Lavori in quota: rischi insiti e rischi evitabili.
Presidente: Franco
Relatore: Scarcella
Fatto
1. Con sentenza emessa in data 10/02/2014, depositata in data 3/03/2014, il tribunale di Genova dichiarava V.C. colpevole dei reati di cui agli artt. 159, comma secondo, lett. c), d.lgs. n. 81 del 2008 in relazione all’art. 125, comma sesto, d.lgs. citato (in quanto il sistema di ancoraggio dell’opera provvisionale montata sulla facciata della costruzione, costituito da tiranti di fil di ferro ritorto, non rientrando in quelli indicati nel libretto e autorizzazione ministeriale degli elementi del ponteggio e costituendo una soluzione tecnica diversa da quella prevista nel progetto dell’Ing. C. C., non offriva le necessarie garanzie di efficacia e di resistenza) e in relazione all’art. 111, comma secondo, d.lgs. citato (in quanto non aveva scelto un idoneo sistema di accesso ai vari impalcati del ponteggio, in particolare le scale erano disposte in modo tale che i lavoratori una volta effettuata la discesa sull’impalcato sottostante, si trovavano una botola aperta, immediatamente a destra o sinistra a seconda dell’impalcato, con pericolo di caduta o inciampo); fatti contestati come accertati in data (omissis) .
2. Ha proposto ricorso V.C. , a mezzo del difensore fiduciario cassazionista, impugnando la sentenza predetta con cui deduce quattro motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.: a) violazione di legge sotto il profilo dell’erronea applicazione dell’art. 125, comma sesto, d.lgs. n. 81 del 2008 (art. 606, lett. b), cod. proc. pen.); b) violazione di legge sotto il profilo dell’esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge a organi legislativi (art. 606, lett. a), cod. proc. pen.); c) vizio motivazionale sotto il profilo dell’illogicità quanto alla ricostruzione del fatto rilevante ex art. 111, commi secondo e quarto, d.lgs. n. 81 del 2008 (art. 606, lett. e), cod. proc. pen.); d) violazione di legge sotto il profilo dell’erronea applicazione dell’art. 111, comma secondo, d.lgs. n. 81 del 2008 (art. 606, lett. b), cod. proc. pen.).
2.1. In sintesi, la censura di cui al primo motivo (e, correlativamente, anche al secondo motivo, che meritano congiunta illustrazione, attesa l’omogeneità sotto il profilo logico che unisce le due censure) investe l’impugnata sentenza per aver fatto erronea applicazione della norma di cui all’art. 125, d.lgs. n. 81 del 2008 e, in particolare del comma sesto della predetta norma; premette il ricorrente che detta disposizione regola il profilo dell’ancoraggio del ponteggio alla costruzione, prevedendo come quest’ultimo debba essere efficacemente ancorato almeno in corrispondenza di due piani del ponteggio e ad ogni due montati, con disposizione di ancoraggi a rombo o di pari efficacia; secondo il ricorrente sarebbe chiaro l’oggetto di detta disposizione: a) descrivere le modalità tipologiche di ancoraggio del ponteggio alla facciata con riguardo alla frequenza (ogni due piani del ponteggio e ogni due montanti) ed alla disposizione geometrica (a rombo o di pari efficacia, nel senso, secondo il ricorrente, che gli ancoraggi devono esser sfalsati, uno in alto e uno più in basso, per evitare che si trovino tutti sulla stessa linea orizzontale, ovvero presentare una disposizione di eguale efficacia in termini di tenuta).
Nel caso concreto, diversamente, si duole il ricorrente per il fatto che sarebbe stata fraintesa la portata della norma; il giudice si sarebbe concentrato non sulla disposizione geometrica degli ancoraggi, bensì sulle modalità tecniche di raccordo fra ponteggio e facciata dell’edificio, profilo non rientrante nel campo di applicazione della norma in oggetto (detto equivoco sarebbe stato originato dall’attività ispettiva dell’ing. R. che, avendo rilevato che la modalità di ancoraggio del ponteggio, costituita da tiranti in fil di ferro ritorto, differiva da quella prevista nel progetto redatto dall’Ing. C. per tale ponteggio, aveva ritenuto di dover ravvisare una violazione del comma sesto citato); poiché il progetto redatto dall’Ing. C. per tale ponteggio prevedeva quale soluzione da adottare quale modalità di raccordo ponteggio-edificio gli “ancoraggi a sbadacchio ed anello o a tassello di espansione”, l’intera fase istruttoria si sarebbe concentrata sulla verifica della “pari efficacia” del sistema con “fil di ferro ritorto” rispetto a quello previsto nel progetto (e, sul punto, il ricorrente ricorda come le tesi contrapposte fossero state quella del verbalizzante ing. R. , – confortato dal perito d’ufficio, ing. M. -, che aveva escluso che tale sistema offrisse la stesse garanzie di resistenza rispetto a quella prevista nel progetto; dall’altra, quella del c.t. della difesa, ing. C. , ossia proprio colui che aveva elaborato il progetto prevedendo quel sistema con “ancoraggi a sbadacchio o a tassello di espansione”, che invece aveva sostenuto che la modalità prescelta dal ricorrente garantisse pari efficacia); orbene prosegue il ricorrente, quand’anche si ritenesse che la soluzione prescelta dal giudice fosse quella corretta, la condanna non potrebbe comunque essere giustificata, in quanto la norma dell’art. 125, comma sesto, d.lgs. n. 81 del 2008 non riguarderebbe le specifiche modalità di raccordo del ponteggio all’edificio, prevedendo invece la frequenza e la disposizione geometrica degli ancoraggio di qualunque tipo essi siano; il campo di applicazione della predetta disposizione normativa non avrebbe potuto essere esteso alle specifiche caratteristiche dei giunti di fissaggio, prevedendo questa esclusivamente la loro necessaria disposizione geometrica (donde, secondo il ricorrente, sarebbe derivata l’estensione applicativa della norma che, secondo il giudice, avrebbe imposto il divieto di utilizzare sistemi di ancoraggio di un tipo piuttosto che di un altro, laddove, invece, in merito alle modalità di raccordo la norma nulla prevede, sicché il giudice, estendendone arbitrariamente il campo di applicazione facendovi rientrare il divieto di utilizzo di quel sistema di ancoraggio utilizzato dal ricorrente, avrebbe creato il precetto legislativo, così esercitando una potestà riservata dalla legge agli organi legislativi); sarebbero quindi scorretti i termini del giudizio di pari efficacia compiuto dal giudice che avrebbe dovuto prendere in esame solo il tema della disposizione a rombo degli ancoraggi e l’eventuale adozione di altri sistemi.
