Infortunio mortale dell’autista della ditta appaltatrice durante la movimentazione di due semibussole in acciaio. Individuazione del baricentro rimessa alla scelta degli operai.
Presidente: BIANCHI LUISA
Relatore: GIANNITI PASQUALE
Data Udienza: 09/02/2016
Fatto
l. Il Tribunale di Bergamo in composizione monocratica con sentenza emessa in data 31 marzo 2011 dichiarava B.I. e S.S. colpevoli di omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa in materia di prevenzione infortuni sul lavoro (art. 589 commi 1 e 2 c.p. in relazione all’art. 169 del d.p.R. 27 aprile 1955 ed agli artt. 4,7,22 e 35 del d. Igvo 19 settembre 1994, n. 626), fatto commesso ai danni di S.A., che decedeva, in Omissis, il 1 febbraio 2007. E, concesse le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, li condannava alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione ciascuno, oltre al pagamento delle spese processuali, con il beneficio della sospensione condizionale della pena.
L’infortunio si era verificato durante le operazioni di movimentazione di un manufatto (costituito da due semibussole) prodotto dalla FO., azienda appaltante, che doveva essere caricato sul camion condotto da S.A., autista alle dipendenze della ditta Autotrasporti B..
Era stato contestato ad entrambi gli imputati di aver cagionato colposamente il decesso di S.A. per violazione della normativa in materia di prevenzione infortuni sul lavoro.
In particolare a B.I., quale legale rappresentante della Autotrasporti B. Gianfranco & C. s.n.c. (appaltatrice del trasporto dei manufatti prodotti dalla FO. spa e datore di lavoro di S.A.) era stato contestato:
-di aver omesso di cooperare con la società appaltante all’attuazione delle misure di prevenzione o protezione dai rischi sul lavoro connessi all’attività oggetto di appalto, segnatamente di aver omesso di predisporre procedure di lavoro tali da consentire l’esecuzione delle operazioni di carico dei manufatti in condizione di sicurezza;
-di aver omesso di assicurare ai lavoratori, segnatamente alla persona offesa S.A., una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza con riguardo specificamente alle mansioni al medesimo assegnate e alle esigenze di cooperazione con i dipendenti delle società committenti.
A S.S., quale direttore dello stabilimento di Omissis della FO. spa e di responsabile della sicurezza della predetta società, era invece contestato:
-di aver omesso di valutare i rischi per la sicurezza connessi alle operazioni di movimentazione dei manufatti mediante l’utilizzo di mezzi di sollevamento e trasporto;
-di aver elaborato un documento di valutazione dei rischi privo: di una relazione sulla valutazione dei pericoli connessi alle operazioni di sollevamento e movimentazione da effettuarsi per il caricamento dei manufatti sui mezzi di trasporto; dell’Individuazione delle procedure operative per la valutazione delle caratteristiche dei manufatti da movimentare e per la conseguente scelta delle attrezzature più idonee sotto il profilo della sicurezza;
-di aver omesso di promuovere, quale datore di lavoro committente, la cooperazione e il coordinamento per l’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro connessi all’attività oggetto di appalto, segnatamente di aver omesso di predisporre procedure di lavoro tali da consentire l’esecuzione dello operazioni di carico dei manufatti in condizioni di sicurezza;
-di aver omesso di provvedere affinché le operazioni di sollevamento dei manufatti metallici prodotti dalla FO. s.p.a., segnatamente delle due semibussole metalliche da caricare sul camion condotto dalla persona offesa, fossero correttamente progettate nonché adeguatamente controllate ed eseguite al fina di garantire la sicurezza dei lavoratori;
-di aver omesso di adottare le misure necessarie per assicurare la stabilità del carico in relazione alle caratteristiche del mezzo utilizzato e all’esigenza di fissaggio del manufatto da movimentare.
2. La Corte di appello di Brescia con sentenza 13 gennaio 2015 riduceva la pena a S.S., concessa l’attenuante di cui all’art. 62 n. 6, a mesi otto di reclusione, e a B.I., ad anni uno di reclusione, stimate per entrambe gli imputati le riconosciute attenuanti prevalenti sulla contestata aggravante; concedeva al S.S. il beneficio della non menzione e confermava nel resto la pronuncia del giudice di primo grado.
3. Avverso la suddetta sentenza della Corte territoriale proponevano distinti ricorsi per cassazione, a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia, entrambi gli imputati.
4. Il ricorso di S.S. era affidato a tre motivi di doglianza.
4.1. Con il primo veniva dedotto vizio di motivazione in relazione al materiale probatorio (e in particolare all’elaborato peritale)
In particolare, il ricorrente si lamentava del fatto che anche il Giudice di secondo grado non aveva considerato i rilievi da lui presentati in merito alla formazione dell’elaborato redatto dal perito nominato dal Giudice di primo grado (Ing. L.F.), che, secondo la sua prospettazione, era stata la prova principe dell’espletato processo. Rilevava che il predetto perito era stato incaricato: di accertare la causa dell’infortunio, individuare il corretto baricentro del carico, determinare se esso fosse stato correttamente individuato e se, in caso contrario, ciò avesse determinato l’incidente; di valutare se il posizionamento degli stocchi di legno da parte dell’autista fosse stato corretto e se, in caso contrario, potesse aver avuto rilevanza nell’Incidente; di verificare la correttezza delle operazioni di carico del dipendente FO. e la formazione rispettiva dei lavoratori coinvolti in materia di sicurezza. Aggiungeva che l’Ing. F., per l’espletamento di detto incarico, aveva ritenuto di procedere ad un esperimento giudiziale al fine di simulare la procedura di caricamento e di movimentazione delle due semibussole (e quindi valutare se la manovra adoperata dal carrellista F. fosse stata corretta e individuare la dinamica della caduta del pezzo sotto il cui peso era deceduto S.A.). Precisava che il perito, dopo una prima simulazione risultata a lui favorevole, aveva arbitrariamente deciso di svolgere una nuova prova pratica e quindi di dare rilievo a fini del suo elaborato soltanto all’esito per lui negativo di questo secondo esperimento. Sottolineava che la seconda prova pratica, a differenza della prima, era stata effettuata dal perito sulla base di una situazione di fatto da lui creata diversa da quella rinvenuta in fase di dissequestro, di talché, essendo patologicamente viziata la metodologia utilizzata dal perito, le conclusioni dello stesso non avrebbero potuto essere messe a fondamento della sentenza affermativa di penale responsabilità, come invece fatto da entrambi i giudici di merito.
4.2. Con il secondo motivo veniva dedotto vizio di violazione di legge processuale penale in relazione ai disposti di cui agli artt. 191, 218, 219, 220 e 526 c.p.p., stabiliti a pena di inutilizzabilità.
