma 1, e 605 cod.proc.pen.; violazione dell’art. 606 lett. e) cod.proc.pen. per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione riguardante i capi 3) e 4) anche agli effetti di cui all’art.589, comma 2, cod. pen. La ricorrente deduce l’interesse all’accertamento della piena insussistenza dei fatti contestati ai capi 3) e 4) dell’imputazione, con assoluzione nel merito e conseguente esclusione dell’aggravante di cui all’art.589, secondo comma, cod. pen. nonché estinzione del reato di cui al capo 1) per prescrizione. A sostegno di tale censura deduce la carenza della motivazione sul punto concernente il motivo di appello in cui si assume la contraddittorietà della sentenza di primo grado, nella parte in cui l’imputata era stata assolta dal reato di cui al capo 2) e dichiarata responsabile dei reati di cui ai capi 3) e 4), nonché la violazione delle norme che, in caso di estinzione del reato, consentono al giudice di derogare all’ordinario regime probatorio, salvo che sia evidente l’insussistenza del fatto. In particolare, nel ricorso si sostiene che, nel caso in cui la sentenza abbia effetto per altri capi dell’imputazione o quando per l’imputato derivino rilevanti conseguenze dannose o pregiudizievoli, il giudice debba applicare il regime probatorio ordinario espresso dall’art.533 cod.proc.pen., così come nel caso in cui dall’accertamento del fatto derivino conseguenze di natura civilistica. Si censura, altresì, l’omessa motivazione in ordine all’elemento materiale ed al fondamento colposo delle singole contravvenzioni;
c) violazione dell’art.606, lett. c) ed e) cod.proc.pen. in relazione all’art.53 legge 24 novembre 1981, n.689; istanza subordinata di correzione ai sensi dell’art.619, comma 2, cod.proc.pen. per convertire la pena detentiva nella corrispondente pena pecuniaria. Avendo la Corte di Appello irrogato una pena detentiva che, a differenza di quella irrogata in primo grado, è inferiore al limite massimo previsto per la conversione nella corrispondente pena pecuniaria, la ricorrente chiede che la sentenza sia annullata per ottenere la conversione della pena detentiva in quella pecuniaria ed al contempo la revoca della sospensione condizionale della pena, ovvero che la sentenza impugnata sia corretta in tal senso ai sensi dell’art. 619, comma 2, cod.proc.pen..
Diritto
1. Va premesso che costituisce espressione di un orientamento interpretativo consolidato della Corte di Cassazione il principio secondo il quale, in presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità, si ritiene ammissibile la motivazione della sentenza di appello per relationem a quella della decisione impugnata, sempre che le censure formulate contro la sentenza di primo grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello, nell’effettuazione del controllo della fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite dall’appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate. In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell’appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (Sez.6, n.28411 del 13/11/2012, dep. 2013, Santapaola, Rv. 256435; Sez. 3, n. 13926 del 10/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615; Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Albergamo, Rv. 197250).
1.1. E, con riferimento al primo motivo di ricorso, tale integrazione consente di rinvenire la più ampia indicazione delle ragioni per le quali i giudici di merito hanno ritenuto accertato, anche sulla base della prova logica, che la modifica della macchina alla quale era adibito il lavoratore infortunato fosse conosciuta o conoscibile dall’imputata. Contrariamente a quanto indicato nel ricorso, le due sentenze di merito risultano conformi nel ritenere che la modifica apportata al macchinario abbisognasse di “una certa lavorazione” (pag.3 sentenza di primo grado) e che richiedesse “oltre che capacità tecniche, anche qualche ora di lavoro” (pag. X sentenza di appello) e la circostanza che non sia stato accertato se la modifica fosse stata eseguita il 29 luglio ovvero nei giorni antecedenti non corrisponde al testo della decisione, avendo la Corte desunto l’anteriorità del lavoro dal contenuto della prova dichiarativa, secondo il libero apprezzamento di essa spettante al giudice di merito; va rimarcato che la ricorrente non ha dimostrato con i documenti allegati al ricorso il travisamento di tale prova, della quale in realtà chiede una diversa interpretazione in senso a sé più favorevole. Così come risultano inammissibili le argomentazioni tendenti a confutare, mediante una diversa lettura delle emergenze istruttorie, la motivazione nella parte in cui, dalla descrizione della struttura della porta di accesso alla macchina, dal previo accordo tra il F. ed il padre dell’imputata circa la realizzazione della modifica, dal posizionamento della porta in luogo ben visibile e con caratteristiche strutturali, la Corte ha desunto la conoscibilità da parte dell’imputata dell’opera di vanificazione dei presidi antinfortunistici ed, in ogni caso, le carenze organizzative imputabili alla R. .
