Repertorio Salute

Cassazione Civile, Sez. Lav., 03 marzo 2016, n. 4222

La responsabilità per mobbing non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva: la responsabilità del datore di lavoro va inquadrata nell’ambito applicativo dell’art. 2087 c.c.


Presidente Macioce
Relatore Buffa

Fatto

La corte d’appello di Roma con sentenza del 15.4.2011, in riforma della sentenza del 2004 del tribunale capitolino, ha condannato la ASL ed il suo direttore C. al pagamento di Euro 30mila in favore della lavoratrice Co. , a titolo di risarcimento danni biologico e morale.
In particolare, la corte territoriale – che già aveva ritenuto con sentenza non definitiva del 2009 che la lavoratrice avesse subito un danno alla salute del 10% – ha quantificato le somme spettanti alla lavoratrice a titolo di risarcimento danno biologico e morale in applicazione delle tabelle milanesi, mentre ha rigettato la domanda di risarcimento del danno esistenziale per carenza di prova.
Avverso le due sentenze ricorre il C. per otto motivi, cui resiste con controricorso la Co. , che propone ricorso incidentale per cinque motivi, e la AsL, che propone controricorso incidentale per tre motivi; il ricorrente principale resiste con controricorso ai ricorsi incidentali e la Asl resiste con controricorso al ricorso incidentale della lavoratrice.

