Neoplasia polmonare ed eziologia professionale. Rendita di reversibilità.
Fatto
Con sentenza n. 1454 del 2007 il Giudice del lavoro del Tribunale di Frosinone respingeva il ricorso proposto da A.S. nei confronti dell’INAIL volto all’accertamento della natura professionale della patologia sofferta dal defunto coniuge A.P. e alla condanna dell’INAIL alla corresponsione della rendita di reversibilità di cui al d.P.R. 1124/1965 con decorrenza dalla data del decesso.
Avverso la detta sentenza, con ricorso depositato l’ 11-4-2007, la A.S. proponeva appello chiedendone la riforma con l’accoglimento della domanda introduttiva e domandando anche la condanna dell’INAIL al risarcimento del danno morale.
L’INAIL, costituitosi, concludeva per il rigetto dell’appello, eccepiva la novità e inammissibilità della domanda relativa al risarcimento del danno morale e contestava la fondatezza della domanda di pagamento della rivalutazione monetaria.
La Corte d’Appello di Roma, con sentenza depositata il 5-10-2012, respingeva l’appello e compensava le spese.
In sintesi la Corte territoriale, in base alle risultanze della CTU espletata in sede di gravame escludeva che la neoplasia polmonare che aveva portato a morte il A.P. avesse avuto origine professionale, ritenendo poco probabile una detta origine, a fronte di una di gran lunga più probabile genesi da causa comune.
Per la cassazione di tale sentenza la A.S. ha proposto ricorso con cinque motivi.
L’INAIL ha resistito con controricorso.
La A.S. ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Diritto
Con il primo motivo la ricorrente, ex art. 360 primo comma n. 5 c.p.c., lamenta che la Corte territoriale non ha considerato le osservazioni alla consulenza tecnica formulate da essa ricorrente, aderendo incondizionatamente alle conclusioni dei CTU nominato in appello, senza un doveroso vaglio critico, con motivazione incongrua e illogica.
In particolare la ricorrente rileva che sarebbe stata trascurata la continuità e la rilevanza dell’esposizione del A.P. ai fumi nocivi e alle sostanze cancerogene (tutt’altro che accidentale o occasionale) in assenza di qualsiasi strumento di prevenzione, come emerso dalle dichiarazioni dei testi e del consulente della Procura dott. M., per un periodo di cinque anni (per otto ore al giorno, per complessivi 1275 giorni, come risultanti dall’estratto conto assicurativo dell’INPS del 3-11-2004, e non per soli 229 giorni come erroneamente indicato dal CTU e recepito dalla Corte di merito).
Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta che la Corte di merito in sostanza avrebbe omesso l’accertamento dei giorni lavorativi effettivi, trascurando che essa ricorrente aveva censurato le risultanze delle CTU di primo grado, che da un lato avevano considerato un numero di giorni lavorativi effettivi “acquisendolo senza contraddittorio e da fonti inutilizzabili (un ricorso di 20 anni prima con un oggetto del tutto differente)” e dall’altro avevano omesso di rilevare la incidenza delle malattie polmonari dei colleghi di lavoro del A.P. (specificamente indicati) nello stesso reparto.
Con il terzo motivo, con riguardo alla presenza del benzolo nelle attività svolte presso la CEAT nonché alla inesistenza di misure di protezione individuali o ambientali, la ricorrente lamenta che la Corte territoriale, trascurando le risultanze testimoniali ed in specie quella del dott. M., non ha considerato la nocività della lavorazione di grossi pneumatici con benzolo ed eptano (contenente benzolo).
Con il quarto motivo, denunciando ex art. 360 comma primo n. 4, c.p.c. la violazione dell’art. 132 c.p.c., la ricorrente lamenta che la Corte territoriale, “nonostante abbia affidato ad un CTU, prof A., una nuova consulenza tecnica d’ufficio per nuove indagini peritali”, erroneamente avrebbe “affidato la motivazione della sentenza di appello al ragionamento” delle CTU di primo grado (la prima, del dott. S,, che, non validamente resa, aveva ecceduto i limiti del mandato acquisendo irritualmente informazioni da un ex dipendente Ceat e, nel contempo, non aveva acquisito le necessarie informazioni e documentazioni relative all’ambiente di lavoro; la seconda, del dott. Sa., che aveva omesso di rilevare la incidenza delle malattie polmonari dei colleghi di lavoro del A.P., di acquisire gli studi di settore effettuati dalla ASL Roma e lo studio interdisciplinare eseguito dall’ENPI nello stabilimento CEAT con la collaborazione del dott. M. e di accertare i giorni di effettiva presenza del A.P. presso lo stabilimento.