Il ricorrente deduceva che le conclusioni a cui era giunto il perito (e sulla base delle quali sarebbe stata affermata la sua penale responsabilità) si basavano soprattutto sullo svolgimento di un esperimento giudiziale volto alla simulazione del pezzo sotto il cui peso era deceduto S.A. e, quindi, volto alla simulazione della procedura di caricamento, movimentazione e deposito delle due semibussole. Il perito aveva svolto due simulazioni (entrambe videoriprese), movimentando con il medesimo carrello (che era rimasto sotto sequestro dal giorno del sinistro) le due semibussole (quella che, cadendo, aveva determinato la morte di S.A. e quella che era rimasta sulle forche del carrello): la prima aveva evidenziato una condizione di estrema stabilità mentre la seconda di estrema instabilità, ragion per cui il perito aveva concluso affermando l’inadeguatezza delle manovre di caricamento, movimentazione e scarico. Senonché, nel corso dell’esame dibattimentale del perito, era emerso che, in occasione della seconda simulazione, era stata arbitrariamente modificata la posizione delle forche del carrello rispetto alla condizione nella quale lo stesso si trovava sotto sequestro (sull’erroneo presupposto che le forche fossero state spostate dai Vigili del Fuoco prima del sequestro). Così operando, il perito avrebbe portato a termine l’incarico ricevuto dal giudice in aperta violazione delle norme regolatrici dello svolgimento dell’esperimento giudiziale (218 e 219 cod. proc. pen.) nonché della perizia basta sulle risultanze di detto esperimento (220 cod. proc. pen.), di talché l’esito di detta prova sarebbe viziato da inutilizzabilità patologica ex art. 191 comma 2 cod. proc. pen. rilevabile in ogni stato e grado del procedimento. La pronuncia di condanna emessa (da entrambi i giudici di merito), basandosi quasi esclusivamente sull’esito dello svolgimento peritale, sarebbe pertanto da annullare, non essendovi agli atti altre prove, oltre a quella illegittimamente acquisita, che avrebbero potuto o potrebbero oggi giustificare una sentenza di condanna.
4.3. Con il terzo motivo venivano dedotti violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla quantificazione della pena anche alla luce della insussistenza della violazione di cui all’art. 4 d. lgs. n. 626/1994 (ritenuta dal giudice di appello).
Il ricorrente osservava che la Corte aveva rilevato la non addebitabilità a suo carico di tale rimprovero, non essendo egli il soggetto destinatario dell’obbligo di redazione del documento di valutazione di rischi, ma che, pur avendo escluso un profilo colposo, non aveva fatto discendere da tale esclusione alcuna conseguenza in punto di trattamento sanzionatorio, avendo calcolato le diminuenti per le attenuanti a partire dalla medesima pena base già considerata dalla sentenza di primo grado.
5. Il ricorso presentato nell’interesse dell’imputata B.I. era affidato a quattro motivi di ricorso.
5.1. Con il primo veniva dedotto vizio di motivazione in punto di rigetto della richiesta di rinnovazione dibattimentale.
Al riguardo, la ricorrente ricordava che in sede di appello aveva richiesto la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale mediante espletamento di un nuovo accertamento peritale, ma detta richiesta era stata respinta dalla Corte territoriale (p. 16), in quanto, da un lato, era già stata disposta perizia in primo grado ed i consulenti di parte avevano espresso le loro valutazioni in merito, fornendo elementi sufficienti e bastevoli per le valutazioni necessarie ai fini della decisione; e dall’altro era divenuto impossibile compiere valutazioni ulteriori perché il mezzo di sollevamento e trasporto era definitivamente inservibile ed il manufatto definitivamente alterato per l’ossidazione. Rilevava che, se la Corte avesse ritenuto non necessario l’espletamento di tale atto, non avrebbe dovuto nemmeno prendere in considerazione l’impossibilità sopravvenuta alla sua ripetizione; avendo la Corte diversamente argomentato, se ne doveva desumere che la stessa, se fosse stato possibile eseguire nuovamente la simulazione peritale, avrebbe considerato l’ipotesi di consentirne la replica. Osservava che, così motivando, era stato lo stesso giudicante a porre in evidenza il dato fondamentale dell’avvenuta ossidazione del materiale periziato e la conseguente inattendibilità delle risultanze peritali.
5.2. Con il secondo motivo veniva dedotto vizio di motivazione in punto di deduzioni difensive presentate nei motivi di appello, concernenti, in particolar modo, la perizia dell’Ing. L.F..
La ricorrente sottolineava la arbitraria modifica della distanza delle forche del carrello elevatore da parte del perito e rilevava che la Corte territoriale non aveva neppure affrontato le censure mosse dalla difesa sui ragionamenti, condotte e deduzioni del perito L.F.. Osservava che, qualora fosse stata riconosciuta l’assoluta inattendibilità della perizia, l’Immediata conseguenza sarebbe stata una rivalutazione della dinamica dell’incidente.
5.3. Con il terzo motivo veniva dedotto vizio di motivazione in punto di ricostruzione del sinistro e, in particolare, in punto di sussistenza del nesso causale tra la morte di S.A. e le omissioni contestate.
Al riguardo, la ricorrente deduceva che dalle emergenze processuali sarebbe risultata incerta la prova del nesso di causa tra il sinistro e le contestate infrazioni della disciplina antifortunistica. Osservava che senza la prova delle cause della caduta della semibussola, è impossibile ricondurre l’evento morte alla responsabilità sua e del coimputato. Ricordava che è principio di questa Corte quello secondo il quale, nei reati colposi, è sempre necessario verificare se la accertata violazione della regola cautelare, normativamente o meno prevista, abbia cagionato il singolo evento di cui volta in volta si discute.
5.4. Con il quarto ed ultimo motivo veniva dedotto vizio di motivazione in punto di determinazione della pena.
Al riguardo la ricorrente osserva che la Corte, pur riconoscendo a suo carico un minor rilievo del profilo di colpa e pur dando atto del suo recente subentro nella società del padre, ha determinato per lei la pena base in anni uno e mesi sei di reclusione (cioè la stessa pena base considerata per stabilire il trattamento sanzionatorio del coimputato S.S.): dunque, la Corte avrebbe comminato la medesima pena base a fronte di responsabilità valutate diversamente. Inoltre la pena base non sarebbe congrua alla luce del fatto che a lei era stato sostanzialmente addebitato soltanto il mancato coordinamento della esecuzione delle operazioni.
Diritto
1.1 ricorsi non sono fondati e, pertanto, devono essere respinti.
2.Infondati sono i primi due motivi del ricorso di B.I., come pure i primi due motivi di ricorso di S.S., che qui si esaminano congiuntamente, perché tutti relativi all’espletata perizia (a mezzo dell’Ing. L.F.) ed al conseguente esperimento giudiziale (sulla cui natura questa Sezione ha già avuto modo di soffermarsi: cfr. sent. n. 20066 dell’11/05/2010, Montini, Rv. 247537) ed alla conseguente deposizione dibattimentale del predetto perito.
In sintesi la difesa di entrambi gli imputati sostiene che la sentenza impugnata sarebbe viziata dalla violazione di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità. Precisamente, sarebbero inutilizzabili (per i motivi sopra richiamati nella parte in fatto) la suddetta perizia e gli incombenti ad essa connessi (l’esperimento giudiziale e l’esame del perito Ing. L.F.).
2.1. Ritiene la Corte che, al riguardo, occorre in primo luogo dare continuità al principio (fissato da consolidata giurisprudenza di legittimità), in base al quale, quando con il ricorso per cassazione si lamenti, come nella specie, l’inutilizzabilità di un elemento a carico, preliminare alla disamina della doglianza è la verifica dell’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza” (Sez. 6, sent. n. 18764 del 05/02/2014, Barilari, Rv. 259452; Sez. 2, sent. n. 14665 del 13/03/2013, Consoli, Rv. 255786; Sez. 5, sent. n. 37694 del 15/7/2008, Rizzo, Rv. 241299); ciò in quanto, gli elementi di prova acquisiti illegittimamente, per essere rilevanti, devono incidere, scardinandola, sulla motivazione censurata, mentre sono irrilevanti ed ininfluenti ogniqualvolta non abbiano avuto alcun reale peso determinante sulla decisione del giudice di merito.