1.2. Risulta incomprensibile la censura attinente al difetto di correlazione tra accusa e sentenza, avendo i giudici accertato e ritenuto, così come descritto nel capo d’imputazione, che l’imputata avesse messo a disposizione dei lavoratori una macchina che, sebbene inizialmente munita di idonea protezione, era stata modificata con l’apertura di una via d’accesso agli organi in movimento, omettendo tuttavia di dotarla di un dispositivo che all’apertura ne bloccasse il funzionamento, dunque mettendo a disposizione dei lavoratori un impianto non idoneo ai fini della sicurezza.
2. Per un corretto inquadramento della fattispecie concreta esaminata dai giudici di merito, occorre in ogni caso prendere le mosse dalla normativa introdotta con d.P.R. 24 luglio 1996, n. 459, cosiddetta “Direttiva macchine”, che ha disciplinato i presidi antinfortunistici concernenti le macchine e i componenti di sicurezza immessi sul mercato (denominata Regolamento per l’attuazione delle Direttive 89/392/CEE, 91/368/CEE, 93/44/CEE e 93/68/CEE concernenti il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alle macchine).
2.1. Tali norme traggono origine dalla cosiddetta Direttiva macchine 89/392, la cui base giuridica è costituita dall’art.100 del Trattato CE (ora sostituito dall’art.114 del Trattato sul funzionamento dell’unione Europea – TFUE), che consente all’Unione di adottare misure volte al riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri al fine di assicurare l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno. L’art. 100A del trattato istitutivo della CEE, richiamato a fondamento della Direttiva 89/392/CEE, si trova nella Parte terza del Trattato, intitolata “Politica della Comunità”, nel Titolo I intitolato “Norme Comuni”, nel Capo III intitolato “Ravvicinamento delle legislazioni”. Tale richiamo chiarisce che questa Direttiva è nata con l’obiettivo di armonizzare le disposizioni normative di vario livello degli Stati membri che abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione e sul funzionamento del mercato comune. L’art. 100OA, nella versione consolidata, è riprodotto nell’art.95 del Trattato. Dal testo dei Considerando della Direttiva macchine si evince che l’originario obiettivo del legislatore comunitario era quello di armonizzare le normative di sicurezza degli Stati membri concernenti la produzione delle macchine, ma con particolare attenzione alla creazione di un ambiente di lavoro più sicuro (IV Considerando), al fine di agevolare la circolazione di questi prodotti nel mercato Europeo. La Direttiva accoglieva un concetto generico del termine “macchina” e si proponeva l’espresso scopo di indicare i requisiti inderogabili ed essenziali di sicurezza e di tutela della salute relativi alle macchine.
2.2. La Direttiva macchine nella originaria versione è stata, successivamente, modificata con le seguenti Direttive, anch’esse indicate nel Regolamento di attuazione n.459/96:
– la Direttiva 91/368/CEE5, che ha ampliato il campo d’applicazione della Direttiva macchine alle attrezzature intercambiabili, alle macchine mobili e alle macchine per il sollevamento di cose. Sono state aggiunte le parti 3, 4 e 5 all’allegato I;
– la Direttiva 93/44/CEE6, che ha esteso il campo di applicazione della Direttiva macchine ai componenti di sicurezza ed alle macchine per il sollevamento e/o lo spostamento di persone. È stata aggiunta la parte 6 all’allegato I;
– la Direttiva 93/68/CEE, che ha introdotto disposizioni armonizzate relative alla marcatura CE.
2.3. La Direttiva originaria e le sue successive modifiche sono state codificate, ossia unificate in un unico atto normativo, con la Direttiva 98/37/CEE, a sua volta lievemente modificata con l’esclusione dei dispositivi medici (Direttiva 98/79/CE), ed è rimasta in vigore fino al 29 dicembre 2009. L’intera normativa è stata riformata mediante rifusione in una nuova Direttiva, la n. 2006/42/CE, attuata nell’ordinamento italiano mediante d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 17.