Con il quinto motivo la ricorrente lamenta che la Corte d’Appello “ha erroneamente ritenuto che il giudice di prime cure nella sua decisione abbia tenuto conto della letteratura scientifica prodotta dalla difesa, mentre in realtà, come pure eccepito nel ricorso di appello, nessun riscontro è stato dato alle ampie motivazioni scientifiche che muovono dalla letteratura esistente in
materia e in ogni caso non ha esaminato tale profilo né la documentazione pur depositata dal consulente tecnico di parte” (v. relazione medico-legale del dott. M., nonché la letteratura scientifica relativa ai rischi cancerogeni dell’industria della gomma richiamata). La ricorrente, inoltre, deduce la irrilevanza del fatto che il A.P. fosse un moderato fumatore, in quanto, stante il principio di equivalenza causale, tale fatto non costituisce ragione di esclusione dell’eziologia professionale della malattia quando non risulti che lo stesso abbia avuto una efficienza causale esclusiva.
Tutti i motivi, che in quanto strettamente connessi ed in parte ripetitivi possono essere trattati congiuntamente, non meritano accoglimento.
Come è stato ripetutamente affermato da questa Corte, “nell’ipotesi di malattia ad eziologia multifattoriale – quale il tumore – il nesso di causalità relativo all’origine professionale di essa non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di una concreta e specifica dimostrazione, che può essere, peraltro, data anche in via di probabilità, ma soltanto ove si tratti di “probabilità qualificata”, da verificare attraverso ulteriori elementi idonei a tradurre in certezza giuridica le conclusioni in termini probabilistici del consulente tecnico” (v. fra le altre Cass. 5-8-2010 n. 18270, Cass. 20-5-2004 n. 9634). Del resto, proprio in ragione di ciò, nella detta ipotesi, è stato chiarito che “non può esplicare la sua efficacia la presunzione legale circa la eziologia professionale delle malattie contratte nell’esercizio delle lavorazioni morbigene, che investe soltanto il nesso tra la malattia tabellata e le relative specificate cause morbigene (anch’esse tabellate)” (v. Cass. 4-6-2002 n. 8108, Cass. 27-3-2003 n. 4665, Cass. 13-7-2011 n. 15400, Cass. 18-9-2013 n. 21360).
Nello stesso quadro questa Corte ha altresì precisato che “in tema di malattia professionale, derivante da lavorazione non tabellata o ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di lavoro grava sul lavoratore e deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, questa può essere ravvisata in un rilevante grado di probabilità. A tal fine il giudice, oltre a consentire all’assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, è tenuto a valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale, facendo ricorso ad ogni iniziativa “ex officio”, diretta ad acquisire ulteriori elementi in relazione all’entità dell’esposizione del lavoratore ai fattori di rischio, potendosi desumere, con elevato grado di probabilità, la natura professionale della malattia dalla tipologia della lavorazione, dalle caratteristiche dei macchinari presenti nell’ambiente di lavoro, dalla durata della prestazione stessa, nonché dall’assenza di altri fattori causali extralavorativi alternativi o concorrenti” (v. Cass. 12-10-2012 n. 17438).
Tali principi consolidati vanno qui ribaditi, evidenziandosi, inoltre, che la verifica del grado rilevante di probabilità costituisce accertamento di fatto riservato al giudice del merito ed insindacabile in questa sede di legittimità se sorretto da congrua motivazione. Peraltro nel vigore (come nel caso in esame) del nuovo testo dell’art. 360 primo comma n. 5 c.p.c. “è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.” (v. Cass. S.U. 7-4-2014 n. 8053).
Orbene, nella specie, la Corte territoriale, a fronte delle censure avanzate dalla appellante nei confronti della decisione di primo grado, espletata una nuova CTU in appello, in base a quest’ultima ha confermato il giudizio di primo grado, escludendo, in termini probabilistici rilevanti, che la malattia che aveva portato il A.P. alla morte avesse trovato causa o concausa nel lavoro dallo stesso svolto tra il 1973 e il 1979 alle dipendenze della CEAT Pneumatici s.p.a..
In particolare la Corte di merito ha rilevato che il CTU dott. A., nella relazione depositata il 17-1-2012 ha fatto riferimento al periodo di effettiva prestazione di attività lavorativa desunta dagli atti acquisiti al processo (non contestati) e dall’estratto contributivo dell’INPS emesso nel 2004;
ha evidenziato che “è possibile ammettere l’esistenza di un rischio ambientale, seppur non quantificabile in ordine alle particelle presenti, per la produzione di un tumore polmonare a genesi professionale; e ciò tenuto anche conto che, sporadicamente, il lavoratore si spostava dal suo reparto per l’attività di trasporto dei pneumatici”, ma “ha precisato che il tempo di esposizione al rischio ambientale fu troppo basso per dare origine all’instaurarsi di tumore”, in tal modo attribuendo rilievo alla “discontinuità/quantità della esposizione al rischio ambientale”;
al riguardo ha dato “ampio conto dei dati temporali” risultanti dalla documentazione acquisita agli atti;
ha “adeguatamente valutato anche le mansioni alle quali il A.P. fu addetto (che comportavano anche spostamenti dalla postazione di lavoro per l’espletamento dell’attività di trasporto dei pneumatici) e le condizioni di lavoro”, nei termini ricostruiti nella sentenza di primo grado, rimasti “immuni da censure”;
ha rilevato inoltre che il A.P. era stato un fumatore (circostanza incontestata);
ha valutato attentamente anche le note critiche di parte e lo studio di carattere epidemiologico nelle stesse richiamato, rilevando che “in realtà lo studio invocato smentisce la correttezza dei rilievi formulati dalla difesa della appellante in quanto attesterebbe addirittura una mortalità generale dei lavoratori statisticamente più bassa di quella della popolazione messa a confronto”.
