Postumi dell’infortunio sul lavoro: percentuale minima indennizzabile. Ricorso respinto.
Presidente: MACIOCE LUIGI
Relatore: AMENDOLA FABRIZIO
Data pubblicazione: 14/01/2016
Fatto
1. – La Corte d’Appello di Catanzaro, con sentenza del 17 giugno 2010, ha riformato la decisione del Tribunale di Lamezia Terme che aveva condannato l’INAIL ad erogare in favore di A.B. l’indennizzo ex art. 13 del d. lgs. n. 38 del 2000 commisurato a postumi invalidanti nella misura del 6% in relazione all’infortunio sul lavoro occorso all’assistita in data 30 dicembre 2003.
La Corte territoriale, effettuata la rinnovazione in grado di appello della consulenza tecnica d’ufficio, ha condiviso l’accertamento e la valutazione effettuate dal CTU che ha stimato i postumi della menomazione in misura pari al 5%, inferiore alla percentuale minima indennizzabile stabilita dal d. lgs. n. 38 del 2000.
2. – Con ricorso del 9 novembre 2010 A.B. ha domandato la cassazione della sentenza per due motivi. Ha resistito con controricorso l’Inail.
Diritto
3. — Con il primo mezzo di impugnazione si denuncia omessa ed insufficiente motivazione per la mancata valutazione di documenti decisivi per la definizione della controversia.
La Corte di Appello di Catanzaro – secondo parte ricorrente – avrebbe recepito acriticamente quanto affermato dal consulente tecnico d’ufficio senza avvedersi che il perito avrebbe omesso di valutare un referto di visita psichiatrica del 15.11.2004, un referto di visita psichiatrica del 20.6.2006 ed un referto di visita psichiatrica del 26.9.2006, tutti della ASL di Lamezia Terme, “documenti rilevanti ai fini della decisione della presente causa”.
Con il secondo motivo si denuncia ancora omessa ed insufficiente motivazione in ordine alla determinazione dei postumi permanenti nella misura complessiva del 5%, nonostante si fosse in presenza di due menomazioni, “quella relativa al tratto cervicale della spalla in misura del 2%, quella relativa al DPTS in misura del 3-4%”.
4. – Entrambi i motivi, da valutarsi congiuntamente per reciproca connessione, non possono trovare accoglimento.
Per consolidato orientamento di questa Corte la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (in termini, tra le altre, Cass. SS.UU. n. 24148 del 2013).
Invero il motivo di ricorso ex art. 360, co. 1, n. 5, c. p. c., non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo quello di controllare, sul piano della coerenza logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento, controllarne l’attendibilità e la concludenza nonché scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti in discussione, dando cosi liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (tra numerose altre: Cass. SS.UU. n. 5802 del 1998 nonché Cass. n. 1892 del 2002, n. 15355 del 2004, n. 1014 del 2006; n. 18119 del 2008).
Avuto specifico riguardo ai vizi di motivazione nelle ipotesi in cui il giudice respinga o accolga la domanda avvalendosi del parere di un consulente tecnico d’ufficio, tanto più quando è richiesto un accertamento di situazioni rilevabili solo con l’ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche (come avviene con la consulenza medico-legale), questa Corte ha più volte ribadito che il giudice del merito non è tenuto a giustificare diffusamente le ragioni della propria adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, ove manchino contrarie argomentazioni delle parti o esse non siano specifiche, potendo, in tal caso, limitarsi a riconoscere quelle conclusioni come giustificate dalle indagini svolte dall’esperto e dalle spiegazioni contenute nella relativa relazione, mentre non può esimersi da una più puntuale motivazione allorquando le critiche mosse alla consulenza siano specifiche e tali, se fondate, da condurre ad una decisione diversa da quella adottata (cfr., ex plurimis, Cass. n. 1660 del 2014; n. 25862 del 2011; n. 10688 del 2008; n. 4797 del 2007; n. 26694 del 2006; n. 10668 del 2005).
Si è altresì affermato che il giudice di merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del proprio convincimento, senza che sia necessario che egli si soffermi sulle contrarie deduzioni dei consulenti di fiducia che, anche se non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili con le argomentazioni accolte, risolvendosi in tal caso le critiche di parte, tendenti al riesame di elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, in mere allegazioni difensive, che non possono configurare il vizio di motivazione previsto dall’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. (Cass. n. 8355 del 2007; conformi. Cass. n. 17606 del 2007, n. 282 del 2009).
In ogni caso costituisce fermo principio della giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui il vizio, denunciabile in sede di legittimità, della sentenza che abbia prestato adesione alle conclusioni della perizia medico legale è ravvisabile in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata, o nella omissione degli accertamenti strumentali dai quali secondo le predette nozioni non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, mentre al di fuori di tale ambito la censura costituisce mero dissenso diagnostico che si traduce in una inammissibile critica del convincimento del giudice (cfr. ex multis Cass. n. 1652 del 2012; n. 569 del 2011; n. 9988 del 2009).
Nella specie la difesa della ricorrente, lungi dall’individuare un fatto dotato del carattere della “decisività”, che sarebbe stato trascurato dalla sentenza impugnata e dalla consulenza tecnica d’ufficio cui la medesima ha prestato adesione, che avrebbe condotto con certezza ad esiti diversi, si limita a contestare le valutazioni offerte dal giudice di merito e dal suo ausiliare, anche in ordine alla quantificazione dei postumi permanenti, prospettando una diversa ricostruzione soggettiva, in quanto più rispondente alle attese della patrocinata, senza evidenziare una manifesta illogicità tra gli elementi di valutazione medico-legale acquisiti al giudizio ovvero una palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica.
Sicché in definitiva i motivi in esame si traducono nell’invocata revisione dei convincimenti espressi dal giudice di merito, tesa a conseguire una nuova valutazione ed un diverso apprezzamento dei fatti, non concessa perché estranea alla natura ed alla finalità del giudizio di legittimità.
5. — Conclusivamente il ricorso va respinto.
Il presente giudizio è stato instaurato vigente l’art. 152 disp. att. c.p.c. nella formulazione introdotta dall’art. 42, d.l. n. 269 del 2003, convertito con modificazioni nella l. n. 326 del 2003.
Non avendo allegato il ricorrente, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di avere assolto nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado all’onere autocertificativo di cui alla disposizione citata (Cass. n. 9859 del 2014; Cass. n. 9651 del 2014; Cass. n. 9471 del 2014, Cass. n. 9386 del 2014), le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 2.100,00, di cui euro 100,00 per esborsi, oltre accessori secondo legge e spese generali al 15%.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 17 novembre 2015