2.2. In sintesi, poi, la censura di cui al terzo motivo investe l’impugnata sentenza per aver fondato il giudizio di condanna quanto all’imputazione di cui al capo 2), con cui si contestava la configurabilità dell’illecito in relazione all’art. 111, comma secondo, d.lgs. n. 81 del 2008, in quanto contenente passaggi apodittici e manifestamente illogici, frutto di travisamento del fatto; il giudice, in altri termini, avrebbe fondato il giudizio di responsabilità basandolo sull’osservanza delle fotografie in atti, che avrebbero dimostrato come le botole di accesso agli impalcati erano poste nelle immediate adiacenze del piede delle scale che conducevano da un piano all’altro; secondo il giudice, la scala, pur correttamente disposta a rampe sfalsate presentava un pericolo ulteriore “non meglio individuato” rispetto a quello insito nel percorrere la scala, in quanto chi fosse scivolato salendo o scendendo da una delle scale, avrebbe potuto finire nella botola e cadere al piano sottostante, rischio che avrebbe potuto essere evitato facendo in modo che tra la botola e la base della scala vi fosse una distanza maggiore; detta affermazione del tribunale sarebbe logicamente errata, da un lato, perché errata sarebbe la premessa circa la necessità di una modalità esecutiva diversa da quella seguita e errata, dall’altro lato, sarebbe l’inferenza secondo cui la pretesa difformità realizzerebbe una condizione di pericolo ulteriore rispetto a quella tipica del mezzo; detto pericolo ulteriore – che, secondo il tribunale, consisterebbe nel rischio di caduta nella botola e quindi nel piano sottostante – in realtà sarebbe stato insussistente, in quanto, si sostiene, il ricorrente avrebbe scrupolosamente osservato la disposizione, prevedendo un sistema di scale sfalsate e non in prosecuzione, tant’è che sarebbe stato materialmente impossibile per la stessa posizione fisica della scale che un soggetto che fosse scivolato da una delle scale potesse finire nella botola sottostante, e indi cadere al piano inferiore, per due ordini di ragioni: a) da un lato, perché il lavoratore avrebbe trovato sotto di sé il tavolato del ponteggio e non la botola, che si trovava a seconda del piano alla sua dx o alla sua sx; b) dall’altro lato, perché le stesse dimensioni della botola rendevano impossibile ad un essere umano di normale corporatura passarvi attraverso, se non in posizione perfettamente verticale, e comunque trovando a contrastare la caduta la stessa scala di discesa al piano; la premessa fattuale su cui il tribunale fonda il giudizio di responsabilità, pertanto, sarebbe del tutto errata, donde la manifesta illogicità della motivazione; infine, conclude il ricorrente, non avrebbero alcuna valenza le considerazioni svolte dal giudice quanto alla circostanza, emersa nel corso dei due sopralluoghi, per la quale le botole erano state trovate aperte, ciò che consentiva di desumere come ai dipendenti non venisse raccomandato di tenerle chiuse dopo ogni passaggio, considerazione che – secondo il ricorrente – oltre che essere frutto di una infondata inferenza generalizzante, non solo non rientrerebbe affatto nell’ambito applicativo del disposto dell’art. 111, comma secondo, d.lgs. n. 81 del 2008, ma non varrebbe a dimostrare che la medesima situazione si realizzasse normalmente in cantiere, né autorizzava a ritenere non attendibile la prova contraria sul punto.
2.3. In sintesi, infine, la censura di cui al quarto motivo investe l’impugnata sentenza per aver erroneamente applicato il giudice l’art. Ili citato, la cui ratio è quella di imporre al datore di lavoro di predisporre un sistema di accesso ai piani di lavoro in quota che risulti idoneo, concetto, quest’ultimo, cui sarebbe connaturale un profilo di discrezionalità da esercitarsi tuttavia in modo da garantire l’oggetto della tutela, ossia l’incolumità del lavoratore; la corretta lettura della norma mostrerebbe come ben chiari siano i criteri cui orientare il vaglio di idoneità che la soluzione concreta adottata dal datore di lavoro deve soddisfare: a) frequenza di circolazione, dislivello e durata dell’impiego; b) prescrizioni puntuali, limitative della scelta discrezionale circa i sistemi di accesso, indicando il requisito di consentire l’evacuazione in cado i pericolo imminente e di non ingenerare rischi di caduta ulteriori rispetto alla percentuale di rischio già insita nell’utilizzare un sistema di accesso in quota; sarebbero questi i parametri cui dovrebbe ispirarsi la valutazione circa l’idoneità del sistema di accesso, e, in caso di esito negativo di tale giudizio, in base ai quali deve essere specificamente motivata la scelta sanzionatoria; il giudice, anziché seguire tali indicazioni, si sarebbe invece limitato ad una valutazione superficiale della situazione di fatto, osservando le fotografie acquisite e, proseguendo, avrebbe apoditticamente affermato la inidoneità della scelta operata dal ricorrente; da qui, dunque, la violazione di legge, avendo applicato il giudice la norma oltre i limiti testuali ad essa riferibili, non essendo ravvisabile, secondo il ricorrente, alcun rischio ulteriore di caduta e risultando assolutamente possibile l’evacuazione del ponteggio nel caso in esame.
Diritto
3. Il ricorso, al limite dell’inammissibilità per la genericità di taluni profili di doglianza, è infondato.
4. Al fine di comprendere la soluzione in diritto di questa Corte, è opportuno ed imprescindibile un sintetico inquadramento della vicenda.
