Liceo Darwin. Ricorsi rigettati.
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: CIAMPI FRANCESCO MARIA
Data Udienza: 03/02/2015
SENTENZA
Sui ricorsi proposti da:
1. DM.M. :
2. M.S. ;
3. M.E. ;
4. T.F. ;
5. S.D. ;
6. P.P.
Avverso la sentenza n. 2604/2012 della CORTE D’APPELLO DI TORINO in data 28 ottobre 2013
Visti gli atti, la sentenza ed i ricorsi, udita alla pubblica udienza del 3 febbraio 2015 la relazione fatta dal Consigliere dott. FRANCESCO MARIA CIAMPI; udito il Procuratore Generale in persona del dott. Giulio Romano che ha chiesto il rigetto del ricorso di DM.M.; l’annullamento con rinvio limitatamente al diniego delle attenuanti generiche e rigetto nel resto di tutti gli altri ricorsi.
Sono presenti gli avvocati del foro di Torino per la parte civile Omissis che si riporta alle conclusioni ed alla nota spese che deposita in udienza; l’avvocato del foro di Torino per la parte civile Comune di Rivoli che si riporta alle conclusioni e nota spese che deposita; l’avvocato per la parte civile Omissis che si riporta alle conclusioni e nota spese che deposita in udienza; l’avvocato del foro di Asti per la parte civile Omissis che si riporta alle conclusioni e nota spese che deposita; l’avvocato di Rivoli per la parte civile Omissis che si riporta alle conclusioni e nota spese depositate in udienza; l’avvocato del foro di Torino per la parte civile CITTADINANZATTIVA- ONLUS che si riporta alle conclusioni e nota spese che deposita in udienza.
Sono altresì presenti per il Responsabile Civile Provincia di Torino, l’avvocato che chiede l’accoglimento dei ricorsi; per Omissis l’avvocato che insiste per l’accoglimento dei motivi di ricorso; per M.E. l’avvocato del foro di Roma che chiede l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata; per M.S. l’avvocato del foro di Torino che conclude per l’accoglimento dei motivi di ricorso; per P.P. l’avvocato del foro di Torino, anche per S.D., che chiede l’annullamento con rinvio della impugnata sentenza; per T.F. l’avvocato del foro di Torino che chiede l’accoglimento dei motivi di ricorso; per S.D. l’avvocato che chiede l’accoglimento del ricorso; per DM.M. l’avvocato che chiede l’accoglimento del ricorso.
Fatto
1. In data 22 novembre 2008 alle ore 11,05 nell’aula della 4 G del liceo “Darwin” di Rivoli si verificava il cedimento pressoché totale della controsoffittatura in laterizio realizzata tra il 1962 ed il 1964 e consistita da tavelloni alti sei centimetri e lunghi un metro e da corree in cemento armato aventi interasse di circa un metro, costituite da un tondo metallico inglobato in un getto di calcestruzzo di circa un centimetro di spessore ed inferiormente da intonaco di finitura, controsoffittatura appesa al sovrastante solaio mediante elementi di sospensione (pendini). Il cedimento si era verificato durante l’intervallo delle lezioni in concomitanza con lo sbattimento della porta di ingresso dell’aula dovuto ad una forte corrente d’aria.
A seguito del crollo lo studente V.S. decedeva ed altri studenti riportavano lesioni.
In relazione a detto evento venivano tratti a giudizio DM.M., M.S., M.E., M.M., T.F., S.D., P.P. nelle loro rispettive qualità, analiticamente descritte nel capo di imputazione: in particolare per quanto rileva in questa sede, DM.M., M.S. e M.E. quali dirigenti della Provincia di Torino succedutisi negli anni , T.F., S.D. e P.P. quali responsabili prò tempore del servizio di prevenzione e protezione della scuola.
