Repertorio Salute

Cassazione Penale, Sez. 4, 14 marzo 2016, n. 10738

Bombole contenenti monossido di carbonio nel diving.


Presidente: IZZO FAUSTO
Relatore: DELL’UTRI MARCO
Data Udienza: 26/02/2016

Fatto

1. Con atto in data 14/9/2015, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Grosseto ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza in data 24/7/2015 con la quale il giudice per l’udienza preliminare presso il Tribunale della stessa città ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di D.L., in relazione a un’imputazione di omicidio colposo commesso, ai danni di F.G., G.T. ed E.C., nonché di lesioni personali colpose ai danni di M.B. e M.C., per non aver commesso il fatto. Imputazione relativa a circostanze di fatto indicate come commesse in Grosseto (località Isole delle Formiche) e Monte Argentario (località Argentarola), in data 10/8/2014.
In particolare, alla D.L. – in qualità di amministratrice unica della società Underwater Activity s.r.l., esercente attività di diving – era stata contestata la violazione di una serie di parametri normativi d’indole cautelare concernenti la concreta predisposizione dei mezzi, e il successivo controllo, per la corretta esecuzione, da parte dei soggetti deputati dalla società, delle modalità di ricarica delle bombole d’aria che la società amministrata dall’imputata poneva a disposizione dei terzi interessati allo svolgimento di attività subacquea.
Per effetto di tali condotte attive e omissive – realizzate dall’imputata in violazione delle norme cautelari analiticamente indicate nel capo d’imputazione – alle vittime sopra indicate erano state nell’occasione consegnate bombole contenenti monossido di carbonio che, inalato dalle stesse vittime, era risultato per queste ultime mortale o comunque lesivo.
Con la sentenza impugnata, il giudice a quo ha escluso l’addebitabilità del fatto alla responsabilità della D.L., atteso che la stessa non aveva di fatto assunto alcuna attività all’interno della società di cui risultava amministratrice unica, essendosi limitata unicamente a rivestire una posizione formale (quale mera ‘testa di legno’), al solo scopo di favorire il proprio convivente, tale A.M. (interessato a non comparire formalmente nella gestione dell’impresa collettiva), il quale, viceversa, doveva considerarsi il vero factotum della società in esame, con la correlativa materiale insussistenza dello svolgimento, ad opera della D.L., di alcuna, sia pur minima, attività gestionale dell’impresa, e la conseguente mancata assunzione, da parte della stessa, di alcuna responsabilità per l’eventuale violazione di norme cautelari riferibili all’esercizio di detta attività.
2. Con l’impugnazione avanzata in questa sede, il procuratore ricorrente censura la sentenza impugnata, per avere il giudice a quo, erroneamente escluso l’avvenuta assunzione, da parte della D.L. (in qualità di amministratrice unica della società fornitrice delle bombole) della qualifica di datore di lavoro o di armatore, con la conseguente erroneità della pretesa insussistenza di specifici obblighi cautelari sulla stessa incombenti in ordine alla tutela della sicurezza dei luoghi di lavoro.
Sotto altro profilo, il ricorrente si duole della sicura erroneità dell’interpretazione fornita dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Grosseto circa la ritenuta delegabilità a terzi degli obblighi incombenti al datore di lavoro in materia di sicurezza.
3. Sulla base di tali premesse, il procuratore ricorrente ha concluso per l’annullamento della sentenza impugnata, con l’adozione delle corrispondenti statuizione consequenziali.
4. Con memoria pervenuta in data 19/1/2016, il difensore delle parti civili costituite ha concluso, in associazione alle richieste del pubblico ministero ricorrente, per l’annullamento della sentenza impugnata.
5. Con memoria depositata in data 17/2/2016, il difensore dell’imputata, nel sottolineare analiticamente l’infondatezza di tutte le doglianze avanzate dal pro-curatore ricorrente, ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità, ovvero per il rigetto del ricorso.