Diritto

Il ricorrente principale deduce:
1) ex art. 360 n. 3-4-5 c.p.c., violazione dell’art. 2697 e 2727 c.c., 113, 115, 116, nonché vizio di motivazione e omessa pronuncia su punto essenziale della controversia, per aver ritenuto la ricorrente subordinata non solo gerarchicamente ma anche emotivamente;
2) ex art. 360 n. 3-4-5 c.p.c., violazione dell’art. 2697 e 2727 c.c., 113, 115, 116, nonché vizio di motivazione e omessa pronuncia su punto essenziale della controversia, per aver ritenuto come lesivi un complesso di fatti singolarmente non provati né nella loro verificazione effettiva né nella loro portata lesiva;
3) ex art. 360 n. 3-4-5 c.p.c., violazione dell’art. 2697 e 2727 c.c., 113, 115, 116, nonché vizio di motivazione e omessa pronuncia su punto essenziale della controversia, per aver affermato la responsabilità del ricorrente in relazione a fatti non riconducibili allo stesso ma a soggetti allo stesso sovraordinati;
4) ex art. 360 n. 3-4-5 c.p.c., violazione dell’art. 2697 e 2727 c.c., 113, 115, 116, nonché vizio di motivazione e omessa pronuncia su punto essenziale della controversia, per aver ricostruito i fatti sulla base delle sentenze penali intervenute e non sulla base degli atti istruttori penali trascritti ed acquisiti nel giudizio civile;
5) ex art. 360 n. 3-4-5 c.p.c., violazione dell’art. 2697 e 2727 c.c., 113, 115, 116, nonché vizio di motivazione e omessa pronuncia su punto essenziale della controversia, per aver ritenuto la prova delle molestie sessuali sulla base delle sentenze penali intervenute e non sulla base degli atti istruttori penali trascritti ed acquisiti nel giudizio civile;
6) ex art. 360 n. 3-4-5 c.p.c., violazione dell’art. 2697 e 2727 c.c., 113, 115, 116, nonché vizio di motivazione e omessa pronuncia su punto essenziale della controversia, per aver ritenuto il nesso causale tra le presunte molestie alla lavoratrice e le patologie della stessa sofferte, benché queste fossero precedenti alle molestie e perduranti anche oltre le prime;
7) ex art. 360 n. 3-4-5 c.p.c., violazione dell’art. 2697 e 2727 c.c., 113, 115, 116, nonché vizio di motivazione e omessa pronuncia su punto essenziale della controversia, per aver fatto riferimento alle tabelle di diverso ufficio giudiziario nella valutazione equitativa del danno;
8) ex art. 360 n. 3-4-5 c.p.c., violazione dell’art. 2697 e 2727 c.c., 113, 115, 116, nonché vizio di motivazione e omessa pronuncia su punto essenziale della controversia, per aver riconosciuto il danno morale con motivazione oscura.
La lavoratrice ricorrente incidentale deduce:
1) ex art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., violazione dell’art. 1226 c.c., nonché vizio di motivazione, per aver considerato in modo inadeguato la gravità del mobbing subito dalla lavoratrice e l’entità dei relativi danni;
2) ex art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., violazione dell’art. 1226 c.c., nonché vizio di motivazione, per aver mal applicato le tabelle milanesi di liquidazione del danno, pur richiamate espressamente;
3) ex art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., violazione dell’art. 1226 c.c., nonché vizio di motivazione, per aver escluso il risarcimento del danno esistenziale;
4) ex art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., violazione dell’art. 1226 c.c., nonché vizio di motivazione, per aver escluso il rimborso di spese di consulenza sostenute dalla parte;
5) ex art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., violazione dell’art. 1226 c.c., nonché vizio di motivazione, per aver escluso il rimborso di spese mediche sostenute dalla parte.
La ASL ricorrente incidentale deduce:
1) ex art. 360 n. 3, 4 e 5 c.p.c., violazione dell’art.697, 2727, 2087, 2043 c.c., 113, 115 e 166 c.p.c. nonché vizio di motivazione, per aver equiparato la responsabilità della Asl e del ricorrente affermandone la solidarietà, senza differenziare l’efficienza causale delle condotte dei due agenti;
2) ex art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., violazione dell’art. 651 c.p.p. e 111 Cost., nonché vizio di motivazione, per aver trascurato l’estraneità della ASL al giudizio penale a carico del ricorrente, le cui risultanze sono state utilizzate ai fini della decisione dal giudice civile;
3) ex art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., violazione dell’art. 116 e 424 c.p.c., nonché vizio di motivazione, per aver trascurato le contraddizioni della consulenza di ufficio.
È preliminare l’esame dei motivi che attengono alla configurabilità della responsabilità dell’odierno ricorrente e della ASL, e dunque i motivi secondo, terzo e quarto del ricorso principale e primo del ricorso incidentale della ASL che pongono quel problema.
La sentenza non definitiva impugnata, dopo una lunga esposizione sui tratti generali ed astratti del mobbing, nell’esame degli episodi denunciati dalla lavoratrice richiama alcune prove testimoniali sulle molestie subite dalla lavoratrice ad opera del C. ed in genere sull’atteggiamento persecutorio e su alcuni episodi di aggressioni e molestie verbali del C. nei confronti della Co. ; per altro verso, la sentenza impugnata richiama la sentenza penale pronunciata nei confronti del C. , dalla quale risulterebbero confermati i comportamenti vessatori minacciosi e verbalmente violenti nei confronti della lavoratrice e di altre colleghe, nonché le richieste di trasferimento della lavoratrice in ragione delle condizioni di lavoro ovvero il trasferimento della stessa per “intervento” del C. , diretto superiore, ed infine l’ingiustificata contestazione di presunta violazione di obblighi contrattuali per la mancata ripresa del servizio dopo un periodo di malattia.
La corte territoriale ha quindi ritenuto che nel loro complesso i detti comportamenti, definiti “plurimi e continuativi”, abbiano integrato la fattispecie del mobbing del C. ai danni della Co. , con responsabilità del C. e della ASL (quest’ultima ritenuta responsabile in modo diretto per atti di gestione del rapporto di lavoro e in via indiretta per culpa in vigilando, per aver omesso di adottare le necessarie misure di salvaguardia dell’integrità psicofisica della lavoratrice).