2. Con sentenza in data 15 luglio 2011 il Tribunale di Torino assolveva tutti gli imputati ad eccezione di DM.M., che condannava alla pena ritenuta di giustizia ed al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite. Riassunti i principali dati del fatto e verificata la sussistenza nel caso concreto di elementi oggettivi tali da astrattamente integrare le tre fattispecie penali colpose in contestazione (ovvero disastro, omicidio e lesioni personali) il Tribunale esaminava i principi in tema di reato colposo omissivo: posizione di garanzia, nesso di causalità, regola cautelare, affidamento, prevedibilità e prevenibilità ed individuava sulla base delle risultanze peritali la causa esclusiva del crollo nella presenza di microscopiche fissurazioni denominate cricche nei pendini. Riteneva la penale responsabilità del DM.M. sul presupposto che la demolizione dei tramezzi e la realizzazione del locale poi divenuto aula della 4G era stata opera dell’imputato quale progettista e direttore dei lavori dell’appalto che prevedeva, ai fini del cambio di destinazione d’uso dell’edificio da seminario a scuola e del passaggio di proprietà del manufatto alla Provincia- la demolizione di alcune stanzette e la creazione di aule ad uso scolastico al piano interessato al crollo, in assenza di alcun nuovo rinforzo. Veniva tra l’altro addebitata al DM.M. la mancata ispezione del vano sovrastante il controsoffitto accessibile da una botola posta su quest’ultimo. Perveniva invece il Tribunale all’assoluzione degli altri imputati, in quanto- secondo il giudice di primo grado- non si era in presenza di segni di dissesto agevolmente riconoscibili ed in quanto gli stessi avevano fatto legittimo affidamento sull’operato del DM.M..
3. Avverso la decisione di primo grado proponevano gravame l’imputato DM.M., il PM e la parte civile C.C..
4. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Torino confermava l’affermazione di penale responsabilità del DM.M. e dichiarava – con le conseguenti statuizioni civili- responsabili dei reati loro ascritti e ritenuto il concorso formale fra gli stessi, anche di M.S., M.E. , T.F., S.D. e P.P.. Dopo aver evidenziato alcune criticità e contraddittorietà della sentenza impugnata quanto alla individuazione delle effettive cause del crollo, dapprima individuate nella sola presenza delle cricche nei pendini e poi anche nella non omogenea disposizione dei pendini stessi e ritenuto che il meccanismo causale dell’evento crollo andasse ricostruito in termini di concausalità, la Corte territoriale si soffermava in particolare sulla circostanza che il controsoffitto crollato non era in realtà un semplice controsoffitto in quanto la sua funzione era anche quella di costituire il solaio di un vano tecnico in cui erano presenti frammenti di tubazione in ghisa, blocchi di calcestruzzo e mattoni – vano da ritenersi a tutti gli effetti quale luogo di lavoro- struttura che come tale doveva sostenere, quindi, oltre al peso proprio di per sé molto rilevante anche il sovraccarico dei servizi presenti nonché l’eventuale peso del personale della manutenzione per la sostituzione dei tubi di scarico del piano superiore. Si trattava quindi di un solaio sospeso e non di un semplice controsoffitto.
Affrontava poi espressamente il tema della centralità dell’idea dei rischi e dell’obbligo preliminare della loro valutazione: gli imputati nei rispettivi ruoli avrebbero dovuto e potuto porsi nelle condizioni di assolvere appieno all’obbligo primordiale di adeguata valutazione dei rischi, individuando i relativi fattori e mettendo in sicurezza l’immobile e ciò indipendentemente dall’essere stati o meno pre-allertati da percepibili campanelli d’allarme.
Per far fronte ai propri obblighi l’ente proprietario – secondo la Corte territoriale- non poteva soltanto attendere la segnalazione della scuola, ma doveva autonomamente assumere l’iniziativa attraverso azioni di controllo, di manutenzione preventiva e di riparazione, atti a garantire la sicurezza dei locali e degli edifici. Se gli imputati avessero correttamente adempiuto all’obbligo prioritario di valutare tutti i rischi, onde poter garantire la sicurezza dei locali, avrebbero necessariamente dovuto effettuare, nel senso di prescrivere specificamente che si effettuasse rilievi puntuali dei locali accessibili; per far ciò nello specifico avrebbero dovuto prescrivere in particolare anche l’apertura della botola di ispezione, così prendendo necessariamente contezza dei rischi sovrastanti.
Con riferimento poi in particolare alle posizioni degli imputati RSPP, richiamate le caratteristiche di detta figura e le caratteristiche professionali degli imputati il Collegio torinese, riteneva che gli stessi, titolari di una specifica posizione di garanzia fossero venuti meno agli obblighi di doverosa attivazione che in primis deve consistere nell’individuare ed informare riguardo ai rischi ed ai fattori di rischio e nell’elaborare adeguate procedure di sicurezza.