Dunque, nel caso di specie, preliminare alla disamina delle diverse questioni relative all’espletata perizia ed ai conseguenti citati incombenti è la verifica se della suddetta prova si possa prescindere per la decisione. Ciò per l’appunto, si ribadisce, sulla base del cosiddetto criterio di resistenza applicabile anche nel giudizio di legittimità, il quale impone di valutare se gli elementi di prova, in ipotesi acquisiti illegittimamente, abbiano avuto un peso reale sulla decisione del giudice di merito. Occorre allora esaminare la struttura argomentativa della decisione impugnata, al fine di stabilire se la scelta di una determinata soluzione sarebbe stata la stessa anche senza l’utilizzazione di quegli elementi, per la presenza di altre prove ritenute di per sè sufficienti a giustificare l’identico convincimento (Sez. 5, sent. n. 569 del 18/11/2003, dep. 2014, Bonandrini ed altro, Rv. 226972; Sez. 6, sent. n. 10094 del 22/2/2005,Ricco ed altro, Rv. 231832).
Orbene, in applicazione di tali principi, rileva la Corte che dalla lettura di entrambe le sentenze di merito emerge come il fatto contestato agli odierni ricorrenti risulti compiutamente accertato sulla base del materiale probatorio in esse indicato, anche a prescindere dall’utilizzazione della perizia (che fu disposta dal giudice di primo grado, che il giudice di secondo grado non ha inteso rinnovare e che la difesa asserisce essere inutilizzabile).
In questa prospettiva, giova ricordare ancora una volta che B.I. e S.S. sono stati ritenuti responsabili di avere cagionato colposamente il decesso di S.A., perché, B.I., nella qualità di legale rappresentate della Autotrasporti B. Gianfranco & C. s.n.c.. e S.S., nella qualità di direttore dello stabilimento di Omissis della FO. S.p.a. e di responsabile in materia di sicurezza della predetta società, non ottemperavano alle norme di diligenza, prudenza e perizia del settore, nonché alle norme di igiene e di sicurezza sul lavoro, e, segnatamente, omettevano di formare adeguatamente i lavoratori, di valutare correttamente i rischi connessi alle operazioni per cui è processo, di cooperare e coordinare le medesime operazioni in relazione ai compiti spettanti secondo la rispettiva posizione contrattuale, di adottare, in ogni caso, le misure necessarie per garantire la sicurezza dei dipendenti, così come ai medesimi imputati normativamente richiesto, in virtù delle relative qualifiche. Giova altresì ricordare che B.I., nella suddetta qualifica, ricopriva il ruolo di appaltatrice del trasporto di manufatti prodotti da FO. S.p.a. (committente appaltante), nonché aveva la posizione di datore di lavoro di S.A., persona offesa deceduta.
2.2. Il Giudice di primo grado ha ritenuto che dall’espletata istruttoria dibattimentale era emerso che l’infortunio mortale si era verificato allorché la persona offesa si trovava impegnata nelle operazioni di movimentazione del materiale prodotto dalla FO., azienda appaltante, al fine del necessario caricamento del suddetto materiale, così da adempiere, conseguentemente, al trasporto dello stesso, come previsto in base al contratto di appalto in essere tra FO. e la società appaltatrice Autotrasporti B. S.n.c.. S.A., dipendente della Autotrasporti B., aveva il compito di svolgere, pertanto, il ruolo allo stesso riferibile nella qualità di autista del mezzo di trasporto, unitamente alla collaborazione di personale della FO. S.p.A., che aveva, a sua volta, l’incarico di porre nella disponibilità del vettore il materiale oggetto di trasporto attraverso l’utilizzo di procedure idonee a tale fine.
Al momento dell’infortunio, erano presenti, per la azienda FO. S.p.A., F.P., in qualità di capo turno, e Z.E., operaio che coadiuvava il F.P. nella movimentazione del manufatto.
Il manufatto era costituito da due semibussole in acciaio, ciascuna del peso di circa tre tonnellate, previamente tagliate, appunto, nelle due singole componenti ad opera della ditta FO., nell’ambito delle relative lavorazioni. I dipendenti FO. dovevano essere parti diligenti della messa in disponibilità delle suddette due semibussole a favore dell’autista della ditta appaltatrice, in vista del caricamento dei manufatti e del successivo trasporto degli stessi.
E’ così accaduto che il F.P., coadiuvato dallo Z.E., poneva le due semibussole sopra un carrello elevatore (fornito e di proprietà della ditta FO.), così da poter attraversare il piazzale della ditta di appartenenza e giungere sino al luogo ove era parcheggiato il camion deputato al trasporto delle semibussole e sul quale le stesse dovevano essere caricate. Durante la fase di caricamento, una delle due semibussole cadeva e ribaltandosi dalla parte opposta rispetto alla zona di caricamento andava ad investire S.A., che ne rimaneva schiacciato.
Secondo il giudice di merito di primo grado, la deposizione del teste Z.E. aveva chiarito nel senso sopra descritto la dinamica dell’incidente. Secondo detto teste, infatti, una volta che il pezzo era arrivato nei pressi del camion, S.A., che si trovava sul pianale, aveva dato al F.P. le indicazioni per il posizionamento del manufatto sul pianale stesso, ponendosi dalla parte della cabina, “posizione della quale F. aveva evidenziato la pericolosità, invitando lo S.A. a spostarsi, S.A. aveva dato l’ordine al F.P. di abbassare il carico per posizionarlo sul pianale del camion e, a quel punto, si era verificato l’incidente.
La versione resa dall’operaio Z.E. era stata confermata anche da F.P. (che aveva patteggiato la pena).
Le risultanze istruttorie (si rinvia in sentenza alle deposizioni, oltre che di Z.E. e di F.P., a quelle di Omissis, e del personale ASL che ebbe ad effettuare gli accertamenti) davano conto che spettava ai dipendenti della FO. portare i manufatti, mediante l’utilizzazione di carrello elevatore, in prossimità del camion della ditta di autotrasporti; mentre l’autista trasportatore aveva il compito di determinare in maniera incisiva le modalità di caricamento del manufatto sul suddetto camion per provvedere al trasporto del carico.
Quanto alla individuazione del profilo colposo, osservava il Tribunale che le due semibussole erano state caricate sulle forche del carrello elevatore senza legarle tra di loro, ma semplicemente accostandole, in una posizione di temporaneo equilibrio, tanto è vero che nulla era accaduto durante la fase di trasporto delle stesse; il carrellista, raggiunta la sponda laterale del mezzo, aveva sollevato le forche, per posizionare il carico; in questa fase si era verificato l’incidente.
