Cassazione Penale, Sez. 7, ud.19 febbraio 2016, n. 11487

Responsabilità di un datore di lavoro di un laboratorio analisi per non aver previsto nel documento di valutazione dei rischio l’uso di agenti biologici e di conseguenza per non aver applicato le disposizioni di cui agli articoli del titolo X d.lgs. 81/08, non predisponendo idoneo locale e doccia per riporre gli indumenti di lavoro protettivi separatamente dagli abiti civili.
La Cassazione afferma che “nel caso di specie, il tribunale, con logica ed adeguata motivazione rispetto alla quale il ricorrente non si è minimamente confrontato, ha chiarito che nel laboratorio di analisi, diretto dal ricorrente, venivano effettuate analisi in microbiologia e che, in tali casi, il rischio che le norme antinfortunistiche richiedono che sia contemplato nell’apposito documento di valutazione è quello dell’uso deliberato di agenti biologici, dal quale discende che il datore di lavoro dovrà adottare determinate misure di prevenzione tese a preservare l’igiene sul luogo di lavoro e quindi a contenere il rischio di diffusione di tali agenti e dunque di compromissione della salute dei lavoratori.
Partendo poi dalla definizione dell’ambito di applicazione della normativa antinfortunistica (articolo 2, lettera b), decreto legislativo 81 del 2008), il tribunale ha precisato che per, “datore di lavoro”, deve intendersi non solo “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore” ma anche “il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”, pervenendo alla conclusione che, sia al momento del controllo ispettivo non vi fossero lavoratori, ciò non costituisce ostacolo del considerare il ricorrente “datore di lavoro” dal momento che tale qualità, peraltro mai contestata nella fase amministrativa, sussiste anche solo in ragione della titolarità del laboratorio di analisi e dunque dei poteri decisionali e di spesa che il ricorrente ha mostrato di avere esercitato anche nella fase del procedimento amministrativo in cui ha provveduto ad adeguarsi alle prescrizioni imposte dall’organo accertatore.
Il ricorrente ha, per altro, del tutto omesso di prendere posizione rispetto alla ratio decidendi, essendosi limitato ad affermare di non aver alle sue dipendenze lavoratori subordinati, circostanza che, per quanto in precedenza chiarito, non privava il ricorrente della qualifica giuridica soggettiva richiesta per l’adozione delle misure antinfortunistiche e degli obblighi a suo carico incombenti, confezionando pertanto un motivo di ricorso aspecifico.


Presidente: AMORESANO SILVIO
Relatore: DI NICOLA VITO
Data Udienza: 19/02/2016

Fatto

1. S.L. ricorre per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe con la quale il tribunale di Cassino lo ha condannato, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, alla pena di euro 3000 di ammenda per il reato previsto dall’articolo 271, comma 1,decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 perché, nella qualità di titolare del laboratorio analisi cliniche dott. S.L., esercente l’attività di analisi chimico-cliniche e microbiologiche, per errata valutazione dei rischi di cui all’articolo 17, comma 1, stesso decreto, risultando che venivano eseguiti all’interno del laboratorio esami di microbiologia, non considerava tali attività rientranti nella fattispecie di quelle che usano agenti biologici (uso deliberato) e di conseguenza non applicava le disposizioni di cui agli articoli del titolo X, stesso decreto, non predisponendo idoneo locale e doccia per riporre gli indumenti di lavoro protettivi separatamente dagli abiti civili. In Fontana Liri in data 8 giugno 2012.
2. Per la cassazione dell’impugnata sentenza il ricorrente, tramite il difensore, articola i due seguenti motivi di impugnazione, qui enunciati, ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce l’illogicità della motivazione dell’ordinanza pronunciata dal tribunale all’udienza del 22 dicembre 2014 con riferimento all’eccezione di nullità del decreto di citazione a giudizio per mancata indicazione nella formulazione dell’imputazione della norma sanzionatoria applicabile al caso di specie.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la contraddittorietà e l’illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza della qualità di datore di lavoro in capo all’imputato, ai sensi del decreto legislativo n. 81 del 2008, sul rilievo che sarebbe state erroneamente affermata la qualità di datore di lavoro del ricorrente nonostante mancasse la prova che egli avesse alle sue dipendenze lavoratori subordinati non potendo la definizione dalla quale il tribunale ha fatto discendere la qualità di lavoro prescindere dalla sussistenza di un rapporto di lavoro.