5. Avverso tale decisione propongono ricorso a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia :
a. M.S. (dirigente della Provincia di Torino presso il Servizio di Edilizia Scolastica in diversi periodi fra il 1998 ed il 2008) deducendo con un primo motivo violazione di legge e contraddittorietà della motivazione in relazione alle antitetiche valutazioni del materiale probatorio effettuate dai giudici di merito (assoluzione dell’imputato in primo grado e condanna in appello). La sentenza impugnata- nella prospettiva del ricorrente- sarebbe venuta meno all’obbligo della cd. motivazione rafforzata: in particolare, a seguito delle note decisioni del 2013 della Corte di Strasburgo, la Corte territoriale, aveva l’obbligo, pena violazione dell’art. 6 CEDU di procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ed all’esame diretto dei testimoni della cui deposizione aveva effettuato diversa valutazione.
Sostiene poi l’erroneità della sentenza impugnata per essere la stessa pervenuta alla condanna del M.S. per non aver adeguatamente valutato il rischio di crollo del controsoffitto, avendo omesso di esaminare il vano tecnico, sottolineando come la Corte territoriale pur avendo evidenziato che gli imputati ignoravano l’esistenza del solaio sospeso li aveva ritenuti colpevoli perché l’adempimento dell’obbligo prevenzionale omesso sarebbe stato invece agevole attraverso lo schiodamento della botola. Ricorda in proposito il ricorrente di aver emesso un’apposita direttiva – ritenuta generica dalla impugnata sentenza- ai soggetti incaricati di ispezionare i locali scolastici al fine di effettuare sopralluoghi finalizzati alla ricerca di eventuali necessità di intervento e sottolinea a riguardo la contraddittorietà della motivazione che da un lato aveva ritenuto agevole l’adempimento dell’obbligo prevenzionale, dall’altro aveva ritenuto necessaria l’emissione di direttive più puntuali. A riguardo in particolare contesta l’affermazione della gravata sentenza secondo cui doveva essere presi a paradigma i protocolli operativi per l’espletamento di attività manutentive predisposti dalla Provincia di Trento. Sottolinea come il M.S. sovrintendesse a ben 78 immobili e che non gli si poteva imporre la minuziosa conoscenza di ogni vano di ogni singolo istituto scolastico, soprattutto in assenza di specifiche segnalazioni da parte della direttrice scolastica.
Pone poi evidenza le contraddizioni della motivazione della sentenza impugnata con riferimento all’incidenza causale del tubo di ghisa sul decesso dello studente V.S..
Con un secondo motivo deduce violazione di legge e manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine, in primo luogo, alla tematica della valutazione dei rischi ed in particolare quanto alla individuazione quale luogo di lavoro del vano tecnico e di datore di lavoro del M.S., sottolineandosi come detto obbligo gravasse in realtà sul direttore scolastico e come egli difettasse comunque dei relativi poteri; in secondo luogo con riferimento al principio dell’affidamento. Richiama sul punto la sentenza di primo grado secondo cui non vi erano ragioni per cui il M.S. dovesse sospettare l’esistenza dell’errore commesso dal progettista e direttore dei lavori (DM.M.), persona dotata di opportuna qualifica, competenza ed esperienza. Deduce poi vizio di motivazione in ordine ad alcuni specifici punti della sentenza impugnata, relativi alle verifiche effettuate sull’immobile.
Con un terzo motivo deduce la violazione degli arti. 76 e 573, 576 e 648 cod. proc. pen. per aver la Corte territoriale condannato l’imputato al risarcimento dei danni anche in favore delle parti civili non appellanti avverso la sentenza di assoluzione di primo grado poiché le relative statuizioni civili erano da intendersi come passate in giudicato e richiama l’orientamento di questa Corte secondo cui l’omesso esercizio del diritto di impugnazione determina acquiescenza alla decisione
Con il quarto ed il quinto motivo formula censure in ordine al trattamento sanzionatorio ed alla mancata concessione delle attenuanti generiche.
Ha poi presentato motivi aggiunti in cui dopo una premessa sul principio di colpevolezza si sofferma in particolare, approfondendoli, su alcuni aspetti già in parte evidenziati nel ricorso quanto al nesso causale, alla individuazione della regola cautelare, alla prevedibilità dell’evento
b. T.F. (responsabile del servizio di prevenzione e protezione del liceo Darwin negli anni 2000-2004) deduce con un primo motivo violazione ed erronea applicazione di legge sostenendo che la mancata individuazione e valutazione del rischio del crollo della controsoffittatura addebitatagli dall’impugnata sentenza, non costituiva invece violazione degli obblighi spettanti gli in relazione al disposto di cui all’art. 18 del D.lgs.vo n. 81/2008 secondo cui gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche, restano a carico dell’amministrazione tenuta per effetto di norme o convenzioni alla loro fornitura o manutenzione, per cui tutti gli obblighi nel caso di specie spettavano esclusivamente alla Provincia di Torino. Sostiene quindi l’erroneità della impugnata sentenza nella parte in cui ha attribuito anche alle scuole un obbligo di preliminare valutazione dei rischi.