Dalla lettura dell’impugnata sentenza è emerso che in occasione di un sopralluogo eseguito presso il cantiere aperto dall’impresa di cui il ricorrente è amministratore, era stato accertato: a) che il ponteggio era stato progettato ex art. 133, d.lgs. n. 81 del 2008, con altezza superiore ai 20 mt. ed era ancorato al fabbricato con uno stocco in tubo e giunto e con una legatura di filo di ferro ritorto del diametro di 3 mm. vincolata ad un tassello ancorato nella muratura; b) che l’accesso ai diversi piani dell’impalcato era consentito da scale a pioli in metallo inclinate alternativamente verso dx e verso sx, ma le botole che consentivano il passaggio da un piano all’altro erano poste nelle immediate adiacenze della scala, alla dx o alla sx del piede della stessa. Da quanto riferito dal verbalizzante, il sistema di ancoraggio, costituito da tiranti di fil di ferro ritorto, costituiva una soluzione tecnica diversa da quella prevista nel progetto di ponteggio redatto dall’Ing. C. ; tale diversa soluzione, ad avviso del verbalizzante, non forniva adeguate garanzie di resistenza a non poteva essere considerata di pari efficacia rispetto a quella indicata nel progetto (capo 1).
Quanto al sistema prescelto per l’accesso agli impalcati (capo 2), ex art. 111, comma secondo, d.lgs. n. 81 del 2008), lo stesso non forniva garanzie di sicurezza contro il pericolo di caduta, in quanto le botole erano poste troppo a ridosso delle scale e, nel corso di tutti i sopralluoghi, si era constatato che venivano lasciate aperte, sicché vi era per i lavoratori che utilizzavano le scale, un pericolo di caduta aggiuntivo rispetto a quello che si sarebbe verificato se le botole fossero state distanti dal piede di ciascuna scala.
Tale situazione come accertata comportava, con riferimento al sistema di ancoraggio del ponte alla facciata, la violazione dell’art. 125, comma sesto, d.lgs. n. 81 del 2008 e, con riferimento al sistema di accesso agli impalcati, la violazione dell’art. 111, comma secondo, d.lgs. n. 81 del 2008. Le prescrizioni successivamente impartite ex d.lgs. n. 758 del 1994 erano rimaste senza esito, non avendo provveduto il ricorrente ad eliminarle, come appurato a seguito di sopralluogo eseguito successivamente alla scadenza del termine per l’adempimento, in quanto le botole erano state spostate se non in minima parte e il ponteggio continuava ad essere ancorato alla facciata con tiranti di fil di ferro.
5. Tanto premesso in fatto, può quindi procedersi all’esame dei singoli motivi. Seguendo l’ordine sistematico suggerito dall’impugnazione in sede di legittimità dev’essere esaminato il primo motivo che, unitamente al secondo, possono essere oggetto di trattazione congiunta attesa l’omogeneità dei profili di doglianza mossi. In relazione all’imputazione di cui al capo 1), il ricorrente – come già avvenuto in sede di merito – ha sostenuto di aver sempre utilizzato per ancorare i ponteggi alla facciata tiranti in filo di ferro, tanto che nessuno aveva mai contestato nulla nel corso delle numerose ispezioni subite negli anni, trattandosi di ancoraggio efficace e idoneo in relazione al tipo di sollecitazione che il ponteggio riceve; lo stesso c.t. della difesa, Ing. C. , che aveva redatto il progetto del ponteggio “incriminato”, aveva osservato che la scale non erano allestite sulla stessa verticale bensì sfalsate, sicché il sistema di accesso all’impalcato era idoneo a prevenire i pericoli di caduta; ove il piano di lavoro fosse stato attivo, le botole avrebbero dovuto essere chiuse, sicché il fatto che le stesse fossero collocate nelle adiacenze della base della scala non creava alcun pericolo aggiuntivo per chi saliva e scendeva dalla scala.
Il giudice, quanto a tale imputazione, ha osservato che il sistema di ancoraggio con filo di ferro era stato in uso per tantissimi anni e tollerato in quanto valutato come soluzione di pari efficacia rispetto ad altre; sia l’ing. R. , organo accertatore, che il perito d’ufficio, ing. M. , in servizio presso la ASL, però, avevano evidenziato come detto sistema di ancoraggio non fosse più in uso da quattro – cinque anni, non avendo gli stessi mai visto nel corso delle ispezioni eseguite ponteggi che fossero ancorati alla facciata esclusivamente con legature di fil di ferro; da ciò era quindi desumibile che detta prassi, assai diffusa in passato, era stata abbandonata progressivamente, in quanto anche nel settore dell’edilizia ci si è adeguati alle migliori possibilità offerte dall’evoluzione tecnologica; dalle indicazioni promananti dall’Ing. M. , perito d’ufficio, poi era emerso che in forza della normativa vigente può ritenersi adeguato qualsiasi sistema di ancoraggio del ponteggio alla facciata purché quel sistema garantisca ex ante di poter resistere alle sollecitazioni cui, sulla base delle relazioni di calcolo, il ponteggio è destinato ad essere sottoposto; l’ancoraggio del ponte alla facciata, quindi, può essere realizzato anche con sistemi diversi da quelli previsti nelle autorizzazioni ministeriali o nelle previsioni di progetto, ma a condizione che sia possibile calcolarne la capacità di resistenza e verificarne l’efficacia; in particolare, in base a quanto era stato chiarito dal perito, l’ancoraggio serve a garantire la verticalità del ponteggio ad evitare quindi che lo stesso possa allontanarsi troppo alla facciata, dovendo resistere alla compressione ed alla trazione.