Diritto

6. Il ricorso è fondato.
Secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, anche all’esito delle modificazioni introdotte dalla legge n. 479/99, la sentenza di non luogo a procedere emessa ad esito dell’udienza preliminare deve ritenersi tale da aver conservato la propria originaria natura di provvedimento d’indole processuale (e non di merito).
Se è vero, infatti, che le modificazioni apportate dalla legge citata hanno conferito all’udienza preliminare aspetti più significativi con riguardo al merito dell’azione penale (in particolare per l’ampliamento dei poteri officiosi relativi all’acquisizione della prova: nel testo previgente della rubrica dell’art. 422 c.p.p. compare il riferimento a ‘sommarie informazioni’, là dove attualmente si parla di ‘integrazione probatoria’), è altrettanto vero che identica è rimasta la finalità cui l’udienza preliminare è preordinata, consistente nell’evitare la celebrazione di di-battimenti inutili senza spingersi all’accertamento dell’eventuale colpevolezza o innocenza dell’imputato.
In tal senso, mentre, da un lato, deve ritenersi sicuramente non irrilevante la circostanza che, all’udienza preliminare, emergano elementi di prova che, in dibattimento, potrebbero ragionevolmente condurre all’assoluzione dell’imputato, dall’altro occorre tener presente che il proscioglimento può essere pronunciato, dal giudice dell’udienza preliminare, solo se e in quanto l’innocenza sia ritenuta con certezza non superabile in dibattimento attraverso l’acquisizione di nuove prove o a seguito di una diversa e sempre possibile rivalutazione degli elementi di prova già acquisiti, anche alla luce di una sempre possibile differente interpretazione dei dati normativi ritenuti applicabili.
In sintesi, al fine di pervenire a una sentenza di non luogo a procedere, il quadro probatorio e valutativo complessivamente delineatosi ad esito dall’udienza preliminare dev’essere tale apparire, secondo un criterio di ragionevolezza, di per sé immutabile.
Si può dunque affermare che il giudice dell’udienza preliminare ha il potere di pronunziare la sentenza di non luogo a procedere in quei soli casi nei quali non esista una prevedibile possibilità che il dibattimento possa pervenire a una diversa soluzione; ossia, in tutti i casi in cui il dibattimento deve indubitabilmente ritenersi superfluo.
Non contrasta, con questa interpretazione, il tenore dell’art. 425, co. 3, c.p.p., che prevede la pronunzia della sentenza di non luogo a procedere “anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contradditori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. Tale norma, infatti – che riecheggia la regola di giudizio prevista dall’art. 530 c.p.p. -, conferma i rilievi indicati, poiché il parametro di giudizio rimane, non già quello relativo alla verifica dell’innocenza dell’imputato, bensì quello concernente il riscontro dell’impossibilità di sostenere l’accusa in giudizio. L’insufficienza e la contraddittorietà degli elementi devono quindi avere caratteristiche tali da non poter essere ragionevolmente considerate superabili o suscettibili di chiarimenti o sviluppi nel corso del giudizio, in forza di un giudizio prognostico destinato a valere, tanto per l’ipotesi dell’insufficienza, quanto per quella della contraddittorietà degli elementi di prova acquisiti, legittimando, entrambe dette caratteristiche, la pronunzia di una sentenza di non luogo a procedere nel caso in cui le stesse non appaiano più superabili.
In conclusione, a meno che ci si trovi in presenza di elementi palesemente insufficienti per sostenere l’accusa in giudizio, per l’esistenza di prove positive di innocenza o per la manifesta inconsistenza di quelle di colpevolezza, la sentenza di non luogo a procedere non è consentita là dove l’insufficienza o la contraddittorietà degli elementi acquisiti appaiano superabili in dibattimento.
Si può affermare, in aderenza anche a quanto affermato in dottrina, che “sfuggono all’epilogo risolutivo i casi nei quali, pur rilevando incertezze, la parziale consistenza del panorama d’accusa è suscettibile di essere migliorata al dibattimento” (cfr. Cass., Sez. 2, n. 3180/2012, Rv. 254465).
Quello indicato è del resto l’orientamento della giurisprudenza di questa Corte che, dopo la riforma del 1999, ha ribadito i principi indicati (si vedano in questo senso Cass., Sez. 6, n. 42275/2001, Rv. 221303; Cass., Sez. 6, n. 1662/2000, Rv. 220751; Cass., Sez. 4, n. 26410/2007, Rv. 236800; Cass. Sez. 4, n. 13163/2008, Rv. 239597) in precedenza fatti propri anche dalla Corte Costituzionale (v. Corte Cost., seni. n. 71/1996 che così si esprime su questo punto: “l’apprezzamento del merito che il giudice è chiamato a compiere all’esito della udienza preliminare non si sviluppa, infatti, secondo un canone, sia pur prognostico, di colpevolezza o di innocenza, ma si incentra sulla ben diversa prospettiva di delibare se, nel caso di specie, risulti o meno necessario dare ingresso alla successiva fase del dibattimento: la sentenza di non luogo a procedere, dunque, era e resta, anche dopo le modifiche subite dall’art. 425 c.p.p., una sentenza di tipo “processuale”, destinata null’altro che a paralizzare la domanda di giudizio formulata dal Pubblico Ministero”).
L’esame della sentenza impugnata dimostra che il giudice di merito non si è attenuto ai principi indicati.
Il provvedimento impugnato risulta, infatti, nella sua sostanziale impostazione, incentrato sulla verifica dell’insussistenza dei reati contestati all’imputata, e di fatto governato da una logica di giudizio sovrapponibile a quella propria dell’esame dibattimentale, piuttosto che a quella coerente alle specifiche finalità dell’udienza preliminare, avendo la sentenza impugnata apoditticamente attestato l’impossibilità di attribuire alla D.L. alcuna forma di responsabilità, essendosi la stessa limitata a rivestire una mera posizione formale di amministratrice, senza assumere di fatto alcuna iniziativa gestionale corrispondente, sì da escludere che alla stessa fosse addebitabile la violazione di alcun parametro normativo di indole cautelare.
Ciò posto, osserva il collegio come le valutazioni così assertivamente compendiate dal giudice a quo appaiano tali da lasciare ancora interamente scoperta l’area delle possibili differenti valutazioni del materiale probatorio complessivamente acquisito e del quadro normativo nella specie applicabile; e ciò, non solo nella prospettiva della rilevabile diversità delle possibili letture degli elementi di prova acquisiti e delle norme applicate (possibilità alternative espressamente argomentate dal procuratore della Repubblica di Grosseto attraverso l’articolazione del discorso critico dipanato in ricorso), bensì anche sotto il profilo della ragionevole prevedibilità di un differente approccio al tema delle responsabilità riconducibili ai soggetti che, sia pure formalmente, assumono effettivamente incarichi di responsabilità all’Interno di strutture imprenditoriali; sì da condurre a una differente interpretazione dei profili di colpevolezza dell’imputata rilevabili nelle condotte dalla stessa concretamente assunte.
7. La mancata analitica specificazione, da parte del giudice a quo, delle ragioni dell’assoluta e certa superfluità della celebrazione del dibattimento, a causa della sicura inesistenza di possibili sviluppi probatori e/o argomentativi degli elementi acquisiti o di possibili interpretazioni alternative di questi e delle norme applicabili, impone la pronuncia dell’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio al Tribunale di Grosseto per l’ulteriore corso.

P.Q.M.

Annulla la impugnata sentenza con rinvio al Tribunale di Grosseto per l’ulteriore corso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 26/2/2016.

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