Con un secondo motivo deduce violazione di legge e illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine alla sua posizione di garanzia quale RSPP. Si sostiene che detta figura non è diretta destinataria dell’osservanza dei precetti prevenzionali, svolgendo un ruolo non operativo, ma di mera consulenza con il compito di individuare le situazioni di rischio da sottoporre all’attenzione del datore di lavoro cui compete poi di ottemperare alle indicazioni offertegli rimuovendo le situazioni pericolose. L’affermazione di penale responsabilità confermata dalla Corte territoriale sarebbe quindi erronea e frutto di una impropria applicazione dei principi normativi e giurisprudenziali. In particolare la sentenza impugnata avrebbe erroneamente ritenuto luogo di lavoro il vano tecnico; sostiene comunque che anche ove detto vano fosse stato ispezionato non si sarebbe evidenziata alcuna significativa anomalia.
Con un terzo motivo lamenta violazione di legge ed illogicità e contraddittorietà della motivazione quanto alla ritenuta prevedibilità dell’evento sostenendosi che nel caso di specie solo una ricostruzione ex post aveva permesso di accertare che il rischio si annidava all’interno dei pendini ed alle cricche ivi presenti. Inoltre la impugnata sentenza avrebbe trascurato sotto il profilo del principio dell’affidamento il ruolo del DM.M. che aveva seguito e diretto i lavori che nel 1984 più da vicino avevano riguardato il controsoffitto e della ditta incaricata dell’adeguamento all’Anagrafe dell’edilizia scolastica che aveva rilevato la necessità di interventi minimi sulla controsoffittatura.
Con un quarto motivo deduce violazione di legge e illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine al ritenuto nesso di causalità. Sostiene che erroneamente la Corte di merito avrebbe affermato che il crollo si sarebbe verificato per una serie di concause anziché per una causa unica ovvero le cricche nei pendini come sottolineato dal giudice di primo grado.
Con un quinto motivo lamenta la mancata concessione delle attenuanti generiche
c. M.E. (dirigente della Provincia di Torino presso il Servizio Gestione Manutentiva Edifici Scolastici dal 2002 al 2008) deduce violazione di legge e carenza di motivazione in relazione al disposto dell’alt. 18 del D.lgs.vo n. 81 del 2008 sostenendo che il contenuto precettivo di tale disposizione non può essere fatto coincidere con il contenuto dell’obbligo di analisi e valutazione dei rischi di cui agli artt. 28 e 29 dello stesso decreto che è proprio del datore di lavoro. Sarebbe dunque erronea l’impostazione seguita dalla Corte d’appello che avrebbe equiparato il dovere di manutenzione con l’obbligo di valutazione dei rischi determinando un vuoto motivazionale con riferimento alla disamina di quella che avrebbe dovuto essere nella prospettazione dell’accusa una corretta attività di manutenzione. Sottolinea la circostanza che un controsoffitto resta un elemento non strutturale che non compare nella documentazione tecnica e nel cd. certificato di idoneità statica.
Con un secondo motivo deduce erronea applicazione di legge con riferimento alla individuazione della regola cautelare e mancanza di motivazione con riferimento ad atti specificamente indicati nei motivi di gravame. Si sostiene che nessuna regola tecnica che imponeva la realizzazione di un maggior numero di pendini a sostegno del controsoffitto e che anzi nella manualistica versata in atti erano presenti indicazioni differenti circa la distanza minima tra un pendino e l’altro.
Con un terzo motivo deduce l’erronea applicazione della legge penale con riferimento all’accertamento del nesso causale: si sostiene ancora che il numero dei pendini era ampiamente cautelativo rispetto al peso del controsoffitto e comunque l’erroneità del ragionamento della sentenza impugnata quanto all’affermazione che un numero maggiore di pendini avrebbe comunque evitato l’evento. Sotto un ulteriore profilo ribadisce che non vi è prova certa che la causa della morte dello studente V.S. fosse il tubo di ghisa crollato insieme al controsoffitto
Con un quarto motivo deduce la mancanza e manifesta illogicità della motivazione quanto alla ritenuta prevedibilità dell’evento: le cricche che minavano la portanza dei pendini rappresentavano un vizio occulto non percepibile e che tale era stato considerato anche dai consulenti del PM secondo cui la situazione dell’aula prima del crollo appariva del tutto normale. D’altro canto il comportamento dei funzionari della Provincia di Trento assunto dalla sentenza impugnata ad esempio di comportamento virtuoso era inconferente riguardano controsoffittature di nuova realizzazione e comunque comportamenti attuati dopo il verificarsi di un crollo e non nell’ambito di una manutenzione programmata.