Nel caso in esame, si legge in sentenza, per vincolare l’opera provvisionale al fabbricato erano stati predisposti stocchi in tubo e giunto, che dovevano resistere alla compressione, e legature di filo di ferro ritorto, vincolato a tasselli ancorati nella muratura, che dovevano resistere alla trazione; la relazione del calcolo del ponteggio predisposta dall’ing. C. prevedeva “ancoraggi a sbadacchio e anello o a tassello ad espansione previe vs verifiche sulla forza di estrazione”, prevedendo per l’anello l’impiego di un tondo in acciaio FeB32K del diametro di 6 mm.; il progetto, dunque, si precisa in sentenza, prevedeva uno sbadacchio (destinato a resistere alla forza di compressione e realizzato con stocchi di tubo e giunto) e un anello inserito in facciata realizzato con un tondo del diametro di 6 mm., prevedendo inoltre che fossero effettuate prove di estrazione o verifiche specifiche sulla resistenza dei tasselli in opera, ma dalla documentazione agli atti non era emerso che tali prove e verifiche fossero state eseguite; concludeva, quindi, il giudice che il progetto firmato dal C. non prevedeva la legatura con filo di ferro quale modalità di vincolo del ponteggio all’anello e che la soluzione di ancoraggio realizzata non era conforme alle previsioni di progetto, avendo peraltro il perito precisato che tale soluzione non era nemmeno conforme all’autorizzazione ministeriale perché non esistevano autorizzazioni ministeriali di ponteggi Dalmine che ammettano la legatura con filo di ferro; le dichiarazioni dell’Ing. C. secondo cui la legatura con filo di ferro rappresentava una soluzione di pari efficacia rispetto a quella ipotizzata nel progetto e anche rispetto a quelle indicate usualmente nelle autorizzazioni ministeriali sarebbe stata smentita, come si legge in sentenza, dal perito sulla base delle argomentazioni tecniche sviluppate alle pagg. 4 e 5 dell’impugnata sentenza (cui si rinvia per economia redazionale, non essendo peraltro nemmeno necessario argomentare sulle stesse in considerazione della natura del giudizio di legittimità), argomentazioni che il giudice mostra di condividere e che dimostravano come la soluzione prescelta non era efficace in un’ottica di prevenzione, ottica in cui ci si deve porre nell’applicare le disposizioni del T.U.S., affermazione la cui correttezza, afferma il giudice, sarebbe vieppiù confermata dalla considerazione per la quale l’evoluzione tecnologica ha reso possibile il ricorso a sistema di ancoraggio diversi e più sicuri rispetto a quelli impiegati dal ricorrente, in quanto un ancoraggio rigido del tipo di quelli illustrati nei disegni prodotti durante il giudizio, avrebbe consentito di eseguire calcoli di resistenza attendibili, mentre l’efficacia di un vincolo di fil di ferro dipende da una quantità di variabili, ivi comprese le sollecitazioni e deformazioni imposte all’atto della sua realizzazione; dette variabili non consentono, conclude la sentenza impugnata, di conoscere con adeguata precisione quale sarà la risposta meccanica del vincolo alle azioni di progetto, dunque impedendo di ritenere soddisfatta una verifica di affidabilità dell’ancoraggio, verifica imposta dall’art. 125 citato.
6. A fronte di tale dettagliata, accurata e logicamente ineccepibile motivazione del giudice di merito, fondata non su personali supposizioni ma su vantazioni tecniche condivise espresse con argomentazioni immuni da vizi logici, il ricorrente svolge censure al limite dell’inammissibilità, sostenendo che il giudice si sarebbe arrogato l’esercizio di un potere spettante al legislatore (secondo motivo) e che, comunque, avrebbe fatto un’errata applicazione della disposizione di cui all’art. 125, comma sesto, d.lgs. n. 81 del 2008; il giudice, cioè, indotto all’errore dall’inquadramento della questione che era stato operato in sede ispettiva dall’Ing. R. , si sarebbe concentrato non già sulla disposizione geometrica degli ancoraggi, ma sulle modalità tecniche di raccordo tra ponteggio e facciata dell’edificio, ossia sulle specifiche caratteristiche dei giunti di fissaggio, sicché tutta la valutazione svolta in sede dibattimentale sulla “pari efficacia” del sistema di ancoraggio utilizzato rispetto a quello, ritenuto più corretto (anche perché indicato nell’originario progetto del ponteggio redatto dall’Ing. C. ) basato sul raccordo a sbadacchio ed anello, avrebbe dovuto incentrarsi invece sulla pari efficacia tra la disposizione a rombo degli ancoraggi e l’eventuale adozione di altri sistemi, nel caso in esame non rilevabile.
Ritiene, diversamente, il Collegio che la valutazione operata dal primo giudice sia conforme al dettato normativo. Ed invero, occorre muovere dalla lettura della disposizione in esame. L’art. 125 del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, che trova il suo identico antecedente normativo nell’abrogato art. 20, comma sesto, del d.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164 (come coordinato con il D.M. 2 settembre 1968 e con il D.M. 6 ottobre 1988, n.451), nel disciplinare la disposizione dei montanti, stabilisce al comma 6 che “il ponteggio deve essere efficacemente ancorato alla costruzione almeno in corrispondenza ad ogni due piani di ponteggio e ad ogni due montanti, con disposizione di ancoraggi a rombo o di pari efficacia”.
La normativa prescrive che se lo schema del ponteggio si riferisce a uno schema allegato all’autorizzazione Ministeriale di riferimento, allora anche gli ancoraggi devono seguire tali schemi e rispettare quanto indicato nell’Autorizzazione.
La legislazione vigente (D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 coordinato con il D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106) disciplina l’erezione di ponteggi di altezza superiore a 20 m o riferiti a schemi diversi da quelli autorizzati, nell’art. 133 il quale recita: “1. I ponteggi di altezza superiore a 20 metri e quelli per i quali nella relazione di calcolo non sono disponibili le specifiche configurazioni strutturali utilizzate con i relativi schemi di impiego, nonché le altre opere provvisionali, costituite da elementi metallici o non, oppure di notevole importanza e complessità in rapporto alle loro dimensioni ed ai sovraccarichi, devono essere eretti in base ad un progetto comprendente: a) calcolo di resistenza e stabilità eseguito secondo le istruzioni approvate nell’autorizzazione ministeriale; b) disegno esecutivo.
2. Dal progetto, che deve essere firmato da un ingegnere o architetto abilitato a norma di legge all’esercizio della professione, deve risultare quanto occorre per definire il ponteggio nei riguardi dei carichi, delle sollecitazioni e dell’esecuzione. 3. Copia dell’autorizzazione ministeriale di cui all’articolo 131 e copia del progetto e dei disegni esecutivi devono essere tenute ed esibite, a richiesta degli organi di vigilanza, nei cantieri in cui vengono usati i ponteggi e le opere provvisionali di cui al comma 1”.
