Cassazione Penale, Sez. 4, 17 dicembre 2015, n. 49819

Omissione di cautele per le cadute dall’alto. Formule assolutorie di merito VS formule dichiarative dell’estinzione del reato.


Presidente: D’ISA CLAUDIO
Relatore: PAVICH GIUSEPPE
Data Udienza: 24/11/2015

Fatto

1. – Con la sentenza indicata in epigrafe, in riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Lecco il 14.4.2014, la Corte di Appello di Milano dichiarava non doversi procedere nei confronti di D’A.V., in ordine al reato p. e p. dall’art. 590, commi 1, 2 e 3 c.p., per essere il detto reato estinto per maturata prescrizione.
L’imputazione afferiva alla mancata adozione da parte del D’A.V. – quale datore di lavoro e titolare della ditta D’A. Costruzioni Edili sedente in Chiari (BS)- di doverose cautele prevenzionistiche, di tal che, agendo con negligenza, imprudenza, imperizia e in violazione degli artt. 68 D.P.R. 164/56 e 12 comma 3 del D.Lgs. 494/1996, ed in specie omettendo di applicare le misure di prevenzione atte ad evitare le cadute nel vuoto prescritte dal coordinatore per l’esecuzione dei lavori, determinava le condizioni per il verificarsi dell’infortunio occorso al dipendente S.L.A., il quale, il giorno 21 maggio 2007, nell’effettuare un’operazione di calo a terra mediante gru e posizionamento delle staffe in ferro necessarie per completare un’armatura di solette sovrastanti alcuni box seminterrati, cadeva in uno dei detti box attraverso un’apertura presente nella soletta predisposta per il posizionamento di un lucernario e non adeguatamente protetta; da ciò derivavano a carico del S.L.A. le lesioni di cui in atti, giudicate guaribili in giorni 72.
Nella sentenza impugnata si conferma sostanzialmente l’addebito mosso a carico del D’A.V., nella detta qualità: egli aveva infatti assunto, quale titolare dell’impresa omonima operante in regime di subappalto, ogni responsabilità nell’organizzazione del lavoro, nell’impiego di macchinari e nella mano d’opera (come risulta dal contratto di subappalto sottoscritto con la ditta subappaltante Costruzioni e Ricostruzioni di Casatenovo, riportato per stralci nell’impugnata sentenza); né, ad avviso della Corte di merito, rileva che il S.L.A. operasse come capo cantiere e responsabile della sicurezza, atteso che non risultava che il D’A.V. avesse a lui delegato il compito di mettere in sicurezza i lavoratori che avrebbero dovuto eseguire il montaggio delle staffe in ferro.
2. – Avverso la prefata sentenza di appello ricorre il D’A.V. tramite il proprio difensore di fiducia.
2.1. – Nell’unico motivo di ricorso, si censura la mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione con cui la sentenza impugnata ha escluso la sussistenza di circostanze idonee ad escludere la colpevolezza dell’imputato ai sensi dell’art. 129 c.p.p.; evidenzia all’uopo il ricorrente che l’assunzione, da parte del S.L.A., della qualità di capo cantiere responsabile della sicurezza implicherebbe che, in assenza del datore di lavoro, sia costui ad assumere le responsabilità in materia antinfortunistica e sia il soggetto istituzionalmente preposto al controllo dell’osservanza delle misure dì sicurezza. Inoltre il ricorrente censura che la sentenza non abbia convenientemente motivato in ordine alla condotta tenuta nell’occorso dalla persona offesa, descrivendo le circostanze in fatto in base alle quali il S.L.A. si sarebbe comportato in modo gravemente imprudente. Infine, si duole il ricorrente dell’assenza di dimostrazione che il comportamento tenuto dal D’A.V. sia qualificabile come condotta omissiva colposa.

