Dequalificazione a seguito di infortunio in itinere. Compatibilità delle mansioni con la salute del dipendente.
Presidente: MACIOCE LUIGI
Relatore: BUFFA FRANCESCO
Data pubblicazione: 14/01/2016
Fatto
Il lavoratore M., dipendente di Trenitalia, ha adito il Tribunale della Spezia chiedendo l’accertamento della dequalificazione sofferta a far tempo dal 7.03.2001 quando, rientrato in servizio dopo un infortunio sul lavoro in itinere del 10.04.2000, era stato ritenuto non più idoneo alle mansioni di macchinista e collocato a terra nell’impianto della Spezia, con assegnazione di incarichi modesti ed inferiori alla qualifica posseduta.
Il Tribunale della Spezia ha accolto parzialmente il ricorso limitatamente alla dequalificazione sofferta dal lavoratore nel periodo dicembre 2005 – marzo 2006 compresi e dichiarava tenuta Trenitalia al pagamento del relativo danno, che liquidava complessivamente – in via equitativa e complessiva – in metà della retribuzione mensile in godimento nel periodo in questione, oltre rivalutazione ed interessi.
Con sentenza del 16.02.2009, la Corte d’Appello di Genova respingeva l’appello proposto dalla società compensando tra le parti le spese processuali del secondo grado di giudizio.
In particolare, la corte territoriale riteneva che il demansionamento del lavoratore era fondato su un motivo serio e giustificato, conforme alla previsione contrattuale (salvo che per un dato periodo limitato), non risultando peraltro indicazione o richiesta del lavoratore di sedi di lavoro o mansioni compatibili con il suo stato di salute. Avverso la sentenza della Corte d’Appello propone ricorso in Cassazione il lavoratore articolato in quattro motivi. Resiste
Diritto
Con il primo motivo di ricorso si deduce (ex art. 360 n. 5 c.p.c.) vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo, per aver attribuito rilievo alla mancata indicazione da parte del lavoratore delle sedi e mansioni compatibili.
Con il secondo motivo di ricorso si deduce (ex art. 360 n. 3 c.p.c.) violazione dell’art. 2103 c.c. in connessione con l’art. 2967 c.c., per avere la sentenza impugnato trascurato che il datore non aveva assolto all’onere della prova dell’impossibilità di utilizzare il lavoratore su posizioni lavorative equivalenti.
Con il terzo motivo di ricorso si deduce (ex art. 360 n. 5 c.p.c.) vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo, per aver trascurato che il lavoratore sin dall’inizio aveva dichiarato la sua piena disponibilità ad essere trasferito pur di non subire dequalificazione.
Con il quarto motivo di ricorso si deduce (ex art. 360 n. 3 c.p.c.) violazione degli artt. 2103 e 2967 c.c. in connessione con l’accordo sindacale di confluenza del settore ferroviario, per aver ritenuto il giudice di merito che l’accordo sindacale -che prevedeva un periodo massimo di adibizione del lavoratore in mansioni inferiori nel corso del quale il lavoratore doveva acquisire le necessarie abilitazioni/riqualificazioni necessarie per lo svolgimento di altre mansioni, equivalenti a quelle precedentemente svolte- dovesse essere interpretato nel senso che spettasse al lavoratore farsi carico di acquisire dette abilitazioni/riqualificazioni e non al datore di lavoro di indicare le mansioni per ottenere la richiesta di abilitazione/riqualificazione e predisporre il percorso per ottenerla.
I primi tre motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione: essi sono infondati. La sentenza impugnata con motivazione corretta e priva di errori logici e giuridici ha rilevato che il datore di lavoro ha assolto nel caso all’onere di provare l’impossibilità di utilizzare il lavoratore su posizioni lavorative equivalenti compatibili con lo stato di salute del lavoratore, correttamente valorizzando la mancata indicazione da parte del lavoratore in ordine alle sedi o alle mansioni compatibili con il suo stato di salute, al fine di escludere l’illegittimità dell’operato del datore e di affermarne la buona fede.