Tornando, all’art. 125, come detto, la norma chiarisce, al comma 6, che: “il ponteggio deve essere efficacemente ancorato alla costruzione almeno in corrispondenza ad ogni due piani di ponteggio e ad ogni due montanti, con disposizione di ancoraggi a rombo o di pari efficacia”. Tale indicazione del Testo Unico è molto generale, in quanto sarebbe più corretto dire che gli ancoraggi “devono essere quelli previsti nell’autorizzazione ministeriale”; infatti, se si fa riferimento ad un qualsiasi schema tipo di un qualsiasi libretto di autorizzazione ministeriale, è agevole verificare che di regola gli ancoraggi sono più numerosi di quelli indicati dall’art. 125 del Testo Unico. Come regola generale per gli ancoraggi deve dunque considerarsi quella indicata dal libretto di autorizzazione ministeriale e, se ciò non è possibile, si deve far eseguire da tecnico abilitato un progetto, sempre utilizzando però le tipologie di ancoraggio previste in quel libretto.
Nel caso di specie, è emerso che non era stato rispettato il sistema di ancoraggio indicato nel progetto e che quello eseguito (sistema “con fil di ferro ritorto”) secondo il perito, non assicurava pari efficacia rispetto a quello progettato (ossia dell’ancoraggio a “sbadacchio ed anello o tassello ad espansione”), confutandosi peraltro argomentatamele quanto sostenuto dall’Ing. C. circa la pari efficacia dei due sistemi.
Non può ritenersi, peraltro, che la lettura della norma operata dal giudice sia stata estesa facendovi rientrare anche le modalità tecniche di raccordo tra ponteggio e facciata dell’edificio, modalità che la disposizione non “normerebbe” limitandosi solo a descrivere le modalità topologiche di ancoraggio del ponteggio alla facciata, con riguardo alla frequenza ed alla disposizione geometrica. Ed invero, osserva il Collegio, la disposizione del comma 6 dell’art. 125 T.U.S., come già prima quella dell’abrogato art. 20, comma 6, d.P.R. n. 164 del 1956, stabilisce una regola tecnica che fissa indubbiamente le modalità topologiche di ancoraggio del ponteggio alla facciata, stabilendo inequivocamente che “deve essere efficacemente ancorato alla costruzione” e specificando le caratteristiche minime che tale efficacia garantiscono, come desumibile dalla congiunzione “almeno” che segue la frase “il ponteggio deve essere efficacemente ancorato alla costruzione”, con ciò intendendo specificare che il minimo normativamente (e tecnicamente) richiesto per garantire l’efficace ancoraggio del ponteggio alla costruzione è l’ancoraggio “almeno” in corrispondenza ad ogni due piani di ponteggio e ad ogni due montanti, con disposizione di ancoraggi a rombo o di pari efficacia.
Ciò, pertanto, non significa che al giudice sia precluso valutare le modalità tecniche di raccordo tra ponteggio e facciata dell’edificio, trattandosi di profilo sicuramente rientrante nel campo di applicazione della norma in oggetto che, come detto, descrive solo i requisiti minimi (“almeno”) perché un ancoraggio del ponteggio alla costruzione possa ritenersi efficace. È indubbio, infatti, che la stabilità del ponteggio è assicurata dagli ancoraggi i quali pertanto devono: a) essere di tipo autorizzato; b) essere dimensionati alle spinte trasmesse localmente dal ponteggio; c) “lavorare” sia a trazione sia a compressione; d) essere in numero sufficiente alle dimensioni del ponteggio. Ed un ancoraggio “efficace” nel senso voluto dall’art. 125, comma sesto, d.lgs. n. 81 del 2008, è quello “almeno” in corrispondenza ad ogni due piani di ponteggio e ad ogni due montanti, con disposizione di ancoraggi a rombo o di pari efficacia. Ma ciò, come detto, non preclude una valutazione più ampia che si “estenda” alle specifiche caratteristiche dei giunti di fissaggio. Per la stabilità durante l’esercizio del ponteggio, infatti, occorre non solo prevedere ancoraggi ad ogni 2 piani di ponteggio ed a ogni 2 montanti con disposizione di ancoraggi a rombo o di pari efficacia, ma anche procedere alla disposizione degli ancoraggi secondo schemi tipo autorizzati: situazione, questa, come detto, che la verifica tecnica eseguita dal perito ha valutato inidonea, atteso che il sistema di ancoraggio con fil di ferro ritorto è stato motivatamente e tecnicamente ritenuto di minore efficacia rispetto al sistema previsto nel progetto originario.
7. Può quindi procedersi all’esame del terzo e del quarto motivo di ricorso, anch’essi esaminabili congiuntamente, attesa l’omogeneità dei profili di doglianza sollevati che investono entrambi il disposto dell’art. 111, comma secondo, d.lgs. n. 81 del 2008.
Sul punto, il giudice, nel ritenere configurabile il reato in esame ha richiamato le fotografie in atti, affermando che la semplice osservazione delle stesse rendeva agevole verificare come le botole per l’accesso agli impalcati erano poste nelle immediate adiacenze del piede delle scale che conducevano da un piano all’altro; ciò creava, per chi stesse salendo o scendendo, un pericolo ulteriore rispetto a quello insito nel percorrere una scala, nel senso che chi fosse scivolato salendo o scendendo da una delle scale, avrebbe potuto infatti finire nella botola e cadere al piano sottostante, donde vi era un rischio ulteriore che poteva essere prevenuto facendo in modo che tra la botola e la base della scala vi fosse una distanza maggiore; peraltro, si legge in sentenza, dalla deposizione dell’Ing. R. era emerso che in occasione dei due sopralluoghi eseguiti nel cantiere, tutte le botole, che pure erano dotate di apposito coperchio, furono trovate aperte; da ciò il giudice desumeva, quindi, che, a differenza di quanto affermato in udienza dall’imputato e da uno dei testi (tale Vi. ), ai dipendenti non veniva raccomandato di chiudere dopo ogni passaggio il coperchio delle botole e nessun controllo veniva eseguito per essere sicuri che quei coperchi non restassero aperti.
8. A fronte di tale sintetica, ma esauriente argomentazione, il ricorrente svolge ancora una volta censure prive di pregio.