Diritto

3. – Il ricorso è inammissibile, in quanto generico e comunque manifestamente infondato.
E’ infatti ben vero che, per pacifica giurisprudenza, è configurabile l’interesse ad impugnare dell’imputato nel caso in cui sia pronunciata sentenza di non doversi procedere per prescrizione, ex art. 129, comma primo, cod. proc. pen., considerato che detto interesse sussiste qualora dalla modifica del provvedimento impugnato – da intendere nella sua lata eccezione, comprensiva anche della motivazione – possa derivare l’eliminazione di qualsiasi effetto pregiudizievole per la parte che ne invoca il riesame. Pertanto, detta modifica rileva non solo quando l’imputato, attraverso l’impugnazione si riprometta di conseguire effetti penali più vantaggiosi come l’assoluzione o la mitigazione del trattamento sanzionatorio, ma anche quando miri ad assicurare conseguenze extrapenali più favorevoli, come quelli che l’ordinamento rispettivamente fa derivare dall’efficacia del giudicato delle sentenze di condanna o di assoluzione nel giudizio di danno (art. 651 e 652 cod. proc. pen.), e dal giudicato delle sentenze di condanna o di assoluzione in altri giudizi civili o amministrativi (art. 654 cod. proc. pen.) (ex multis vds. da ultimo Cass. Sez. 5, n. 24300 del 19/03/2015 – dep. 05/06/2015, Migliaccio e altri, Rv. 263907).
Tuttavia -secondo un orientamento anch’esso pacificamente espresso dalla giurisprudenza di questa Corte- il principio suddetto è stato costantemente affermato in situazioni in cui non ricorreva una causa di estinzione del reato e non si rendeva applicabile, per conseguenza, il disposto dell’art. 129 c.p.p., comma 2, che predilige il proscioglimento nel merito allorché, pur ricorrendo la causa suddetta, risulti “evidente” l’innocenza dell’imputato. L’interesse di quest’ultimo ad essere prosciolto con formula totalmente liberatoria va bilanciato, infatti, con l’interesse pubblico ad una celere definizione del procedimento che lo riguarda, sia per evitare lo spreco di risorse pubbliche, sia per rendere più agevole l’ottemperanza degli obblighi assunti dallo Stato in sede internazionale. La giurisprudenza assolutamente prevalente esclude quindi, ad esempio, l’applicabilità della regola di cui all’art. 530, comma 2, in presenza di una causa estintiva di reato. In tale situazione vale la prescrizione di cui all’art. 129, in base alla quale, in presenza di causa estintiva del reato, l’indizio della prova ovvero la prova incompleta in ordine alla responsabilità dell’imputato non viene equiparata alla mancanza di prova, ma, per pervenire ad un proscioglimento nel merito soccorre la diversa regola di giudizio, per la quale deve “positivamente” emergere dagli atti processuali, senza necessità di ulteriore accertamento, l’estraneità dell’imputato a quanto contestatogli. Tanto perché l’art. 129 cit. vuole che la prova dell’innocenza sia “evidente”, sicché la valutazione che in proposito deve essere compiuta appartiene più al concetto di constatazione che di apprezzamento (Cass., n. 48461 del 2013; Cass., Sez. 1, 22.2.2011, in FI, 2011, 2, 58; Cass., Sez. 3, 24.4.2002, Rv 221618; Cass., Sez. 5, 2.12.1997, Fratucello; Cass., Sez. 1, 30.6.1993, Mussone).
In altre pronunzie si è poi affermato che l'”evidenza” richiesta dall’art. 129, comma 2, presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara, manifesta ed obiettiva da rendere superflua ogni altra dimostrazione, la quale finirebbe per concretizzarsi in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l’assoluzione ampia (Cass., Sez. 2, 19.2.2008, Palladini, in Mass. Uff., 239552; Cass., Sez. 6, 26.3-7.6.2007, Bastoni, in Mass. Uff., 236698; Cass., Sez. 4, 8.11.2006-25.1.2007, Dumitrescu e altro, in Mass. Uff., 236095).