2.4. Mentre la normativa previgente era improntata prevalentemente sulla libera circolazione nel mercato interno di presidii antinfortunistici “nella ricerca di un ambiente di lavoro più sicuro, la nuova normativa ha aperto una diversa prospettiva, al duplice scopo di consentire la libera circolazione delle macchine nel mercato interno e, al contempo, di garantire un elevato livello di protezione della salute e della sicurezza, non solo dei lavoratori ma anche dei consumatori (Considerando III), ampliando altresì la responsabilità del produttore all’omessa previsione di presidi antinfortunistici atti ad ovviare all’uso scorretto della macchina da parte dell’utilizzatore.
2.5. Dal raccordo di tale normativa con il sistema prevenzionistico già in vigore, si è desunta un’anticipazione della tutela antinfortunistica al momento della costruzione, vendita, noleggio e concessione in uso delle macchine, parti di macchine o apparecchi in genere, coinvolgendosi nella responsabilità per la mancata rispondenza dei prodotti alle normative di sicurezza tutti gli operatori ai quali siano imputabili dette attività. Si è, in sostanza, introdotto un “minimum tecnologico obbligato comune” (Sez. 3, n. 37408 del 24/06/2005, Guerinoni, n.m.) che, da un lato, ha esteso ad altri operatori l’obbligo di controllo della regolarità della macchina o del pezzo prima che gli stessi vengano messi a disposizione del lavoratore; d’altro canto, si è attribuito tale obbligo a soggetti individuati come “costruttori in senso giuridico” del macchinario quando, ad esempio, pur risultando il macchinario composto di pezzi prodotti da altre ditte, l’obbligo di controllare la regolarità del macchinario nel suo complesso al fine di ottenere la certificazione necessaria per immetterlo sul mercato spettasse ad una impresa in particolare, in ipotesi incaricata di assemblare tutte le componenti” (Sez.4, n. 4923 del 15/12/2009, dep. 4/02/2010, Bonfiglioli, n.m.).
2.6. Questa Corte Suprema ha avuto modo di precisare che le disposizioni che hanno dato attuazione alle “Direttive macchine” dell’Unione Europea, pur indicando le prescrizioni di sicurezza necessarie per ottenere il certificato di conformità e il marchio CE richiesti per immettere il prodotto nel mercato, non escludono ulteriori profili in cui si possa sostanziare il complessivo dovere di garanzia di coloro che pongono in uso il macchinario nei confronti dei lavoratori, che sono i diretti utilizzatori delle macchine stesse, non potendo costituire motivo di esonero della responsabilità del costruttore quello di aver ottenuto la certificazione e di aver rispettato le prescrizioni a tal fine necessarie. È stato anche chiarito che l’obbligo di aggiornamento previsto a carico del datore di lavoro dall’art.4, comma 5, lett. b) d. lgs. 19 settembre 1994, n.626 (ora art. 18, comma 1, lett. z), d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81) va valutato in relazione al generale obbligo incombente sul datore di lavoro di adottare le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori; quest’ultimo è, infatti, un obbligo assoluto che non consente, anche in considerazione del rigoroso sistema prevenzionistico introdotto dal citato decreto legislativo, la permanenza di macchinari pericolosi per la sicurezza e la salute dei lavoratori (Sez.3, n.47234 del 4/11/2005, Carosella, Rv. 233191).
2.7. Nel caso concreto, in epoca antecedente l’infortunio, era stata apportata alla macchina una modifica che aveva vanificato le misure di sicurezza delle quali la macchina stessa era inizialmente dotata ed i giudici di merito, correttamente, hanno ritenuto esigibile dal datore di lavoro il rispetto dell’obbligo di controllare che la macchina messa a disposizione dei lavoratori fosse sicura. L’obbligo di agire presuppone, peraltro, la conoscenza o quantomeno la conoscibilità, con la diligenza propria dell’agente modello, della situazione che rende attuale l’obbligo medesimo. Il datore di lavoro, che aveva demandato al padre, in assenza di delega, il potere di fatto di impartire direttive ai lavoratori, è stato ritenuto con giudizio ex ante, congruamente motivato con riferimento alle circostanze del caso concreto (complessità della modifica, previo accordo circa la modifica tra il lavoratore ed il padre dell’imputata, posizione in luogo ben visibile della nuova porta di accesso alla macchina, tempo trascorso tra la modifica e l’infortunio), anche in grado di conoscere la non conformità della macchina alla regola dettata dall’art.72 d.P.R. n. 547/55.
