Operaio viene colpito all’occhio da un bullone: totale omissione di controllo sull’uso di lampade mobili e occhiali protettivi da parte dei lavoratori.
Presidente: ROSELLI FEDERICO
Relatore: MANNA ANTONIO
Data pubblicazione: 16/03/2016
Fatto
Con sentenza del 9.11.06 il Tribunale di Napoli condannava Poste Italiane S.p.A. a pagare a G.P., a titolo risarcitorio dei danni derivatigli da un infortunio sul lavoro occorso il 9.1.98, la somma di euro 105.000,00 per danno esistenziale e biologico e quella di euro 23.000,00 per danno morale, il tutto oltre interessi.
Con sentenza depositata il 10.1.12 la Corte d’appello di Napoli riduceva a complessivi euro 105.000,00 il risarcimento dovuto al lavoratore, confermando nel resto le statuizioni di prime cure.
Accertavano i giudici di merito che il G.P., nell’eseguire le operazioni di revisione del gruppo leveraggio cambio di un automezzo aziendale, era stato colpito da un bullone che si accingeva ad estrarre, riportando una cecità assoluta all’occhio sinistro e uno stress cronico moderato post-traumatico, con conseguente inabilità permanente del 37%.
Per la cassazione della sentenza della Corte territoriale ricorre Poste Italiane S.p.A. affidandosi a due motivi.
G.P. resiste con controricorso.
Diritto
1-Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. per avere la sentenza impugnata ravvisato la responsabilità della società pur essendosi accertato che l’infortunio si era verificato sol perché il lavoratore – operaio tecnico – non aveva inforcato gli occhiali protettivi regolarmente fornitigli dall’azienda: obietta in proposito la ricorrente di aver adottato tutte le dovute cautele e cioè di aver formato professionalmente il lavoratore e di averlo informato circa i rischi del lavoro svolto, munendolo di occhiali protettivi e di lampade mobili, così rispettando sotto ogni aspetto il debito di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c.; né – conclude il motivo – era necessaria una particolare vigilanza del lavoratore durante l’operazione svolta (lo svitamento d’un bullone), di estrema semplicità.
Analoga doglianza viene sostanzialmente fatta valere con il secondo mezzo, sotto forma di denuncia di vizio di motivazione circa l’asserito superamento della soglia di sicurezza, nonché circa l’obbligo di concreta vigilanza dell’operazione espletata dal dipendente infortunato e dell’uso, da parte sua, degli occhiali protettivi.
2-1 due motivi – da esaminarsi congiuntamente perché connessi – sono infondati.
I giudici di merito hanno ravvisato a carico della società una violazione dell’art. 2087 c.c. perché l’ambiente di lavoro era scarsamente illuminato e perché l’azienda non aveva vigilato affinché i dipendenti utilizzassero gli occhiali protettivi e i sistemi di illuminazione mobili messi a loro disposizione.
La società ricorrente contesta l’asserita necessità di vigilanza, in considerazione del livello di esperienza dell’infortunato e della semplicità dell’operazione che stava eseguendo.
Osserva questa Corte che è pur vero che in tema di responsabilità del datore di lavoro circa il mancato uso di mezzi personali di sicurezza la violazione dell’art. 4 lett.c) d.P.R. n. 547/55 (vigente all’epoca dell’infortunio per cui è causa) – che obbliga datori di lavoro, dirigenti e preposti a “disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione” – postula un accertamento che abbia riguardo alle peculiari caratteristiche dell’impresa, ai tipi di lavorazione ivi effettuati, all’entità del personale e ai diversi gradi di rischio (cff., per tutte, Cass. n. 10066/94).
La sorveglianza dovuta da datori di lavoro, dirigenti e preposti non deve essere ininterrotta e con costante presenza fisica del controllore accanto al lavoratore, ma può anche sostanziarsi in una discreta, seppure continua ed efficace, vigilanza generica, intesa ad assicurarsi, nei limiti dell’umana efficienza, che i lavoratori seguano le disposizioni di sicurezza impartite e utilizzino gli strumenti di protezione prescritti.
Tale obbligo di vigilanza subisce un’ulteriore attenuazione, in base ad un principio di ragionevole affidamento nelle accertate qualità del dipendente, in ipotesi di provetta specializzazione dell’operaio munito di approfondita conoscenza d’una determinata lavorazione cui sia addetto da lungo tempo (v., ancora, Cass. n. 10066/94 cit.).
Nondimeno tale mera attenuazione – che, giova ribadire, è configurabile solo in ipotesi di lavoratore esperto, già adeguatamente formato professionalmente e informato dei rischi connessi alle mansioni assegnategli – non si identifica con la totale omissione di controllo, ravvisata nel caso di specie dai giudici di merito, circa l’uso di lampade mobili e occhiali protettivi, controllo ancor più necessario viste le condizioni di insufficiente illuminazione dell’ambiente di lavoro.
Né esime da tale obbligo la semplicità dell’operazione lavorativa, atteso che il grado maggiore o minore di complessità del lavoro da espletare non è in rapporto di proporzionalità diretta con il rischio protetto, ben potendosi dare lavorazioni complesse, ma non pericolose e, per converso, altre anche semplici, ma con elevato livello di pericolosità.
Infine, quanto al superamento della soglia di rischio, si consideri che il fatto (l’avvenuto infortunio) vince l’ipotesi ventilata dalla ricorrente (l’inesistenza del superamento d’una soglia di rischio), di guisa che la sentenza impugnata non doveva motivare ulteriormente a riguardo.
Ove, poi, il senso della doglianza fosse quello per cui, vista la natura dell’operazione affidata al lavoratore, sarebbe stato da escludere a monte, in virtù di una cd. prognosi postuma, qualsivoglia obbligo di uso di mezzi personali di protezione e – quindi – di vigilanza datoriale sul loro concreto impiego, è appena il caso di notare che si tratterebbe di congettura nuova e contraddittoria rispetto a tutta l’impostazione del ricorso, che insiste sull’avvenuta messa a disposizione degli occhiali protettivi, così riconoscendo la pericolosità della manovra eseguita dall’infortunato.
3- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza e si distraggono ex art. 93 c.p.c. in favore del difensore, dichiaratosi antistatario.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, da distrarsi in favore dell’avv. Omissis, dichiaratosi antistatario.
Così deciso in Roma, in data 18.12.15