Questa prospettiva è stata fatta propria anche dalle Sezioni Unite di questa Corte, le quali hanno affermato che, all’esito del giudizio dibattimentale, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, debba comunque prevalere l’immediata declaratoria di non punibilità rispetto al proscioglimento nel merito ex art. 530, comma 2, posto che il giudice può pronunciare sentenza di assoluzione ex art. 129, comma 2, soltanto nei casi in cui le circostanze idonee a escludere l’esistenza del fatto, la sua rilevanza penale ovvero la non commissione del medesimo da parte dell’imputato emergano dagli atti in modo assolutamente incontestabile, ferme restando le ipotesi in cui il giudice sia chiamato a dover approfondire ex professo il materiale probatorio acquisito. Ed è stato precisato, a tal riguardo, che, nonostante l’accertata contraddittorietà o insufficienza della prova, la formula del proscioglimento nel merito prevale sulla causa estintiva soltanto in due ipotesi: a) nel caso previsto dall’ art. 578, ossia qualora il giudice di appello – pur essendo intervenuta una causa estintiva del reato – è chiamato a valutare il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili per la presenza della parte civile; b) nel caso in cui il giudice di appello – nonostante il sopravvenire di una causa estintiva – ritenga infondato nel merito l’appello proposto dal pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione di primo grado resa ai sensi dell’art. 530, comma 2 (Cass., S.U., 28.5.2009, Tettamanti).
Del resto, già in epoca di poco successiva all’entrata in vigore del nuovo codice, in senso consimile si era espressa anche la giurisprudenza costituzionale, la quale aveva rilevato che il principio della prevalenza delle formule assolutorie di merito su quelle dichiarative dell’estinzione del reato, pur presente nell’ordinamento, è razionalmente contemperato, anche ai fini di economia processuale, con l’esigenza che appaia del tutto “evidente” dalle risultanze probatorie che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato (C. Cost. 26.6.1991, n. 300).
Pertanto, allorché le risultanze processuali siano tali da condurre a diverse interpretazioni tutte logicamente corrette, l’omesso proscioglimento ai sensi dell’art. 129 non può venire in considerazione come violazione di legge, ne’ l’eventuale vizio di difetto di motivazione è deducibile in cassazione poiché l’inevitabile rinvio al giudice di merito sarebbe incompatibile con l’obbligo di declaratoria immediata della causa estintiva del reato (Cass., Sez. 5, 24.6.1996, Battaglia; C, Sez. 6, 9.2.1995, Cardillo).
Ed inoltre si soggiunge che, secondo il pacifico orientamento di questa Corte, in presenza della causa estintiva della prescrizione, l’obbligo di declaratoria, da parte del Giudice di legittimità, di una più favorevole causa di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 2, comporta il controllo unicamente della sentenza impugnata, nel senso che gli atti dai quali può essere desunta la sussistenza della causa più favorevole sono costituiti unicamente dalla predetta sentenza, in conformità con i limiti di deducibilità del vizio di mancanza o manifesta illogicità di motivazione, la quale, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), deve risultare dal testo del provvedimento impugnato (ex plurimis cfr. Cass. Sez. 1, n. 35627 del 18/04/2012, Rv. 253458; Cass. Sez. 6, n. 27944 del 12/06/2008, Rv. 240955; Cass. Sez. 1, n. 10216 del 05/02/2003, Rv. 223575; Cass. Sez. 4, n. 9944 del 27/04/2000, Rv. 217255).
Nel caso di specie, sia in base alla lettura della sentenza impugnata, sia sulla base dello stesso motivo di ricorso, mancavano le condizioni per prosciogliere nel merito l’imputato dal reato a lui addebitato, avendo la Corte di appello spiegato – con larghi rinvìi alla pronuncia di prime cure e con motivazione completa e priva di vizi di manifesta illogicità, e con una corretta lettura delle risultanze probatorie – quali fossero le ragioni poste a base del giudizio di responsabilità del D’A.V..
Dalla manifesta infondatezza del ricorso, fondato altresì su circostanze per molti versi generiche, consegue l’inammissibilità del ricorso stesso, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1000 -stimata congrua ed equa- in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 24.11.2015

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