A giudizio del Tribunale non vi era una specifica prescrizione aziendale in ordine alle modalità operative, essendo invero affidata all’esperienza del singolo lavoratore la scelta dei criteri di carico e delle attività necessarie all’espletamento della prevista movimentazione: ciò emergeva:
a) dalla deposizione del toste Z.E., secondo cui non vi erano istruzioni condizionanti da parte dell’azienda in merito alla operazione di legare insieme le bussole;
b) dalla deposizione di altro dipendente della FO., Omissis, che aveva dichiarato di decidere autonomamente le modalità di movimentazione e di carico sulla base dell’esperienza personale; che erano stati effettuati dei corsi meramente teorici per carrellista; che nel caso di movimentazioni quali quella per cui era processo il baricentro veniva valutato a occhio sulla base dall’esperienza, non essendovi pezzi standard presso la FO.; che solo successivamente all’infortunio erano state fornite dall’azienda le schede di lavorazione dove era indicato l’asse del baricentro, indicazione che mancava prima dell’infortunio;
c) dalla deposizione del teste Omissis, responsabile di reparto, che aveva confermato l’assenza di procedure definite e ciò perché l’azienda non produceva pezzi standard; che dopo l’infortunio venivano fomite ai dipendenti le schede di lavorazione che indicavano il punto di baricentro.
Quanto alla formazione dei dipendenti della ditta B.,
-il teste Omissis riferiva di aver avuto istruzioni sulla modalità di carico dei camion dal precedente titolare, che aveva anni di esperienza;
– il teste Omissis, altro dipendente, aveva riferito che la persona offesa era stata seguita per circa un mese da B. G. e poi da lui stesso per circa due mesi precisando che la società autotrasporti B. valutava l’esperienza sul campo più che effettuare corsi in materia di sicurezza, corsi che furono svolti solo successivamente all’infortunio.
Il Tribunale riteneva di condividere le conclusioni del tecnico dell’Asl, S.A., che aveva individuato la causa dell’Infortunio in errate modalità di conduzione della movimentazione, del trasporto e della imbracatura del pezzo che, essendo costituito da due componenti scindibili avrebbe richiesto “l’applicazione della norma prudenziale relativamente all’effettuazione di specifiche modalità di sicurezza, quali il legare i pezzi tra loro ovvero al carrello elevatore, ciò in considerazione della possibile Instabilità del pezzo più esterno anche per le eventuali oscillazioni relative alle operazioni di abbassamento delle fondo del carrello”.
Dovendo i vari soggetti coinvolti nell’operazione coordinarsi tra loro al fine della positiva conduzione delle procedure di movimentazione e di caricamento, era necessaria una collaborazione con i dipendenti della S.p.A. e una valutazione dei rischi interferenziali legati alla presenza di lavoratori appartenenti a più aziende, autonome tra loro, ma che operavano nell’ambito di un medesimo rapporto contrattuale: nel documento di valutazione rischi della FO. non risultavano essere previste indicazioni relative alla movimentazione di pezzi che non fossero tra loro solidali, così da valutarne la stabilità in base a regole più possibile predeterminate; i fogli di lavorazione non contenevano indicazioni circa le modalità con le quali effettuare la movimentazione di detti pezzi quanto alla necessità eventuale di una imbracatura, nonché quale modalità di movimentazione seguire all’interno dell’azienda e successivamente sino alla operazioni di affidamento all’autotrasportatore del manufatto.
Osservava il Tribunale che la società FO. aveva il compito, in quanto committente, di promuovere la cooperazione tra la propria azienda e le eventuali imprese esterne ai fini sopra evidenziati relativi al compimento della complessa operazione volta al successivo trasporto a mezzo vettore del materiale della stessa. D’altra parte, alla luce delle risultanze istruttorie esposte e della documentazione in atti, non era emerso che il dipendente della B. Autotrasporti fosse stato adeguatamente edotto attraverso idonei corsi teorici e pratici sulla pericolosità relativa alla peculiare natura del carico qualora il manufatto fosse costituito da pezzi dotati di intrinseca instabilità in quanto scissi fra loro e potenzialmente idonei a sbilanciarsi sia per il peso che per le caratteristiche strutturali dei medesimi, oltre che per le scelte di movimentazione del caso.
Giunto a questo punto della motivazione, il Tribunale aggiungeva (p. 8, rigo 9) che “le esposte considerazioni trovano ulteriore e certo riscontro, oltre che dalle prove orali e documentali analizzate, dall’esperita perizia di ufficio”
Concludeva perciò il Tribunale nel senso che “sia gli operai FO., sia l’autista destinato quale vettore dell’azienda appaltatrice, avrebbero ben dovuto riconsiderare le modalità di movimentazione dei pezzi alla luce della natura degli stessi, non costituenti un esemplare unico, ed in relazione alla quale natura la consistenza del relativo materiale determinava la necessità di una precisa diligenza e accortezza quanto alle modalità cautelative di carico, in tutte le fasi della movimentazione”. Era sì vero che, durante il trasporto, nulla si era verificato, tuttavia una corretta valutazione dei rischi dell’operazione, sia alla luce della propria esperienza sia in considerazione della formazione che le rispettive aziende avrebbero dovuto fornire, avrebbe portato a premunirsi dai rischi di caduta e avrebbero dovuto essere effettuate scelte di caricamento valide non solo in una limitata fase dell’operazione, ma durante tutto l’espletamento della medesima così da evitare possibili sbilanciamenti dei manufatti per le caratteristiche strutturali oggettivamente riscontrabili dei medesimi.
Il Tribunale quindi :
– richiamava integralmente la perizia, che riteneva “idonea a confermare la tesi già esposta dal testimone S.A., funzionario Asl”;
-rigettava le considerazioni del consulente tecnico di parte in merito alla esistenza di un errore umano da ricondurre alla condotta di S.A., osservando che la condotta della persona offesa era da valutarsi “unitamente alla condotta dei dipendenti della ditta appaltante, nell’ambito della cooperazione derivante dalla complessità dell’operazione posta in essere, dove tale operazione non viene qualificarsi per distinte e autonome configurazioni procedimentali, bensì riveste un contenuto unitario, volta alla messa in disponibilità a favore del vettore del manufatto oggetto del contratto d’appalto, e, nell’ambito del quale contenuto, la cooperazione degli operatori delle rispettive società è pregnante, certamente significativa delle rispettive responsabilità, come riferibili alle aziende di appartenenza degli operatori stessi”. Rigettava pertanto la prospettazione della consulenza tecnica della difesa S.S. secondo la quale l’incidente era dipeso dalla condotta tenuta dalla persona offesa; così come quella della difesa B., che riteneva la esclusiva responsabilità della società appaltante: infatti, le omissioni organizzative relative alla movimentazione dei manufatti, la mancanza di specifica formazione e regolamentazione della procedura che spettavano all’azienda appaltante e all’azienda appaltatrice, l’assenza di idonei corsi in materia, il difetto di cooperazione così come ragionevolmente e normativamente necessaria (essendosi in presenza di procedure che coinvolgevano la sicurezza di dipendenti di diverse ditte che operavano neLL’ambito di un unico rapporto contrattuale), erano tutte circostanze che avevano “valore condizionante e causativo dell’evento dannoso nei riguardi della persona offesa”.
Ritenuta non idonea la condotta del dipendente S.A. ad escludere il nesso di causalità tra l’infortunio e le condotte omissive descritte, il Tribunale perveniva alla affermazione di penale responsabilità in capo a entrambi gli imputati, “sussistendo sia il nesso di causalità in relazione all’evento dannoso sia la colposa violazione delle norme, sia generali che specifiche, del settore, come contestate”.