Con un quinto motivo lamenta la carenza e contraddittorietà della motivazione in ordine alla accertata esistenza di una procedura che prevedeva un accesso negli isitituti in caso di richiesta da parte del Direttore scolastico nonché dei sopralluoghi periodici che effettuavano i direttori dei lavori periodicamente o personalmente o attraverso il personale incaricato al quale erano stati attribuiti per lotti e specificamente assegnati tutti gli istituti scolastici di competenza della Provincia. La Corte di merito non avrebbe quindi esplorato i rapporti tra il Dirigente della Provincia e gli addetti alle ispezioni
Con un sesto ed ultimo motivo lamenta la mancata concessone delle attenuanti generiche
d. S.D. (Responsabile del Servizio di Protezione e Prevenzione dal 13 ottobre 2005 al 3 settembre 2006 e di addetto allo stesso Servizio dal 16 febbraio 2007) denuncia la violazione dell’alt. 606 lett. b) cod. proc. pen. nella parte in cui applica erroneamente l’art. 299 del D.lgs.vo n. 81 del 2008 al controsoffitto dell’immobile per cui è causa, inopinatamente considerando quale luogo di lavoro il soppalco che ha causato il crollo. Trattavasi infatti secondo la prospettazione del ricorrente di un vano in concreto non accessibile ad altezza ridotta, ingombro di residui di lavorazioni di quaranta anni prima.
Con un secondo motivo deduce violazione di legge nella parte in cui la sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare la rilevanza causale nei reati commissivi mediante omissione e l’insussistenza del dovere giuridico di impedire l’evento. La mancata definizione di luogo di lavoro farebbe – in tesi- venir meno l’obbligo di garanzia in capo ai responsabili della sicurezza
Con un terzo motivo deduce la contraddittorietà della motivazione in ordine all’elemento soggettivo del reato e l’erroneo riferimento ai doveri di garanzia e di controllo dei responsabili della sicurezza e l’erronea motivazione in ordine ai parametri assunti dalla Corte per la condanna dei responsabili della sicurezza ed in particolare del ricorrente. L’elaborazione dei rischi deve infatti ad avviso del ricorrente riguardare un luogo di lavoro ed essa è rilevante in tema di individuazione del nesso causale in capo ai RSPP nella misura in cui essi violino tale dovere. La sentenza impugnata avrebbe poi omesso di considerare la coscienza dell’illiceità del comportamento addebitato, la prevedibilità dell’evento, la prevedibilità dello stesso, l’esigibilità di un comportamento diverso
e. DM.M. (funzionario della I Ripartizione Edilizia della Provincia di Torino nonché di Progettista e Direttore dei Lavori per il cambio di destinazione d’uso dell’edificio negli anni 1979-1981 e 1983-1984, e successivamente dal 21 marzo 1996 al 30 giugno 1998, Dirigente Responsabile presso il Servizio Edilizia Scolastica della Provincia di Torino) deduce l’erronea applicazione della legge penale processuale con riferimento agli artt. 192 e 546 cod. proc. pen. ed in ogni caso la manifesta illogicità della motivazione. In particolare la Corte non avrebbe valutato la circostanza che l’imputato cessato dal suo incarico dirigenziale nel 1998 non rivestiva ad almeno dieci anni alcuna posizione di garanzia con riferimento all’avvenuto crollo; non avrebbe valutato la progressione nel tempo delle cricche e l’incidenza delle opere edili realizzate nel 2000 dalla ditta TERMONOVA sulla tenuta e stabilità del controsoffitto né quanto emerso a seguito delle opere della ditta FAGi realizzate nel 2001 per l’adeguamento alla normativa antincendi allorché erano stati evidenziati problemi di tenuta dei controsoffitti ed ancora della circostanza che in un progetto dallo stesso ricorrente realizzato nel 1996 era previsto il controllo dei controsoffitti, nonché l’appalto GLOBAL SERVICE che prevedeva a carico del soggetto manutentore l’osservazione sistematica predittiva dell’edificio.
Con un secondo motivo deduce violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza di una regola cautelare e del nesso causale tra le condotte addebitate all’imputato e l’evento.