2.8. Giova qui ricordare anche che, a norma dell’art.3, comma 1, d.lgs. n.626/94, le misure generali che il datore di lavoro deve adottare per la protezione della salute e per la sicurezza dei lavoratori sono, tra le altre, la valutazione dei rischi, l’eliminazione dei rischi in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, la riduzione dei rischi alla fonte, la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è o è meno pericoloso, l’uso di segnali di avvertimento o di sicurezza, la regolare manutenzione di ambienti, attrezzature, macchine ed impianti, con particolare riguardo ai dispositivi di sicurezza in conformità alla indicazione dei fabbricanti. Correttamente, dunque, i giudici di merito hanno ritenuto di sussumere la fattispecie concreta nella norma incriminatrice per non avere il datore di lavoro proceduto all’eliminazione del rischio, prevedibile ed evitabile in quanto connesso alla modifica eseguita sul macchinario.
3. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
3.1. È sufficiente rilevare come la motivazione offerta nella sentenza impugnata in merito alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato contestato al capo 1) sia ampiamente descrittiva anche della condotta tipica prevista dalle contravvenzioni contestate ai capi 3) e 4), come accade in ipotesi di concorso formale di reati.
3.2. Da tale rilievo è desumibile la correttezza della pronuncia di estinzione delle suindicate contravvenzioni ai sensi dell’art. 129 cod.proc.pen. in difetto dell’evidenza di causa assolutoria, non avendo l’imputata rinunciato alla causa estintiva (Sez. 5, n. 5586 del 03/10/2013, dep.2014, Fortunato, Rv. 258875).
4. Il terzo motivo di ricorso è infondato.
4.1. Dal testo della sentenza impugnata, e dall’esame degli atti, non emerge che l’appellante abbia formulato istanza di conversione della pena detentiva previa revoca della sospensione condizionale concessa dal giudice in primo grado, essendosi limitata a formulare istanza di riduzione della pena inflitta.
4.2. Va ricordato che è ripetutamente affermato nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale “La condanna a pena detentiva sostituita con pena pecuniaria non può costituire titolo per la revoca della sospensione condizionale della pena in precedenza concessa”, essendo la sostituzione della pena detentiva con la corrispondente pena pecuniaria compatibile con il beneficio della sospensione condizionale in quanto la pena sostitutiva è a tutti gli effetti una sanzione penale (Sez. 5, n. 15785 del 17/01/2011, Scacco, Rv. 250162; Sez. 3, n. 46458 del 22/10/2009, Mbengue, Rv. 245618; Sez. 1, n. 5638 del 20/01/2009, Poli, Rv. 242451; Sez. 1, n.41442 del 14/10/2005, D’Angelantonio, Rv. 232743).
4.3. Trova, altresì, applicazione al caso in esame quel principio ripetutamente affermato nella giurisprudenza di legittimità secondo il quale “In tema di sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, il giudice di appello, non investito con i motivi di impugnazione della censura relativa alla mancata applicazione della pena sostitutiva, non può concedere di ufficio la pena sostitutiva stessa, pur se richiesta dalla parte in sede di giudizio d’appello. Ed invero, a nulla rileva che trattasi di un beneficio meno consistente della sospensione condizionale della pena, beneficio, questo, che, in forza del quinto comma dell’art.597 cod.proc.pen., il giudice di appello può concedere di ufficio: infatti, proprio l’espressa previsione, da parte del legislatore, delle facoltà attribuite, ex officio, al giudice dell’appello preclude un’applicazione estensiva od analogica della norma, ed un ampliamento, per via di interpretazione giurisprudenziale, dei poteri discrezionali specificamente, e tassativamente, conferiti al medesimo giudice. A favore dell’affermazione di tale principio depone, del resto, la natura eccezionale della disposizione in esame, costituente deroga al principio generale dell’effetto devolutivo dell’appello stabilito dall’art. 597, comma primo, cod.proc.pen., con conseguente sua inapplicabilità, ai sensi dell’art. 14 delle preleggi, al di fuori dei casi espressamente consentiti (Sez. 4, n. 12947 del 20/02/2013, Pilia, Rv. 255506; Sez. 6, n. 35912 del 22/05/2009, Rapisarda, Rv. 245372; Sez. 1, n. 166 del 26/09/1997, dep.1998, Gargano, Rv. 209438).
4.4. Da tali principi può desumersi l’insussistenza di vizi censurabili in questa sede in punto di trattamento sanzionatorio.
5. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato; al rigetto del ricorso consegue, a norma dell’art.616 cod.proc.pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.