Come sostenuto già davanti al primo giudice, questi ha affermato che le botole aperte nei piani del ponteggio si trovavano alternativamente a dx e a sx della scala, dunque, essendo sfalsate tra loro, non determinavano alcun pericolo aggiuntivo di caduta e non era possibile collocarle in posizione diversa; nel ricorso si censura la manifesta illogicità dell’argomentazione svolta dal giudice che, per travisamento del fatto, avrebbe errato nel ritenere anzitutto necessaria una modalità esecutiva diversa da quella seguita e, in secondo luogo, avrebbe condotto un errato ragionamento inferenziale, sostenendo che la pretesa difformità avrebbe realizzato una condizione di pericolo ulteriore rispetto a quella tipica del mezzo, ossia il rischio di caduta nella botola e dunque nel piano sottostante. Tale argomentazione, inoltre, secondo il ricorrente, avrebbe violato la norma richiamata (art. 111, comma 2, d.lgs. n. 81 del 2008) che indicherebbe i criteri “discrezionali” cui orientare il vaglio di idoneità che la soluzione concreta adottata dal datore di lavoro deve soddisfare (frequenza di circolazione, dislivello, durata dell’impiego; prescrizioni puntali, limitative della scelta discrezionale circa i sistemi di accesso, quali quella di consentire l’immediata evacuazione in caso di pericolo imminente e non ingenerare rischi di caduta ulteriori); in sostanza, il giudice si sarebbe limitato a una vantazione superficiale della situazione di fatto basandosi solo sull’osservazione delle fotografie e, sulla base del predetto travisamento del fatto, avrebbe apoditticamente affermato l’inidoneità della scelta operata dal ricorrente, cosi estendendo il campo di applicazione della norma ben oltre i limiti testuali della stessa, in quanto non vi sarebbe stato alcun rischio ulteriore di caduta poiché le botole nei piani del ponteggio si trovavano alternativamente a dx e a sx della scala, dunque, essendo sfalsate tra loro, non determinavano alcun pericolo aggiuntivo di caduta.
9. Orbene, devono anzitutto essere considerate inammissibili alcune censure svolte nei due motivi. Si tratta, anzitutto, delle censure fondate su un presunto travisamento del fatto, posto che è pacifico che in tema di ricorso per cassazione, non è possibile dedurre come motivo il “travisamento del fatto”, giacché è preclusa la possibilità per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, laddove, invece, è solo consentito ex art. 606 lett. e) cod.proc.pen., dedurre il “travisamento della prova”, che ricorre nei casi in cui si sostiene che il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, posto che in quest’ultimo caso, infatti, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se questi elementi esistano: v., ex multis, Sez. 4, n. 4675 del 17/05/2006 – dep. 06/02/2007, P.G. in proc. Bartalini e altri, Rv. 235656.
In secondo luogo, vanno parimenti ritenute inammissibili quelle censure con cui il ricorrente si avventura in argomentazioni fattuali che imporrebbero a questa Corte lo svolgimento di valutazioni di merito, per definizione escluse davanti a questa Corte di legittimità (in particolare, laddove si sostiene che per la posizione fisica delle scale sarebbe stato materialmente impossibile che un lavoratore, scivolato dalla scala, finisse nella botola sottostante per poi cadere nel piano inferiore).
Ancora, non si sottraggono all’inammissibilità le censure che criticano l’applicazione del criterio logico – inferenziale da parte del giudice il quale avrebbe desunto dall’affermazione dell’Ing. R. che le botole fossero state trovate aperte in sede dei due sopralluoghi che ai dipendenti non venisse raccomandato di richiuderle, così sminuendo il contenuto probatorio di quanto affermato dall’imputato e dal teste Vi. . Ed invero, è pacifico che gli accertamenti (giudizio ricostruttivo dei fatti) e gli apprezzamenti (giudizio valutativo dei fatti) cui il giudice del merito sia pervenuto attraverso l’esame delle prove, sorretto da adeguata motivazione esente da errori logici e giuridici, sono sottratti al sindacato di legittimità e non possono essere investiti dalla censura di difetto, contraddittorietà o illogicità della motivazione solo perché contrari agli assunti del ricorrente, conseguendone dunque che tra le doglianze proponibili quali mezzi di ricorso, ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., non rientrano quelle relative alla valutazione delle prove, specie se implicanti la soluzione di contrasti testimoniali, la scelta tra divergenti versioni ed interpretazioni, l’indagine sull’attendibilità dei testimoni e sulle risultanze peritali, salvo il controllo estrinseco della congruità e logicità della motivazione, controllo nella specie agevolmente superato dall’impugnata sentenza (v., tra le tante: Sez. 4, n. 87 del 27/09/1989 – dep. 11/01/1990, Bianchesi, Rv. 182961).
10. Per il resto, non può porsi in dubbio la correttezza sotto il profilo logico – argomentativo e sotto il profilo giuridico dell’approdo cui è pervenuto il giudice di merito.
Ed infatti, occorre muovere ancora una volta dall’esame della norma di riferimento, costituita dall’art. 111, d.lgs. n. 81 del 2008. La norma, nello stabilire gli “Obblighi del datore di lavoro nell’uso di attrezzature per lavori in quota”, statuisce, al contestato comma secondo, l’obbligo del datore di lavoro di scegliere “il tipo più idoneo di sistema di accesso ai posti di lavoro temporanei in quota in rapporto alla frequenza di circolazione, al dislivello e alla durata dell’impiego”; la norma specifica, da un lato, che “il sistema di accesso adottato deve consentire l’evacuazione in caso di pericolo imminente” e, dall’altro, che “il passaggio da un sistema di accesso a piattaforme, impalcati, passerelle e viceversa non deve comportare rischi ulteriori di caduta”.
Orbene, nel corso del dibattimento è stato accertato che l’accesso ai diversi piani dell’impalcato era consentito da scale a pioli in metallo inclinate alternativamente verso dx e verso sx, ma le botole che consentivano il passaggio da un piano all’altro erano poste nelle immediate adiacenze della scala, alla dx o alla sx del piede della stessa. Si è quindi ritenuto tecnicamente – secondo una valutazione che non scaturiva da un personale apprezzamento soggettivo del giudicante, ma dalla valutazione tecnica dell’ing. R. , organo di P.G. che aveva eseguito il sopralluogo in cantiere valutando lo status loci – che il passaggio da un sistema di accesso ai piani di lavoro in quota, per come realizzato, non fornisse garanzie di sicurezza contro il pericolo di caduta, (rectius, non escludesse rischi ulteriori di caduta, per utilizzare la formula normativa), in quanto le botole erano poste troppo a ridosso delle scale e, nel corso di tutti i sopralluoghi, si era anche constatato che venivano lasciate aperte, sicché vi era per i lavoratori che utilizzavano le scale, un pericolo di caduta aggiuntivo rispetto a quello che si sarebbe verificato se le botole fossero state distanti dal piede di ciascuna scala.