Con un terzo motivo si assume la violazione di legge e la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla rilevabilità del vizio occulto causa del crollo Con un quarto motivo si deduce ancora violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza del nesso causale del decesso dello V.S..
Detti ultimi tre motivi sono sostanzialmente sovrapponibili a quelli proposti dagli altri ricorrenti e su cui si è già riferito.
Con un quinto ed ultimo motivo si deduce violazione di legge e contraddittorietà di motivazione quanto al trattamento sanzionatorio e alla mancata concessione delle attenuanti generiche
f. P.P. (responsabile del servizio di prevenzione e protezione del liceo Darwin negli anni 2006-2008) deduce con un primo motivo violazione di legge ed illogicità della motivazione per quanto attiene alla individuazione del soggetto su cui ricadeva l’obbligo della valutazione dei rischi, richiamando in proposito il disposto di cui all’art.18 comma 3 del decreto legislativo n. 81 del 2008 da cui discenderebbe una radicale diversità di regime dei canoni di responsabilità fra edifici pubblici e privati. Sotto altro profilo sostiene che comunque l’obbligo di valutazione dei rischi incomberebbe in primo luogo sul Preside e non certo sul Responsabile del servizio. Con un secondo motivo deduce erronea applicazione di legge ed illogicità della motivazione con riferimento alla questione della esigibilità del comportamento omesso, richiamando sul punto le diverse conclusioni del giudice di primo grado che aveva escluso che gli imputati che si erano succeduti nel ruolo di R-S.P.P. disponessero di quelle altissime competenze tecniche ritenute indispensabili per “leggere” e “comprendere” i dati fattuali esistenti. Con un terzo motivo lamenta violazione di legge ed illogicità della motivazione per non essere stata raggiunta la prova in ordine alla individuazione della causa della morte. Con un quarto ed ultimo motivo deduce violazione di legge e contraddittorietà di motivazione quanto al trattamento sanzionatorio e alla mancata concessione delle attenuanti generiche
Diritto
6. I ricorsi sono infondati.
La sentenza impugnata è pervenuta all’affermazione di penale responsabilità anche degli imputati M.S., M.E., T.F., S.D. e P.P., in ciò riformando la sentenza di primo grado che, invece, come esposto in narrativa li aveva mandati assolti.
A riguardo con un motivo comune a più ricorrenti viene dedotta la violazione dell’art. 6 CEDU. Osserva in proposito la Corte: l’obbligo di rinnovazione del l’istruttoria fondato sulla nota decisione della Corte EDU, 5 luglio 2011, Dan contro Moldavia sussiste solo qualora il giudice d’appello per procedere alla “reformatio in peius” della sentenza assolutoria di primo grado intenda operare un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una prova orale acquisita dal primo giudice ; non vi è invece tenuto qualora approdi, in base al proprio libero convincimento, ad una valutazione di colpevolezza attraverso una rilettura degli esiti della prova dichiarativa (di cui non ponga in discussione il contenuto o l’attendibilità), valorizzando gli elementi eventualmente trascurati dal primo giudice, ovvero evidenziando gli eventuali travisamenti in cui quest’ultimo sia incorso nel valutare le dichiarazioni.
Come è noto, il processo penale vigente in Italia, quale delineato dal legislatore del 1989, prevede un giudizio di primo grado a struttura tipicamente accusatoria, nell’ambito del quale, quanto meno in linea generale, la prova viene acquisita, nel contraddittorio delle parti dinanzi al giudice imparziale e terzo; ed al principio del contraddittorio, consacrato a livello costituzionale nell’art. 111 Cost., si affiancano a livello di legge ordinaria, come cardini del nuovo processo penale, i principi dell’oralità e dell’immediatezza. Nell’ambito di questo sistema processuale è stato, tuttavia, mantenuto, a differenza di quanto avviene nei cosiddetti sistemi accusatori puri, attraverso il giudizio di appello, il doppio grado di giurisdizione che consiste nella possibilità di ottenere sulla medesima imputazione una seconda pronuncia destinata a prevalere sulla prima: nel rispetto dei limiti delle impugnazioni proposte dalle parti, è prevista, con il secondo grado di giudizio, la possibilità di rivedere in peius o in melius la prima decisione. A ciò si può pervenire, in linea generale, attraverso l’esame del medesimo materiale probatorio formatosi in primo grado, essendo la possibilità di escutere testimoni o assumere nuove prove, attraverso la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, un’eccezione subordinata alla presenza di rigorosi presupposti.