2.3. D’altra parte, la Corte territoriale, nella sentenza impugnata – dopo aver ripercorso la sentenza di primo grado (pp. 3-6), gli otto motivi di appello dell’imputato S.S. (pp. 7-12) e gli ulteriori otto motivi di appello (oltre ad uno proposto in via subordinata) dell’imputata B. (pp. 13-15) – dapprima ha respinto la richiesta di rinnovazione dell’Istruttoria dibattimentale, non ravvisando le condizioni di cui all’art. 603 cod. proc. pen..
Al riguardo va rilevato che la giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito: che il vigente codice di rito penale pone una presunzione di completezza dell’Istruttoria dibattimentale svolta in primo grado; che la rinnovazione, anche parziale, del dibattimento, in sede di appello, ha carattere eccezionale e può essere disposta unicamente nel caso in cui il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti; e che solo la decisione di procedere a rinnovazione deve essere specificamente motivata, occorrendo dar conto dell’uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non poter decidere allo stato degli atti (Sez. 5, sent. n. 6379 del 17/03/1999, Bianchi ed altri, Rv. 213403).
Nell’alveo dell’orientamento interpretativo ora richiamato, la Suprema Corte ha poi affermato che l’esercizio del potere di rinnovazione istruttoria si sottrae, per la sua natura discrezionale, allo scrutinio di legittimità, nei limiti in cui la decisione del giudice di appello, tenuto ad offrire specifica giustificazione soltanto dell’ammessa rinnovazione, presenti una struttura argomentativa che evidenzi – per il caso di mancata rinnovazione – l’esistenza di fonti sufficienti per una compiuta e logica valutazione in punto di responsabilità (cfr. Sez. 6, sent. n. 40496 del 21/05/2009, Messina ed altro, Rv. 245009).
Orbene, nel caso di specie, la Corte di Appello, nel rigettare l’istanza di rinnovo della perizia, ha espressamente rilevato che:
-l’assunzione della perizia non è riconducibile al concetto di prova decisiva di cui all’articolo 603 c.p.p. (cfr, tra le tante, Sez. 2, sent. n.36630 del 15/07/2013, Bommarito, Rv 257062);
-nel dibattimento del giudizio di appello la rinnovazione di una perizia può essere disposta solo se il giudice ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti;
-era già stata disposta perizia in primo grado ed i consulenti delle parti avevano espresso le loro valutazioni in merito, fornendo elementi assolutamente sufficienti e bastevoli per le valutazioni necessarie al fine della decisione degli appelli.
In definitiva, la Corte di Appello ha giustificato il rigetto della richiesta di rinnovo della perizia sviluppando plurime e specifiche argomentazioni che, in applicazione dell’orientamento interpretativo sopra richiamato, non risultano sindacabili in questa sede di legittimità.
Il fatto poi che la Corte abbia motivato il rigetto affermando anche che “è divenuto impossibile compiere valutazioni ulteriori perché il mezzo di sollevamento e trasporto è definitivamente inservibile ed il manufatto definitivamente alterato per la ossidazione” non significa affatto che la Corte territoriale abbia ritenuto necessaria la perizia, tanto è vero che ad essa la impugnata sentenza fa soltanto richiami di contorno, come di seguito si avrà modo di evidenziare.
2.4. Nel merito, la Corte territoriale ha ritenuto che il Tribunale fosse correttamente pervenuto a una pronuncia di penale responsabilità nei confronti di entrambi gli imputati, ravvisando i contestati profili di colpa (con esclusione di quello di cui all’art. 4 del d. lgvo n. 626/1994, contestato al S.S., non rivestendo lo stesso la posizione di datore di lavoro e non essendo dunque tenuto alla relazione del documento di valutazione dei rischi), causalmente connessi al verificarsi dell’evento, consistiti fondamentalmente nella mancata individuazione delle corrette e stringenti procedure da adottare per il trasporto dei carichi, nel mancato coordinamento della esecuzione delle operazioni in questione e nell’omessa informazione agli operai delegati alla esecuzione dette manovre di trasporto e di sollevamento dei manufatti.
In particolare, secondo la Corte, generiche erano le indicazioni che, nel corso del loro esame, gli imputati avevano fornito in merito ai contenuti degli incontri che tra loro avvenivano; in ogni caso, era emerso “indubitabilmente” che nessuna procedura dettagliata e formazione specifica fosse stata fornita né al mulettista né agli autisti in merito ai criteri da seguire nella movimentazione dei pezzi, procedure e formazione tanto più necessarie laddove ogni pezzo aveva la propria peculiarità, sia, nella forma che nel peso, circostanza che impediva agli operai di basare le scelte sulle modalità operative da attuare nei singoli trasporti sulla pregressa esperienza maturata nel trasporto di peni di analoga forma e dimensione.
Al riguardo, la Corte ha ricordato in nota la deposizione del teste della Asl, che aveva dichiarato: «per quella specifica movimentazione non c’era una procedura che richiedesse alla FO. di valutare la stabilità dei pezzi prima di fare la movimentazione… Nei fogli di lavorazione, in particolare, non c’erano indicazioni circa le modalità con le quali effettuare la movimentazione di questi pezzi, erano dei fogli di lavorazione che riportavano le caratteristiche della lavorazione da effettuare ma non davano indicazioni e chi effettuava queste lavorazioni e quindi, poi anche la movimentazione connessa alle lavorazioni, su come imbragarli, su come trasportarli, su come movimentarti all’interno dell’azienda, sia all’interno dell’azienda sia per le operazioni di carico e scarico dei camion, questa descrizione non c’era»
La specificità del trasporto avvenuto il giorno dell’Infortunio – ha precisato la Corte nella impugnata sentenza – stava proprio nelle caratteristiche del manufatto: si trattava di un cilindro cavo di acciaio, che, giunto in stabilimento il giorno precedente, era stato, come previsto, diviso a metà e, dopo la lavorazione in questione, doveva essere nuovamente trasportato altrove quella stessa mattina; il taglio del pezzo aveva fatto sì che da un pezzo con un unico baricentro erano risultati due pezzi aventi ciascuno un proprio baricentro, baricentro che – proprio per le caratteristiche strutturali (si trattava della sezione di un manufatto cavo a forma di 0 con ottenimento di due manufatti a forma di C), la forma semicircolare e il peso considerevole – veniva a trovarsi molto spostato verso il punto più esterno della semi circonferenza (come risulta dai disegni tecnici prodotti dalla difesa S.S. all’udienza del 18 maggio 2008).