Sulla base di tali rilievi e valutazioni la Corte territoriale ha quindi confermato, nella fattispecie, la insussistenza della eziologia professionale della malattia de qua.
Orbene, osserva il Collegio che tale accertamento di fatto risulta conforme ai principi di diritto sopra ribaditi ed è altresì sorretto da congrua motivazione che resiste alle censure della ricorrente (tanto più nel vigore del nuovo testo dell’art. 360 comma primo n. 5 c.p.c.).
In particolare, infatti, va rilevato:
sul primo, secondo e quarto motivo, che, in effetti, la Corte di merito, ha fondato la decisione sulla CTU espletata in appello (che, a sua volta, in sostanza ha confermato i rilievi tecnici e le conclusioni di primo grado) ed ha valutato attentamente anche le osservazioni e le obbiezioni avanzate dalla appellante, rilevando, tra l’altro che “il dato relativo ai giorni di effettiva presenza in servizio, nei termini ricostruiti nella sentenza impugnata, risulta contestato dall’appellante, il quale però omette di fornire elementi idonei a contrastarlo” (del resto la decisione, basata sulla “discontinuità/quantità della esposizione al rischio ambientale” emersa, è fondata sui dati accertati, anche alla luce delle deposizioni An. e M., dal primo giudice, nel contraddittorio delle parti, e come sopra recepiti dal CTU e dal giudice di appello, i quali non sono affatto in contrasto tra loro, essendo evidente che una cosa è il numero dei giorni di effettiva presenza in servizio del A.P. ricavato dal procedimento, avente ad oggetto il licenziamento per inidoneità nel quale fu parte lo stesso A.P., altra cosa è il numero delle settimane risultanti dall’estratto conto assicurativo dell’INPS);
ancora sul secondo motivo che, circa l’asserito omesso esame dell’incidenza delle malattie polmonari nei colleghi di lavoro del A.P., la Corte territoriale ha rilevato che “il giudice di prime cure ha tenuto conto della relazione redatta dal CTU nel corso del giudizio promosso dal DC., collega del A.P., ha evidenziato che questi aveva lavorato nello stesso reparto del A.P. per circa 20 anni ed ha richiamato le conclusioni del CTU che aveva affermato che…per quanto concerne il carcinoma del polmone esiste una evidenza limitata per associazione causale con una esposizione occupazionale riferita agli addetti alle mescole e ai mulini, ma non al confezionamento pneumatici”, confrontandosi altresì con le pubblicazioni scientifiche prodotte dalla parte e osservando in specie che lo IARC inserisce l’industria della gomma tra le attività produttive alle quali è associato un incremento di rischio di neoplasie vescicali e di leucemie ma non di tumore al polmone;
sul terzo motivo che, in ordine alla presenza di benzolo nelle attività svolte dalla CEAT (riferita dal V. al primo CTU dott. S.), la Corte territoriale, in sostanza, ha confermato la valutazione del primo giudice circa la non decisività della stessa, fondata, non solo sulle affermazioni del detto CTU, bensì anche sulla deposizione resa dal dott. M., sul punto riportata testualmente (“ove il benzolo comunque non dà problemi polmonari… ma leucemie più che tumori polmonari.. ”);
Sul quinto motivo che la Corte di merito, riportandosi alla relazione del CTU espletata in grado di appello e alle valutazioni del primo giudice, che già si era confrontato anche con la letteratura scientifica invocata dalla A.S., ha congruamente motivato in ordine alla non decisività dei rilievi tecnici di parte,e sulla scorta delle conclusioni del CTU, ha, come sopra escluso, nella fattispecie, una causa o concausa professionale;
che, comunque, la Corte di merito avendo ritenuto esaurienti i risultati conseguiti con gli accertamenti svolti tramite la CTU, non era tenuta ad analizzare e confutare specificamente tutte le osservazioni tecniche di parte (v. Cass. 6-5-2002 n. 6432, Cass. 14-6-2003 n. 9540, Cass. 26-9-2006 n. 20821, Cass. 29-1-2010 n. 2063);
che, peraltro, in ogni caso, in base al nuovo testo dell’art. 360, primo comma, n. 5, non è denunciabile in questa sede un asserito vizio di insufficienza della motivazione (v. Cass. S.U. n. 8053/2014 cit.).
Il ricorso va pertanto respinto e, in ragione della particolare complessità delle questioni trattate, le spese vanno compensate tra le parti.
Infine, trattandosi di ricorso notificato successivamente al termine previsto dall’art. 1, comma 18, della legge n. 228 del 2012, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, comma 17, della citata legge n. 228 del 2012.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Roma 7 ottobre 2015