Nell’ambito di questo sistema delineato dal legislatore, merita particolare attenzione, l’ipotesi -che è quella di cui si discute nell’ambito del presente ricorso – della sentenza di assoluzione in primo grado riformata, in seguito all’impugnazione da parte del pubblico ministero, in una sentenza di condanna. A riguardo ancor prima dell’intervento del giudice sovranazionale si era quindi affermato che, in tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello, che riformi totalmente la decisione di primo grado, ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Sez. U, sent. n. 33748 del 12/07/2005, Rv. 231679). Si è parlato al riguardo di motivazione “rafforzata” per evidenziare come essa debba essere particolarmente pregnante ed approfondita; segnatamente, si è, acutamente, precisato che la sentenza di appello di riforma totale del giudizio assolutorio di primo grado deve confutare specificamente, pena altrimenti il vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati (Sez. 6, sent. n. 6221 del 20/04/2005, Rv. 233083). Nel contempo, però, si era costantemente riconosciuto l’effetto devolutivo dell’appello proposto dalla parte pubblica avverso la sentenza di assoluzione, precisandosi anche quali erano i diritti che l’imputato, assolto in primo grado, poteva fare vale nel giudizio di appello instaurato solo su iniziativa del pubblico ministero; in tal senso questa Corte ha avuto modo di affermare: “L’appello del pubblico ministero contro la sentenza di assoluzione emessa all’esito del dibattimento, salva l’esigenza di contenere la pronuncia nei limiti della originaria contestazione, ha effetto pienamente devolutivo, attribuendo al giudice “ad quem” gli ampi poteri decisori previsti dall’art. 597, cod. proc. pen., comma 2, lett. b). Ne consegue che, da un lato, l’imputato è rimesso nella fase iniziale del giudizio e può riproporre, anche se respinte, tutte le istanze che attengono alla ricostruzione probatoria del fatto ed alla sua consistenza giuridica; dall’altro, il giudice dell’appello è legittimato a verificare tutte le risultanze processuali e a riconsiderare anche i punti della sentenza di primo grado che non abbiano formato oggetto di specifica critica, non essendo vincolato alle alternative decisorie prospettate nei motivi di appello e non potendo comunque sottrarsi all’onere di esprimere le proprie determinazioni in ordine ai rilievi dell’imputato” (Sez. U, sent. n. 33748 del 12/07/2005, Rv. 231675).
La decisione della Corte EDU richiamata dai ricorrenti che ha ravvisato la violazione dell’art. 6 par. 1 della Convenzione per violazione dei principi del giusto processo, nell’ipotesi in cui il processo di appello, che aveva portato ad un ribaltamento della decisione assolutoria di primo grado, si era svolto in assenza di qualsiasi attività istruttoria e sulla base del solo esame testuale delle prove assunte nel giudizio di primo grado. Segnatamente i giudici di Strasburgo, pur riconoscendo la piena compatibilità con i principi affermati dalla Convenzione della possibilità della condanna pronunciata dal giudice di appello in riforma di una pronuncia assolutoria in primo grado, hanno affermato che, laddove il diverso epilogo decisorio scaturisca da una diversa valutazione di attendibilità di prove orali considerate decisive, l’art. 6 della Convenzione impone l’assunzione diretta da parte dei giudici di appello delle suddette prove orali, in ordine alle quali si ritiene di dovere modificare il giudizio di attendibilità espresso dai primi giudici. Si è poi ancora, si ribadito che è incompatibile con le garanzie convenzionali il ribaltamento della sentenza di assoluzione fondato su una mera rivalutazione della testimonianza assunta in primo grado, laddove non si sia proceduto alla nuova audizione dei testimoni, con l’ulteriore precisazione che a tale incombente il giudice dì appello deve procedere anche d’ufficio in assenza di un’esplicita richiesta di parte (Corte EDU 04/06/2013, Hani contro Romania).