«Ciò che emerge dagli atti – afferma la Corte richiamando in nota il teste Z.E. ed il teste assistito F.P. – è che quella mattina il mulettista e l’operaio poi deceduto, trovandosi davanti i due pezzi da movimentare e caricare sul pianale dell’autoarticolato, si sono cimentati da soli nella individuazione delle modalità più appropriate per il trasporto e il sollevamento del manufatto. La descrizione delle modalità con le quali i due hanno proceduto a caricare sulle forche il manufatto, costituito dalle due parti separate, dà conto di come i dipendenti si siano empiricamente industriati per ottenere quella che a loro sembrava una stabilità, prescindendo da qualsiasi considerazione sulla individuazione del baricentro di ciascuno dei due peni (problema che gli operai non si sono minimamente posti, preoccupandosi solo di sollevare il manufatto in una posizione che apparisse stabile) e della incidenza del fatto sulla stabilità del trasporto. I due pezzi, riaccostati per ricomporre l’originario manufatto a forma di 0, venivano poi movimentati senza l’adozione di alcuna cautela se non quella di una verifica, come detto, empirica della corretta e stabile distribuzione del relativo peso sulle forche. La esatta posizione della seconda semibussola (quella più esterna, che si è ribaltata) rispetto alle forche e all’altra semibussola, non è visivamente documentata (vi è documentazione fotografica della semibussola più prossima alla cabina del muletto) e pertanto ci si può rifare solo alla descrizione fattane dai testimoni — non precisa, laddove i testimoni si sono limitati ad affermare che la seconda bussola “appoggiava” sull’altra ne consegue che non può dirsi se le facce delle semibussole fossero integralmente combacianti o se si sovrapponessero solo parzialmente, dovendosi osservare, comunque, che dato il materiale di cui erano fatte e nonostante il loro peso, era possibile prospettare dei movimenti indesiderati tra le facce delle due semibussole che venivano a contatto e tra le basi delle semibussole e le forche del muletto, pure di metallo, movimenti capaci – data la reciproca posizione del baricentro della bussola più esterna e la linea dell’asse di rotazione determinato dei punti di appoggio sulle forche del carrello – di compromettere, in ogni momento, il precario equilibrio raggiunto. In questa situazione, come visto, le due semibussole non erano legate tra di loro; non erano vincolate al muletto e venivano ciò nonostante trasportate in condizioni tali da poter determinare, in qualsiasi momento, il ribaltamento del materiale e, nello specifico, il ribaltamento della semibussola più esterna … La stabilità che in effetti si è mantenuta si spiega perché, nella fase di trasporto, l’unico movimento era quello di spostamento in avanti, effettuato con la precauzione del mulettista di tenere le forche non parallele al terreno, ma inclinate ossia con l’estremo più lontano dal muletto in posizione più alta rispetto a quella dell’estremo più interno, posizione che favoriva l’appoggio del pezzo più interno contro le barriere verticali del muletto e l’appoggio del pezzo più esterno, per forza di gravità, contro il primo».
«Non appare pertanto persuasivo – osserva ancora la Corte – l’argomento per cui se il manufatto non si era ribaltato nei 40 m. di trasporto e si era rovesciato solo successivamente, ciò era da imputarsi a qualche manovra errata della vittima, perché assolutamente diverse erano le condizioni che concernevano la prima fase (solo trasporto con forche inclinate) da quelle della seconda fase (comprensiva del sollevamento delle forche e del carico sino ad una altezza superiore a quella del pianale dell’autoarticolato, avanzamento ulteriore e abbassamento delle forche, a questo punto perfettamente parallele, sul pianale del mezzo); in ogni fase cambiavano evidentemente gli equilibri, con sollecitazioni che potevano comportare che il baricentro geometrico (punto di applicazione del peso) della semi bussola esterna, valicasse la linea dell’asse di rotazione determinato dai punti d’appoggio. La stabilità della semibussola più esterna veniva meno, infatti, nel momento in cui, oltre al movimento in avanti, si aggiungeva il movimento in verticale e le forche erano poste perfettamente parallele al terreno. F.P., raggiunto il lato sinistro del camion, si fermava, effettuava il sollevamento dei manufatti, si avvicinava sino al bordo del pianale e iniziava a movimentare le forche in senso verticale per poter poggiare le semibussole sugli stocchi all’uopo predisposti. Evidente è che questa era la fase più delicata (come tale percepita dagli stessi operatori): per posizionare il carico, le forche, che avevano originariamente una certa inclinazione rispetto al piano parallelo, sono state portate in posizione perfettamente orizzontale rispetto al pianale del camion; l’ulteriore passo del trasferimento prevedeva che le due forche si adagiassero ai lati dei due stocchi già posizionati dallo S.A. sul pianale, di modo che i manufatti semicilindrici potessero poggiare in maniera stabile sui due travetti e tale rimanervi anche durante il trasporto. Risulta che, nel compimento di questa operazione, non si era neppure proceduto all’innalzamento della sponda laterale opposta al lato di caricamento e al suo aggancio (che, con ogni probabilità – avuto riguardo ai rilievi fotografici nn. 9-11, ndr – avrebbe impedito la caduta del pezzo dal pianale). In questa delicatissima fase, il F.P. e l’operaio che lo aiutava si erano resi conto delle necessità di coordinarsi con lo S.A., in modo che, innanzitutto, nella fase di abbassamento delle forche sul pianale, queste non venissero a contatto con gli stocchi, e si posassero, invece, a lato rispettivamente del travetto di destra e di quello di sinistra (cfr. foto 7 del fascicolo fotografico): l’operazione rendeva necessario calibrare in maniera perfetta il punto di appoggio dei due semi manufatti in modo che fosse possibile, una volta appoggiati i manufatti sugli stocchi, sfilare da sotto, senza toccarli, le forche. L’operazione, per come organizzata e gestita, richiedeva una precisione millimetrica, precisione che verosimilmente la persona offesa ha cercato di raggiungere portandosi in prossimità del manufatto, per valutare l’allineamento tra travetti e forche (emblematica è la foto 20 nell’allegato 2, costituito dal fascicolo fotografico, nella quale si vede la forca di sinistra del carrello elevatore rasente, se non a contatto, con il travetto di legno)».
«Non si vede come, a fronte di ciò, possa essere esclusa la penale responsabilità degli imputati con riferimento ai profili colposi già ritenuti dal primo giudice, attesa la delega totale agli operai in merito alle scelte operative, per giunta senza previamente aver loro fornito i dati essenziali per poterle orientare».
«Inevitabile, poi, che in una simile operazione, nella quale era stato coinvolto il conducente dell’autoarticolato, richiesto dì cooperare con i dipendenti del fornitore del manufatto, spettasse pur sempre al dipendente della spa F.P. valutare la correttezza di quanto S.A. andava facendo, cosicché, qualora egli avesse ritenuto che, per un maggior equilibrio e sicurezza nell’adagiamento del pezzo, fossero necessari non due, ma tre stocchi, egli avrebbe dovuto soprassedere dall’abbassare il pezzo fino a che non fossero stati posizionati proprio gli stocchi reputati necessari a quel fine. Non può, infatti, assolutamente condividersi l’affermazione secondo la quale, una volta che il muletto aveva raggiunto il luogo di stazionamento del camion, non competeva più ai dipendenti della S.p.A. occuparsi delle modalità di carico rientrando queste nella esclusiva discrezionalità dell’autista che poi doveva effettuare il trasporto: la conclusione è inaccettabile perché contraria alla logica e alla stessa ratio che informa la normativa antinfortunistica, che impone il coordinamento tra le imprese, ed, in ogni caso, tanto più è inaccettabile nel caso in esame ove il meno utilizzato per il trasporto e il sollevamento era di proprietà, della S.p.A. e gli operai che stavano effettuando quelle manovre erano alle dipendenze dalla S.p.A., ed erano coloro che avevano scelto – empiricamente – come caricare i due manufatti sulle forche del mezzo di trasporto e di sollevamento. In simili circostanze, è evidente che spettasse alla Spa garantire la sicurezza del trasporto e sollevamento del manufatto non solo e semplicemente nella fase di traslazione lungo il piazzale, ma anche nella fase di sollevamento sulle forche e trasferimento sul pianale del camion e ciò anche per rendere sicuro e agevole lo scarico, del materiale una volta giunto a destinazione».