Sul piano probatorio, la corte territoriale ha richiamato alcuni episodi direttamente accertati, ma fonda la decisione soprattutto sulla sentenza penale a carico del C. .
Pur nella consapevolezza delle generale difficoltà di allegazione e prova di fatti costituenti mobbing, e per altro verso dell’opportunità di una definizione rapida delle liti relative specie dopo anni di durata del giudizio di merito nei diversi gradi, non può non rilevarsi che la sentenza impugnata non precisa il contenuto specifico della sentenza (né della parte dispositiva né di quella motivazionale) emessa dal giudice penale, né distingue adeguatamente le condotte diverse ascritte al C. , per un verso, ed alla ASL per altro verso; correlativamente, risulta di difficile enucleazione la verifica della portata lesiva dei fatti ascritti nei confronti specificamente della Co. .
Da un lato, infatti, gli addebiti penali, neppure indicati nella sentenza impugnata, si riferiscono – a quanto consta in questa sede sulla base degli atti – a comportamenti in gran parte tenuti dal C. verso soggetti diversi dalla Co. , verso altre parti offese pur sempre svolgenti attività nel medesimo contesto lavorativo, ma pur sempre persone diverse dalla lavoratrice Co. ; sicché del tutto carente è nella sentenza impugnata non solo la descrizione dei fatti ritenuti rilevanti, ma anche la verifica puntuale della loro portata lesiva nei confronti specifici della Co. .
Per altro verso, la sentenza non distingue neppure fra gli atti posti in essere direttamente dal C. e quelli ascrivibili alla ASL, non risultando precisata l’incidenza della condotta del C. nel mutamento di sede lavorativa della Co. (talora richiesta dalla stessa, altre volte disposta dalla ASL, mentre non risulta una volontà efficiente direttamente manifestata dal C. , spesso ormai lontano dal luogo di lavoro della Co. ), né, per altro verso, la rilevanza dei trasferimenti nel determinismo causale del danno allegato dalla lavoratrice (considerato al riguardo sia che non risultano trasferimenti in sedi lontane o particolarmente disagevoli, sia per altro verso che non si comprende come il trasferimento – che equivaleva spesso ad un allontanamento dal luogo di lavoro diretto dal C. e dalle asserite molestie di questo – potesse essere considerato come foriero di danno).
Infine, non risulta esaminata dalla sentenza impugnata la responsabilità del C. per altri fatti a lui direttamente non riferibili, quali l’interferenza nel procedimento di causa di servizio promosso dalla ricorrente, la reiterazione di visite fiscali, o infine la contestazione di assenze dal servizio.
Il giudice di merito dunque non si è pronunciato né sulla graduazione delle colpe dei convenuti né sull’efficienza causale delle rispettive condotte, richiamando semplicisticamente una sentenza penale (ma non anche le prove del relativo giudizio, pur acquisite) dal contenuto imprecisato e relativo in buona parte a soggetti diversi: in tal modo, si è fondata la decisione su un fragile e non verificabile fondamento, senza mettere questa Corte nella condizione di comprendere -ai fini del giudizio di legittimità-quale fosse la condotta specificamente addebitata ai pretesi danneggianti, senza distinguere opportunamente ed analiticamente le rispettive responsabilità causali del C. e di organi diversi della ASL (e tenendo conto peraltro dell’estraneità della ASL al processo penale in discorso), e senza esaminare e verificare concretamente e specificamente quali effetti delle singole condotte ascritte si fossero prodotti nei riguardi della Co. (e solo di questa).
Si è in tal modo affermata la responsabilità del C. in relazione a fatti non precisati o non riconducibili allo stesso ma a soggetti allo stesso sovraordinati e, richiamando una sentenza penale dal contenuto non chiaramente enucleato, si sono ritenuti incongruamente come lesivi nei confronti della Co. fatti la cui portata nei confronti della specifica lavoratrice non era stata verificata.
Non vi sono per il resto ulteriori elementi per affermare la perdurante responsabilità dei convenuti, sicché occorre una nuova valutazione di merito alla luce dei criteri indicati.
La responsabilità per mobbing, infatti, non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va inquadrata nell’ambito applicativo dell’art. 2087 c.c. e ricollegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento (Sez. L, Sentenza n. 2038 del 29/01/2013, che proprio in riferimento a fattispecie di azione per responsabilità risarcitoria del datore per “mobbing” a seguito di causa di servizio di talune infermità contratte da un dipendente – ne ha tratto la conseguenza che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a Causa dell’attività lavorativa svolta, un danno, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro).
Come precisato da Sez. L, Sentenza n. 18927 del 05/11/2012, del resto, nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito è tenuto a valutare se i comportamenti denunciati possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili.
Per tutto quanto detto, vanno accolti i motivi secondo, terzo e quarto del ricorso principale; del pari, va accolto il motivo primo del ricorso incidentale della ASL, la configurazione della responsabilità della quale postula l’indicazione di fatti chiari dei quali essa possa essere chiamata a rispondere in via diretta ed indiretta.
Restano assorbiti i restanti motivi dei detti ricorsi nonché quelli del ricorso incidentale della lavoratrice.
Le sentenze impugnate (sia quella non definitiva che ha accertato la responsabilità, sia quella non definitiva che ha liquidato un danno che – all’esito della cassazione della sentenza non definitiva – va nuovamente verificato) vanno dunque cassate con rinvio alla stessa corte d’appello in diversa composizione, anche per il regolamento delle spese di lite.

P.Q.M.

Accoglie i motivi secondo, terzo e quarto del ricorso principale e primo del ricorso incidentale della ASL, e dichiara assorbiti i restanti motivi dei detti ricorsi nonché quelli del ricorso incidentale della lavoratrice. Cassa le sentenze impugnate, con rinvio alla stessa corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per il regolamento delle spese di lite.

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