In tal modo, la decisione si è posta in linea con gli insegnamenti di questa Corte, secondo i quali (Sez. L, Sentenza n. 4920 del 03/03/2014), in tema di inidoneità fisica al lavoro, l’impossibilità di utilizzazione di un apprendista in mansioni equivalenti, in ambiente compatibile con il suo stato di salute e con disponibilità di personale che possa fornire la necessaria formazione, deve essere provata dal datore di lavoro, sul quale incombe anche l’onere di contrastare eventuali allegazioni del prestatore di lavoro, nei cui confronti è esigibile però una collaborazione nell’accertamento di un possibile “repechage” in ordine all’esistenza di altri posti di lavoro nei quali possa essere ricollocato.
Se dunque l’impossibilità di utilizzazione del lavoratore deve essere provata dal datore di lavoro, costituendo uno degli elementi che costituiscono il presupposto di fatto ed il requisito giuridico per la legittimità dell’esercizio del potere di assegnazione delle mansioni nel caso di inidoneità lavorativa del lavoratore, peraltro, al datore di lavoro non può chiedersi una prova assoluta ed inconfutabile, atteso che la concreta possibilità di diverso impiego del dipendente può emergere solo nel contraddittorio con le parti.
Se dunque il datore di lavoro ha l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziali, l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse compatibili, tale prova, tuttavia, non deve essere intesa in modo rigido (cfr. pure Sez. L, Sentenza n. 3040 del 08/02/2011) , dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato, e conseguendo a tale allegazione l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti (negli stessi termini, anche Sez. L, Sentenza n. 25197 del 2013; in precedenza, anche Cass. Sez. L, Sentenza n. 6559 del 18/03/2010 aveva ritenuto che il datore di lavoro deve dare prova anche dell’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, onere che può essere assolto anche mediante il ricorso a risultanze di natura presuntiva ed indiziaria, mentre il lavoratore ha comunque un onere di deduzione e di allegazione di tale possibilità di reimpiego).
Si è attenuta a questo principio la sentenza impugnata, che ha richiamato le risultanze istruttorie dalle quali emerge l’assenza nella sede di lavoro di mansioni (amministrative) compatibili con le condizioni di salute del lavoratore, restando irrilevanti peraltro l’esistenza di mansioni in sedi di lavoro geograficamente assai distanti per le quali il lavoratore non risulta aver indicato alcuna disponibilità all’assegnazione in quanto fuori dell’ordinaria sede di lavoro ed a notevole distanza dalla stessa 4 residenza del lavoratore.
Il quarto motivo è infondato, atteso che dal decorso infruttuoso del termine previsto dall’accordo sindacale per la riqualificazione del lavoratore non deriva automaticamente l’illegittimità dell’assegnazione al lavoratore di mansioni (che siano disponibili e comunque compatibili con lo stato di salute del lavoratore e con le capacità dallo stesso comunque espresse), in quanto il termine è posto dalla legge ad entrambe le parti del rapporto di lavoro al fine di ovviare all’inidoneità del lavoratore alle mansioni, fermo restando che, se l’inidoneità permane oltre il termine in ragione dell’inadempimento delle parti agli obblighi formativi derivanti dalla norma richiamata dell’accordo sindacale, salvo l’eventuale risarcimento del danno (che peraltro nel caso la corte territoriale ha ritenuto adeguatamente riconosciuto dal giudice di primo grado), la valutazione delle mansioni assegnate continuerà a dover essere effettuata alla luce dei criteri generali di legge in materia di jus variandi datoriale (e quindi in relazione alla compatibilità delle mansioni con la salute del dipendente, all’esistenza di alternative disponibili concretamente e alla possibilità di demansionamento come alternativa al licenziamento).
Le spese seguono la soccombenza
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di lite che si liquidano in € 3000 per compensi ed €
100 per spese, oltre accessori come per legge e spese generali nella misura del 15%.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 19 novembre 2015.