«Ne consegue che, sia che il ribaltamento si sia verificato in fase di abbassamento delle forche sia che si sia verificato in fase di posizionamento delle stesse sul pianale dei camion, ciò è dipeso inevitabilmente dalle modalità con le quali i manufatti erano stati originariamente collocati sulle forche, (…)».
«La scelta delle modalità operative non poteva, dunque, e non può essere rimessa agli operai né può essere consentito che sia compiuta senza tener conto delle possibili variabili, come, di fatto, è avvenuto… Di fatto, si è verificato che nessuna indicazione hanno ricevuto il mulettista, l’operaio a terra o l’autista sulle modalità di trasporto delle due semibussole, e che gli operai hanno agito ignorando i rapporti tra il nuovo baricentro e l’asse di ribaltamento. È pacifico che sono stati F.P. e S.A. a decidere come trasportare le bussole, come posizionarle su muletto, come portarsi al camion e che l’operazione è stata interamente rimessa alla scelta di due operai, laddove F.P. è certamente persona esperta nella guida del muletto, ma, a fronte di carichi che non hanno caratteristiche standard, e che hanno quella forma e peso, doveva essere predisposta una modalità di trasporto che tenesse conto dei precisi e concreti rischi di ribaltamento fornendo agli operai le relative, precise procedure da seguire per il trasporto. Ciò che emerge dalla deposizioni dei testi che hanno operato quella mattina è, invece, che non vi è stata alcuna cooperazione tra i rispettivi datori di lavoro: quel giorno, S.A., F.P. e Z.E. sono rimasti ad operare da soli; da soli hanno scelto le procedure da seguire; da soli hanno optato per una modalità di trasporto che, a loro esclusivo giudizio, pareva la più sicura».
«Non può trovare conseguentemente accoglimento la richiesta di ravvisare una responsabilità esclusiva della persona offesa nella causazione dell’evento ai suoi danni: la Corte non può che richiamare i principi consolidati in materia, secondo cui, perché la condotta colposa del lavoratore faccia venir meno la responsabilità del datore di lavoro, occorre un vero e proprio contegno eccezionale od abnorme del lavoratore medesimo, esorbitante cioè rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute (mancanti nel caso in esame) e come tale, dunque, del tutto imprevedibile (…); in altre parole la condotta del lavoratore, per giungere ad interrompere il nesso causale tra condotta colposa del datore di lavoro o chi per esso ed evento lesivo ed ad escludere in definitiva la responsabilità del garante, deve configurarsi come un fatto assolutamente eccezionale, del tutto al di fuori della normale prevedibilità (…). Tali connotazioni non sono presenti nella condotta del lavoratore S.A., che nella colposa assenza di procedure e indicazioni su come eseguire la mansione affidata, si è industriato per provvedere al meglio, stando sul pianale del mezzo e valutando attimo per attimo la situazione relativa alla movimentazione del carico e che è intervenuto nei pressi dello stesso o per meglio sistemare gli stocchi e così favorire le operazioni del mulettista o per un gesto istintivo, una volta resosi conto del possibile e prossimo ribaltamento del manufatto».
«Infine, è evidente che le posizioni soggettive rivestite dal S.S. lo rendevano primo destinatario delle prescrizioni omesse, non potendo egli essere esonerato, né alla luce di quanto da costui dichiarato nel corso del suo esame, né con riferimento a mero ruolo di preposto del B., dagli obblighi di sicurezza che risultano violate».
«Ne consegue che per entrambi gli imputati deve trovare conferma la sentenza di condanna».
2.5. Ripercorsa la struttura argomentativa di entrambe le sentenze di merito, deve escludersi che l’esito dell’espletata perizia, con conseguente esperimento giudiziale e deposizione del perito abbia avuto reale peso determinante nella decisione non soltanto del primo giudice di merito (che la dispose, ma che poi ad essa ha dato soltanto il valore di “ulteriore” riscontro delle acquisite risultanze dibattimentali, orali e documentali: cfr., ancora p. 8, rigo 9), ma anche del giudice di merito dei secondo grado (che non ha rinnovato in appello la perizia e si è limitato a richiamare quella espletata in primo grado a contorno di risultanze già acquisite).
Ne consegue che l’invocata in utilizzabilità della espletata perizia, quand’anche fosse effettivamente sussistente, non sarebbe comunque idonea a scardinare l’articolata e concorde motivazione di entrambi i giudici di merito.
3. Non fondato è anche il terzo motivo di ricorso di B.I. in punto di nesso di causalità tra il sinistro e le contestate infrazioni della disciplina antinfortunistica.
E’ indubbio che l’applicazione del principio di colpevolezza esclude qualsivoglia automatismo rispetto all’addebito di responsabilità e si impone la verifica, in concreto, della violazione da parte dell’imputato non solo della regola cautelare (generica o specifica), ma, soprattutto nel caso di specie, della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso, che la regola cautelare mirava a prevenire (la cd. “concretizzazione” del rischio).
L’individualizzazione della responsabilità penale impone di verificare, cioè, non soltanto se la condotta abbia concorso a determinare l’evento (ciò che si risolve nell’accertamento della sussistenza del nesso causale) e se la condotta sia stata caratterizzata dalla violazione di una regola cautelare sia essa generica o specifica, ma anche se l’autore della stessa potesse prevedere, con giudizio “ex ante” quello specifico sviluppo causale ed attivarsi per evitarlo.
In tale ambito ricostruttivo, la violazione della regola cautelare e la sussistenza del nesso di condizionamento tra la condotta e l’evento non sono sufficienti per fondare l’affermazione di responsabilità, giacché occorre anche chiedersi, necessariamente, se l’evento derivatone rappresenti o no la “concretizzazione” del rischio, che la regola stessa mirava a prevenire; e se l’evento dannoso fosse o meno prevedibile, da parte dell’Imputato (Sez. 4, n. 43966 del 06/11/2009, Morelli, Rv. 245526).
Come è noto, infatti, la prevedibilità ed evitabilità del fatto svolgono un articolato ruolo fondante: sono all’origine delle norme cautelari e sono inoltre alla base del giudizio di rimprovero personale. In particolare, per quel che qui maggiormente interessa, l’art. 43 c.p. reca una formula ricca di significato: il delitto è colposo quando l’evento non è voluto e “si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia…”. Viene così chiaramente in luce, e con forza, il profilo causale della colpa, che si estrinseca in diverse direzioni.
Il pensiero giuridico italiano ha da sempre sottolineato che la responsabilità colposa non si estende a tutti gli eventi che comunque siano derivati dalla violazione della norma, ma è limitata ai risultati che la norma stessa mira a prevenire. Tale esigenza conferma l’importante ruolo della prevedibilità e prevenibilità nell’individuazione delle norme cautelari alla cui stregua va compiuto il giudizio ai fini della configurazione del profilo oggettivo della colpa. Si tratta di identificare una norma specifica, avente natura cautelare, posta a presidio della verificazione di un altrettanto specifico evento, sulla base delle conoscenze che all’epoca della creazione della regola consentivano di porre la relazione causale tra condotte e risultati temuti; e di identificare misure atte a scongiurare o attenuare il rischio. L’accadimento verificatosi deve cioè essere proprio tra quelli che la norma di condotta tendeva ad evitare, deve costituire “la concretizzazione del rischio”.