La difesa ha censurato la valutazione giudiziale ritenendola sostanzialmente approssimativa, avendo esteso il campo di applicazione della norma, in quanto il fatto di aver previsto il ricorrente un sistema di scale sfalsate e non in prosecuzione sarebbe stato di per sé sufficiente ad escludere quei rischi di caduta ulteriori rispetto alla percentuale di rischio in sé insita nell’utilizzare un sistema di accesso in quota; in sostanza, il ricorrente, nell’approntare tale sistema di accesso ai piani di lavoro in quota avrebbe assolto l’obbligo datoriale normativamente imposto di realizzare un sistema di accesso “idoneo”, facendo quindi buon uso del potere discrezionale attribuitogli dalla legge, in quanto il sistema attuato – secondo il ricorrente – avrebbe evitato rischi ulteriori di caduta e garantito l’evacuazione del ponteggio.
Osserva, tuttavia, il Collegio come il ricorrente, censurando la valutazione giudiziale (che – lo si ripete per completezza – non si è basata solo sull’osservazione delle fotografie ma soprattutto sugli esiti del sopralluogo tecnico svolto dall’Ing. R. , posto che al perito ing. M. era stato solo formulato un quesito afferente il capo 1 della rubrica), circa l’inidoneità dell’attuato sistema di accesso ai piani di lavoro in quota, non ha esteso arbitrariamente l’ambito applicativo della disposizione di legge, ma ha valutato se la discrezionalità insita nell’assolvimento dell’obbligo datoriale imposto dall’art. 111, comma secondo, d.lgs. n. 81 del 2008, fosse stata correttamente esercitata dal datore di lavoro, esprimendo il giudicante una valutazione negativa dell’esercizio del predetto potere discrezionale del tutto coerente con le emergenze processuali e, soprattutto, in rigida aderenza al dato normativo che, come detto, nello stabilire l’obbligo del datore di lavoro di scegliere “il tipo più idoneo di sistema di accesso ai posti di lavoro temporanei in quota” – tra le prescrizioni da rispettarsi nell’esercizio della discrezionalità insita nella previsione della “maggiore idoneità” del sistema prescelto -, specifica proprio che “il passaggio da un sistema di accesso a piattaforme, impalcati, passerelle e viceversa non deve comportare rischi ulteriori di caduta”.
L’aver, dunque, ritenuto che il sistema realizzato di scale sfalsate e non in prosecuzione fosse insufficiente (rectius, inidoneo) ad escludere quei rischi di caduta ulteriori che la norma mira ad impedire – giudizio cui il giudicante approda in base ad un rilievo tecnico, sostenuto dall’Ing. R. e non efficacemente contrastato dalla tesi difensiva, che mira più a contestare l’esercizio del potere giudiziale di valutazione che la correttezza sotto il profilo tecnico dell’affermazione dell’organo di vigilanza in sede di accertamento, svolgendo con riferimento a tale ultimo profilo censure puramente contestative -, non può dirsi certo aver dilatato arbitrariamente l’ambito di applicazione della norma in questione, trattandosi di valutazione del tutto ammessa dalla littera legis.
11. Del resto, sul punto, non può ritenersi violato il principio di tassatività e determinatezza della fattispecie penale, rischio paventato dal ricorrente a pag. 13 del ricorso in cui viene evocato il parametro di riferimento di cui all’art. 25, comma secondo, Cost..
È sufficiente, a tal fine, ricordare l’insegnamento sul punto del Giudice delle Leggi con la nota sentenza n. 312 del 25 luglio 1996, in cui la Corte Costituzionale ebbe a dichiarare non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 25 e 70 Cost., dell’art. 41, co. 1, del d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277, che impone(va) al datore di lavoro di ridurre “al minimo, in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, i rischi derivanti da esposizione al rumore mediante misure tecniche, organizzative e procedurali, concretamente attuabili, privilegiando gli interventi alla fonte”, sollevata sotto il profilo della violazione dei principi di riserva di legge in materia penale e di tassatività e determinatezza della fattispecie penale, in quanto verrebbe posto a carico del datore di lavoro un obbligo del tutto generico e indeterminato, che fa riferimento, oltre alle prescrizioni ed acquisizioni tecniche, anche ad altre non meglio specificate misure organizzative e procedurali, senza contestualmente fissare un valore limite di tollerabilità del rumore.
In tale occasione, la Consulta ebbe a chiarire, da un lato, come la norma impugnata – caratterizzata più dalla predeterminazione dei fini che il datore di lavoro deve raggiungere che dalla individuazione dei comportamenti che egli è tenuto ad osservare, e quindi suscettibile di ampliare la discrezionalità dell’interprete – contiene una valutazione del legislatore circa le potenzialità lesive delle lavorazioni rumorose e la doverosità della riduzione al minimo del rumore, che non può essere contrastata dalla Corte costituzionale, trattandosi di valutazione ragionevole, diretta alla tutela dei valori espressi dall’art. 41 Cost.. Del resto, chiarì la Corte Costituzionale, l’eliminazione della disposizione impugnata comporterebbe anche l’eliminazione del generale dovere di protezione posto a carico del datore di lavoro e quindi un arretramento sul piano della concretizzazione dei principi costituzionali. Da un altro lato, si tratta di una norma penale di scopo che, nel fare riferimento anche alle misure organizzative e procedurali concretamente attuabili, investe la quasi totalità dell’attività di impresa ed una pluralità di mezzi, con pressoché infinite possibilità di combinazione, e quindi finisce per attribuire al giudice penale la discrezionalità spettante all’imprenditore. Tuttavia la disposizione impugnata, osservò la Corte, è suscettibile di una interpretazione adeguatrice – la sola che possa escludere il contrasto con l’art. 25 Cost. – tale da restringere considerevolmente la discrezionalità dell’interprete, ritenendo che, là dove parla di misure “concretamente attuabili”, il legislatore si riferisca alle misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti, sicché sia penalmente censurata soltanto la deviazione dei comportamenti dell’imprenditore dagli “standard” di sicurezza propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive.