Diritto

1. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.
2. Quanto al primo motivo, va ricordato che, secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, ai fini della contestazione dell’accusa, ciò che rileva è la compiuta descrizione del fatto, non l’indicazione degli articoli di legge che si assumono violati (Sez. U, n. 18 del 21/06/2000, Franzo, Rv. 216430), con la conseguenza che, essendo stato il fatto oggetto dell’Imputazione contestato in maniera chiara e specifica, la doglianza è totalmente priva di fondamento.
3. Quanto al secondo motivo, va considerato che ciò che rileva ai fini dell’affermazione della responsabilità del ricorrente è che, in materia di normativa antinfortunistica, l’obbligo del datore di lavoro di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro si estende anche ai soggetti che nell’impresa hanno prestato la loro opera, quale che sia stata la forma utilizzata per lo svolgimento della prestazione.
È di decisivo rilievo, in proposito, il disposto dell’art. 2087 cod. civ., in forza del quale, il datore di lavoro, anche al di là delle disposizioni specifiche, è comunque costituito garante dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale di quanti prestano la loro opera nell’impresa, con l’ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all’obbligo di tutela, nel casi di verificazione di un evento lesivo, questo gli verrà correttamente imputato in forza del meccanismo previsto dall’art. 40, cpv. cod. pen.
E tale obbligo, come ha più volte affermato la Corte, è di così ampia portata che non può distinguersi, al riguardo, che si tratti di un lavoratore subordinato, di un soggetto a questi equiparato (cfr. D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 3, comma 2) o, anche, di persona estranea all’ambito imprenditoriale, purché sia ravvisabile, in caso di infortunio (che le norme antinfortunistiche si apprestano perciò a prevenire), il nesso causale tra l’infortunio stesso e la violazione della disciplina sugli obblighi di sicurezza.
Infatti, le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori, ossia per eliminare il rischio che i lavoratori possano subire danni nell’esercizio della loro attività, ma sono dettate finanche a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono presso un “luogo di lavoro” che debba essere munito, anche in relazione alla specifica attività praticata in detto luogo, dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge, in mancanza dei quali possono verificarsi eventi dannosi.
Pertanto, va ribadito il principio secondo il quale, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il datore di lavoro ha l’obbligo di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro per tutti i soggetti che prestano la loro opera nell’impresa, senza distinguere tra lavoratori subordinati e persone estranee all’ambito imprenditoriale (Sez. 4, n. 37840 del 01/07/2009, Vecchi, Rv. 245274).
4. Nel caso di specie, il tribunale, con logica ed adeguata motivazione rispetto alla quale il ricorrente non si è minimamente confrontato, ha chiarito che nel laboratorio di analisi, diretto dal ricorrente, venivano effettuate analisi in microbiologia e che, in tali casi, il rischio che le norme antinfortunistiche richiedono che sia contemplato nell’apposito documento di valutazione è quello dell’uso deliberato di agenti biologici, dal quale discende che il datore di lavoro dovrà adottare determinate misure di prevenzione tese a preservare l’igiene sul luogo di lavoro e quindi a contenere il rischio di diffusione di tali agenti e dunque di compromissione della salute dei lavoratori.
Partendo poi dalla definizione dell’ambito di applicazione della normativa antinfortunistica (articolo 2, lettera b), decreto legislativo 81 del 2008), il tribunale ha precisato che per, “datore di lavoro”, deve intendersi non solo “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore” ma anche “il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”, pervenendo alla conclusione che, sia al momento del controllo ispettivo non vi fossero lavoratori, ciò non costituisce ostacolo del considerare il ricorrente “datore di lavoro” dal momento che tale qualità, peraltro mai contestata nella fase amministrativa, sussiste anche solo in ragione della titolarità del laboratorio di analisi e dunque dei poteri decisionali e di spesa che il ricorrente ha mostrato di avere esercitato anche nella fase del procedimento amministrativo in cui ha provveduto ad adeguarsi alle prescrizioni imposte dall’organo accertatore.
Il ricorrente ha, per altro, del tutto omesso di prendere posizione rispetto alla ratio decidendi, essendosi limitato ad affermare di non aver alle sue dipendenze lavoratori subordinati, circostanza che, per quanto in precedenza chiarito, non privava il ricorrente della qualifica giuridica soggettiva richiesta per l’adozione delle misure antinfortunistiche e degli obblighi a suo carico incombenti, confezionando pertanto un motivo di ricorso aspecifico.
5. La Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 19/02/2016

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