Orbene, nel caso di specie, la ricorrente B. è stata ritenuta responsabile: di aver omesso di cooperare con la società appaltante all’attuazione delle misure di prevenzione o protezione dai rischi sul lavoro connessi all’attività oggetto di appalto, segnatamente di aver omesso di predisporre procedure di lavoro tali da consentire l’esecuzione delle operazioni di carico dei manufatti in condizione di sicurezza; nonché di aver omesso di assicurare ai lavoratori, segnatamente alla persona offesa S.A., una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza con riguardo specificamente alle mansioni al medesimo assegnate e alle esigenze di cooperazione con i dipendenti delle società committenti. Quanto precede in violazione delle specifiche disposizioni in materia di prevenzione infortuni sul lavoro, richiamate in imputazione.
E’ indubbio che la suddetta normativa era proprio rivolta a prevenire infortuni sul lavoro, quale quello per cui è ricorso: il decesso del lavoratore S.A. si presenta quale concretizzazione del rischio che la richiamata normativa cautelare intendeva prevenire; e, d’altra parte, l’odierna ricorrente, quale titolare della posizione di garanzia, avrebbe potuto e dovuto prevedere, con giudizio ex ante lo specifico sviluppo causale ed attivarsi per evitarlo.
La conforme valutazione espressa, nel caso di specie, dai giudici di merito, risulta del tutto coerente, rispetto ai principi di diritto ora richiamati.
Invero, il giudice di primo grado ha osservato che le omissioni organizzative relative alla movimentazione dei manufatti FO., così come la mancanza di specifica formazione e regolamentazione della medesima procedura, spettante, secondo le rispettive posizioni contrattuali, all’azienda appaltante e all’azienda appaltatrice, l’assenza di idonei corsi in materia, il difetto di cooperazione così come ragionevolmente e normativamente necessaria (essendosi in presenza di procedure che coinvolgevano la sicurezza di dipendenti di diverse ditte che operavano nell’ambito di un unico rapporto contrattuale), erano tutte circostanze che avevano “valore condizionante e causativo dell’evento dannoso nei riguardi della persona offesa”.
E la Corte territoriale, nel confermare il giudizio di penale responsabilità effettuato in primo grado, ha a sua volta ravvisato i contestati profili di colpa (con esclusione di quello di cui all’art. 4 del d. lgvo n. 626/1994), consistiti fondamentalmente nella mancata individuazione delle corrette e stringenti procedure da adottare per il trasporto dei carichi, nel mancato coordinamento della esecuzione delle operazioni in questione e nell’omessa informazione agli operai delegati alla esecuzione dette manovre di trasporto e di sollevamento dei manufatti, indicandoli “come causalmente connessi al verificarsi dell’evento”.
Conclusivamente sul punto, si osserva che le argomentazioni poste a base delle censure in esame non valgono a scalfire la congruenza logica del complesso motivazionale posto a fondamento del provvedimento impugnato, al quale la parte ricorrente ha in realtà inteso piuttosto sostituire una sua visione alternativa del fatto, facendo riferimento al vizio motivazionale: pur asserendo di volere contestare l’omessa o errata ricostruzione di risultanze della prova dimostrativa, la ricorrente ha piuttosto richiesto a questa Corte un inammissibile intervento in sovrapposizione argomentativa, rispetto alla decisione impugnata, e ciò ai fini di una lettura della prova alternativa rispetto a quella, congrua e logica, fornita dal giudice di merito.
D’altronde, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di precisare (Sez. 1, sent. n. 37588 del 18/06/2014, Amaniera ed altri, Rv. 260841) che l’obbligo di motivazione del giudice dell’impugnazione non richiede necessariamente che egli fornisca specifica ed espressa risposta a ciascuna delle singole argomentazioni, osservazioni o rilievi contenuti nell’atto d’impugnazione, se il suo discorso giustificativo indica le ragioni poste a fondamento della decisione e dimostra di aver tenuto presenti i fatti decisivi ai fini del giudizio, sicché, quando ricorre tale condizione, come per l’appunto si verifica nel caso di specie, le argomentazioni addotte a sostegno dell’appello ed incompatibili con le motivazioni contenute nella sentenza devono ritenersi, anche implicitamente, esaminate e disattese dal giudice, con conseguente esclusione della configurabilità del vizio di mancanza di motivazione di cui all’art. 606, comma primo, lett. e), cod.proc.pen.
4. Infine, non fondati sono il terzo motivo di ricorso di S.S. ed il quarto motivo di ricorso di B.I., entrambi relativi al trattamento sanzionatorio.
Come noto, in tema di valutazione dei vari elementi per la concessione delle attenuanti generiche, ovvero in ordine al giudizio di comparazione e per quanto riguarda la dosimetria della pena ed i limiti del sindacato di legittimità su detti punti, la giurisprudenza di questa Suprema Corte non solo ammette la c.d. motivazione implicita (Sez. 6, 4/7/2003 n. 36382, Dell’Anna ed altri, n. 227142) o con formule sintetiche (tipo “si ritiene congrua”: Sez. 6, sent. N. 9120 del 2/7/1998, Urrata, Rv. 211583), ma afferma anche che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico (Sez. 3, sent. n. 26908 del 22/4/2004, Ronzoni, Rv. 229298).
Detta evenienza che non ricorre nel caso di specie, nel quale il Giudice di primo grado: a) tenuto conto del comportamento processuale degli imputati e al fine di adeguare la pena al fatto, ha ritenuto di concedere le attenuanti generiche in misura equivalente alle contestate aggravanti; b) alla luce dei criteri direttivi di cui all’art. 133 cod. pen. ha stimato congrua la pena di anni uno e mesi sei di reclusione per ciascuno degli imputati; c) alla luce dell’incensuratezza degli imputati e potendosi formulare il positivo giudizio prognostico normativamente richiesto, ha concesso ad entrambi gli imputati il beneficio della sospensione condizionale della pena.
E la Corte territoriale: a) ha riconosciuto al S.S. l’attenuante di cui all’art. 62 n. 6, essendo stato risarcito il danno dalla società per la quale lavorava l’imputato ed avendo quest’ultimo fatto proprio l’intervenuto risarcimento; b) ha conseguentemente stabilito che il giudizio di valenza, per l’imputato S.S., andava fatto in termini di prevalenza; c) ha ritenuto che anche per la B. le già riconosciute attenuanti generiche fossero da ritenere prevalenti sull’aggravante, in considerazione del minor rilievo del profilo di colpa ravvisato a suo carico e del suo recente subentro nella società del padre; d) ha concesso il beneficio della non menzione a S.S., tenuto conto della natura colposa del reato e dell’assenza di condizioni ostative, ma lo ha negato a B.I., già gravata da precedenti a carico.
5. Per tutte le ragioni che precedono i ricorsi devono essere respinti ed i ricorrenti devono essere condannati al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 09/02/2016