L’accertamento del giudice, pertanto, dovrà essere indirizzato non tanto a stabilire se una determinata misura sia compresa nel patrimonio di conoscenze nei diversi settori, ma se essa sia accolta negli “standard” di produzione industriale, o specificamente prescritta.
Nello stesso senso, si noti, anche con la sentenza n. 475 del 27 aprile 1988, la Corte Costituzionale ebbe a chiarire come l’obbligo per l’imprenditore di adottare i provvedimenti consigliati dalla tecnica per diminuire l’intensità dei rumori dannosi ai lavoratori non può dirsi generico ed indeterminato, in quanto alla mancata fissazione di limiti massimi di tollerabilità delle emissioni sonore negli ambienti di lavoro suppliscono le nozioni della scienza specialistica e le significative indicazioni comunque presenti nell’ordinamento (all’epoca, d.P.R. n. 146 del 1975, concernente le indennità di rischio per il personale civile e gli operai dello Stato). Sia l’imprenditore che il giudice – chiarì la Corte costituzionale – sono pertanto in grado di conoscere il comportamento che la legge esige, e l’integrazione della norma ad opera del giudice, mediante prudente apprezzamento delle indicazioni scientifiche, non costituisce invasione dei poteri riservati al legislatore.
Facendo, quindi, coerente applicazione di tali principi, non può quindi dirsi che il giudice, in base alle risultanze dell’accertamento tecnico svolto dall’Ing. R. (che aveva verificato come l’accesso ai diversi piani dell’impalcato era consentito da scale a pioli in metallo inclinate alternativamente verso dx e verso sx, ma che le botole che consentivano il passaggio da un piano all’altro erano poste nelle immediate adiacenze della scala, alla dx o alla sx del piede della stessa), abbia travalicato i limiti applicativi della disposizione in esame affermando che il sistema prescelto per l’accesso agli impalcati (capo 2), ex art. 111, comma secondo, d.lgs. n. 81 del 2008, non fornisse garanzie di sicurezza contro il pericolo di caduta, in quanto le botole erano poste troppo a ridosso delle scale (e che, nel corso di tutti i sopralluoghi, si era constatato che venivano lasciate aperte), sicché vi era per i lavoratori che utilizzavano le scale, un pericolo di caduta aggiuntivo rispetto a quello che si sarebbe verificato se le botole fossero state distanti dal piede di ciascuna scala.
Il giudice, nel caso in esame, infatti, valutando la previsione dell’art. 111, comma secondo, d.lgs. n. 81 del 2008, che impone l’obbligo del datore di lavoro di scegliere “il tipo più idoneo di sistema di accesso ai posti di lavoro temporanei in quota” – e tenendo conto delle prescrizioni da rispettarsi nell’esercizio della discrezionalità insita nella previsione della “maggiore idoneità” del sistema prescelto -, ha motivatamente ritenuto che non fosse stata rispettata proprio la prescrizione secondo la quale “il passaggio da un sistema di accesso a piattaforme, impalcati, passerelle e viceversa non deve comportare rischi ulteriori di caduta”, così svolgendo quell’opera di integrazione della norma, mediante prudente apprezzamento delle indicazioni tecniche fornite dal R. che aveva sottolineato come quel sistema di accesso agli impalcati non fornisse garanzie di sicurezza contro il pericolo di caduta, essendo le botole poste troppo a ridosso delle scale e che, essendo peraltro emerso nel corso dei sopralluoghi che erano aperte, ciò rendeva potenzialmente esistente il pericolo di caduta aggiuntivo per i lavoratori impegnati nell’utilizzo delle scale, rispetto a quello che si sarebbe verificato se le botole fossero state distanti dal piede di ciascuna scala (indicazione tecnica non rispettata). La circostanza, peraltro, che pur non avendo ottemperato alle prescrizioni ex d.lgs. n. 758 del 1994, il ricorrente avesse provveduto a spostare “se non in minima parte” le botole, costituiva prova della possibilità tecnica di attuare il sistema di accesso ai posti di lavoro temporanei in quota “più idoneo”, possibilità tecnica che per una deliberata scelta imprenditoriale di non rispettare le prescrizioni venne solo parzialmente attuata, così determinando il rinvio a giudizio e la condanna del datore di lavoro.
12. Devono, conclusivamente, essere affermati i seguenti principi di diritto:
a) “La disposizione del dell’art. 125, comma sesto, D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, – come già prima quella dell’abrogato art. 20, comma 6, d.P.R. n. 164 del 1956 -, stabilisce una regola tecnica con cui si indicano le modalità topologiche di ancoraggio del ponteggio alla facciata, indicando che il minimo normativamente (e tecnicamente) richiesto per garantire l’efficace ancoraggio del ponteggio alla costruzione è l’ancoraggio almeno in corrispondenza ad ogni due piani di ponteggio e ad ogni due montanti, con disposizione di ancoraggi a rombo o di pari efficacia; ne consegue che, al giudice non è precluso valutare le modalità tecniche di raccordo tra ponteggio e facciata dell’edificio, trattandosi di profilo sicuramente rientrante nel campo di applicazione della norma in oggetto, la quale si limita a descrivere solo i requisiti minimi (almeno) perché un ancoraggio del ponteggio alla costruzione possa ritenersi efficace.
b) L’art. 111, comma secondo, D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, che individua gli Obblighi del datore di lavoro nell’uso di attrezzature per lavori in quota, nel prevedere l’obbligo del datore di lavoro di scegliere il tipo più idoneo di sistema di accesso ai posti di lavoro temporanei in quota, specifica, in particolare, che il passaggio da un sistema di accesso a piattaforme, impalcati, passerelle e viceversa non deve comportare rischi ulteriori di caduta; ne consegue che non può ritenersi preclusa al giudice la valutazione della idoneità o meno del sistema di accesso ai posti di lavoro temporanei in quota, ritenendo insufficiente l’adozione di un sistema di scale sfalsate, ove detto sistema, tenuto conto delle prescrizioni da rispettarsi nell’esercizio della discrezionalità insita nella previsione della maggiore idoneità del sistema prescelto, si riveli tecnicamente inidoneo a scongiurare i rischi di caduta ulteriori rispetto alla percentuale di rischio in sé insita nell’utilizzare un sistema di accesso in quota”.
13. Il ricorso dev’essere, conclusivamente, rigettato. Al rigetto del ricorso segue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.