Repertorio Salute

Cassazione Civile, Sez. Lav., 02 febbraio 2016, n. 1966

Diritto alla reversibilità della rendita. Nesso causale tra decesso e malattia professionale.


Presidente: AMOROSO GIOVANNI
Relatore: BERRINO UMBERTO
Data pubblicazione: 02/02/2016

Fatto

La Corte d’appello di Messina ha rigettato l’impugnazione di P.D. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Messina che le aveva respinto la domanda del 29.7.2002 volta al riconoscimento del diritto alla reversibilità della rendita Inail goduta in vita dal coniuge P.C. il quale, secondo l’assunto della ricorrente, era deceduto per patologie dipendenti dalla malattia professionale per effetto della quale era stato titolare della suddetta prestazione.
Ha spiegato la Corte che gli accertamenti eseguiti in secondo grado dal consulente tecnico d’ufficio avevano consentito di appurare che non vi era stato nesso di causalità tra la malattia professionale, per la quale il P.C. aveva goduto della relativa rendita, e le cause che avevano comportato il suo decesso. Per la cassazione della sentenza propone ricorso P.D., nella sua veste di vedova di P.C., affidando l’impugnazione ad un solo motivo, illustrato da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Resiste con controricorso l’inail.

Diritto

Con un solo motivo la ricorrente lamenta che la Corte d’appello ha recepito le conclusioni del consulente d’ufficio riproducendo nell’impugnata sentenza i vizi della stessa relazione tecnica ed omettendo, in tal modo, di applicare il principio del nesso di causalità in materia di malattie professionali. Invero, secondo la ricorrente, il perito d’ufficio non aveva adeguatamente valutato il possibile concorso dell’esposizione di P.C. agli effetti delle polveri di silice nella determinazione della patologia neoplastica polmonare che ne aveva causato il decesso; inoltre, la Corte territoriale non aveva considerato i rilievi critici articolati dalla difesa avverso gli accertamenti eseguiti dall’ausiliare. Quindi, l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte d’appello sarebbe stato quello di essersi limitata ad esaminare la sussistenza in capo all’assicurato di una pneumopatia silicotica, omettendo del tutto l’indagine relativa alla sussistenza del concorrente nesso causale fra l’esposizione alle polveri di silicio ed il decesso del medesimo P.C.. Infatti, secondo tale assunto difensivo, il consulente d’ufficio aveva svolto la propria indagine con esclusivo riferimento alla correlazione fra la malattia professionale indennizzata e la sopravvenuta neoplasia, mentre il medesimo non aveva eseguito alcuna valutazione in ordine ai dati epidemiologici di correlazione fra neoplasie polmonari ed esposizioni alle polvere di silicio negli ambienti di lavoro.
Osserva la Corte che il ricorso è infondato.
E’, infatti, da rilevare che nella fattispecie alla valutazione del consulente tecnico d’ufficio, recepita dai giudici d’appello con motivazione esente da rilievi di legittimità, la ricorrente si limita a contrapporre la propria tesi sulle possibili concause della verificazione del decesso di P.C., senza evidenziare alcuna specifica carenza o deficienza diagnostica o errore scientifico in cui sarebbe incorso il medesimo consulente nel momento in cui escludeva la sussistenza del nesso di causalità tra il decesso del predetto lavoratore e la malattia professionale della silicatosi con broncopatia cronica enfisematosa per la quale il medesimo aveva goduto in vita della rendita nella misura del 18%.
Quanto alla lamentata mancata disamina del dato epidemiologico desumibile dalla esposizione alle polveri di silicio, si evidenzia che la doglianza è confutata dal rilievo, contenuto nell’impugnata sentenza, che non sussistevano elementi certi, in base alle risultanze strumentali, che potevano indurre a ritenere che il P.C. fosse stato affetto da silicosi e non, piuttosto, da silicatosi.
Ha, infatti, precisato la Corte territoriale che, in base ai chiarimenti forniti dal consulente d’ufficio, non si individuavano nei referti prodotti le lesioni anatomopatologiche fondamentali della tecnopatia rappresentata dalla fibrosi polmonare diffusa per formazione di noduli caratteristici (i noduli silicotici), mentre concordavano con la diagnosi della silicatosi i dati clinici dell’interstiziopatia e della reticolazione descritti in alcuni reperti radiologici in atti. In particolare, la Corte di merito ha posto in rilievo che gli esami diagnostici risalenti a pochi giorni prima del decesso del P.C. non evidenziavano uno stato di fibrosi parenchimale, né lesioni riferibili a pneumopatia silicotica.
D’altra parte, va ricordato che la valutazione espressa dal giudice di merito in ordine alla ricognizione delle cause che determinarono il decesso del P.C. costituisce tipico accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità quando è sorretto, come nella fattispecie, da motivazione immune da vizi logici e giuridici che consenta di identificare l’iter argomentativo posto a fondamento della decisione.
In effetti, allorquando il giudice di merito fondi, come nel caso in esame, la sua decisione sulle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, facendole proprie, perché i lamentati errori e lacune della consulenza determinino un vizio di motivazione della sentenza di merito, censurabile in sede di legittimità, è necessario che essi siano la conseguenza di errori dovuti alla documentata devianza dai canoni della scienza medica o di omissione degli accertamenti strumentali e diagnostici dai quali non si possa prescindere per la formulazione di una corretta diagnosi.
Orbene, sotto questo specifico aspetto, non è sufficiente, per la sussistenza del vizio di motivazione, la mera prospettazione di una semplice difformità tra le valutazioni del CTU e quella della parte circa l’entità e l’incidenza del dato patologico, poiché in mancanza degli errori e delle omissioni sopra specificate le censure di difetto di motivazione costituiscono un mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico e si traducono in una inammissibile richiesta di revisione del merito del convincimento del giudice (cfr. tra le tante Cass. n. 7341/2004).
Pertanto, il ricorso va rigettato.
Ai sensi dell’alt 152 disp. att. cod. proc. civ., la ricorrente resta esonerata dal pagamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
Così deciso in Roma il 15 ottobre 2015

Lascia un commento