7. La giurisprudenza di questa Corte, chiamata a confrontarsi con i richiamati principi, si è trovata, da subito, a doverne circoscrivere in modo netto e preciso gli ambiti di applicazione, evidenziando le fattispecie concrete alle quali si era riferita la Corte EDU e nell’ambito delle quali, soltanto, si era ritenuto indispensabile, in caso di ribaltamento della decisione assolutoria di primo grado, risentire i testimoni già escussi in quel grado di giudizio. In sostanza, si è precisato che, con riferimento al giudizio di appello, la violazione del principio stabilito dall’alt. 6, par. 1 CEDU è ancorata al duplice requisito della decisività della prova testimoniale per pervenire, ribaltando l’esito assolutorio del primo grado dì giudizio, ad un giudizio di penale responsabilità, e della necessità, ai medesimi fini, di operare una rivalutazione, in termini di attendibilità, della medesima prova testimoniale; il tutto sulla base della semplice lettura delle dichiarazioni rese dai testi in questione nel giudizio di primo grado, senza procedere ad un nuovo esame degli stessi (cfr., Sez. 5, sent. n. 38085 del 05/07/2012, Rv. 253541; Sez. 2, sent. n. 46065 del 08/11/2012, Rv. 254726; Sez. 5, sent. n. 10965 del 11/01/2013, Rv. 255223; Sez. 6, sent. n. 16566 del 26/02/2013, Rv. 254623). L’evoluzione della giurisprudenza di legittimità – partita dal principio ripetutamente affermato secondo cui nel caso di riforma in peius, da parte del giudice di appello, della sentenza di assoluzione in primo grado, laddove l’affermazione di penale responsabilità scaturisca da un diverso apprezzamento dell’attendibilità di prove orali considerate decisive, sussiste l’obbligo, in forza dell’art. 6 par. 1 CEDU, così come interpretato dalla Corte EDU, di procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale sentendo nuovamente, nel contraddittorio delle parti, i suddetti testimoni – nella prosecuzione di quel percorso di adattamento ai principi delle fattispecie concrete ha finito per ulteriormente limitare il campo di applicazione della regola generale, riconoscendo la legittimità di giudizi di valutazione più ampi e sempre meno “legati” all’esigenza di procedere comunque alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
Si è così affermato (Sez. 5, sent. n. 8423 del 16/10/2013 , Caracciolo e altro, Rv. 258945; Sez. 4, sent. n. 4100/13 del 06/12/2012, Bifulco, Rv. 254950; Sez. 5, sent. n. 10965 del 11/01/2013, Cava e altro, Rv. 255223) che, non sono applicabili i principi posti dalla Corte EDU del 5 luglio 2011, nella sentenza Dan c. Moldavia – per la quale il giudice di secondo grado, che, discostandosi dall’epilogo assolutorio della sentenza di primo grado, intenda condannare l’imputato sulla base delle dichiarazioni di un teste già ascoltato in primo grado, ha l’obbligo di sentire nuovamente e personalmente il suddetto teste – qualora il giudice di appello non proceda ad una rivalutazione dell’attendibilità di una testimonianza, ma si limiti ad apprezzare le dichiarazioni rese alla luce di ulteriori elementi trascurati dal primo giudice. Ed ancora si è ritenuto che non violi il principio dell'”oltre ogni ragionevole dubbio”, il giudice di appello che riformi totalmente la sentenza assolutoria di primo grado valutando diversamente il medesimo compendio probatorio, purché delinei con adeguata motivazione le linee portanti del proprio alternativo percorso argomentativo, che metta in evidenza le ragioni di incompletezza o incoerenza del provvedimento riformato (Sez. 2, sent. n. 17812 del 09/04/2015, dep. 29/04/2015, Maricosu, Rv. 263763). Applicando tali principi al caso in esame non sussiste la dedotta violazione. La Corte di appello, infatti dopo avere ricostruito i fatti, riassunto le motivazioni della sentenza di primo grado ed analizzato con cura gli elementi probatori acquisiti, ha puntualmente ed esaurientemente provveduto a confutarne gli elementi portanti giustificando in modo congruo e logico le ragioni della propria decisione, finendo così col giungere ad una diversa valutazione in punto di responsabilità degli odierni ricorrenti. In particolare non ha effettuato una rivalutazione dell’attendibilità del teste C., ma ha effettuato una compiuta analisi dell’intero compendio probatorio, escludendo dal proprio giudizio quella testimonianza che si poneva in insanabile contrasto con tutte le altre prove acquisite, idonee per numero e rilevanza ad eliderne il valore. Ne vi è spazio per condividere quanto sostanzialmente sostenuto dalle difese in ordine al fatto che, trattandosi di valutazioni diverse operate in ordine al medesimo compendio probatorio dai giudici di primo e di secondo grado, ciò sarebbe sintomatico di una possibile diversa lettura degli elementi emergenti dagli atti tale da non ritenere raggiunta la prova di colpevolezza dei ricorrenti. Seguendo tale impostazione, infatti, mai si potrebbe giungere ad un ribaltamento della decisione in sede di appello qualora non si siano aggiunte nuove prove con la paradossale conseguenza che l’errore decisionale del giudice di prime cure che ha pronunciato una sentenza di assoluzione non sarebbe altrimenti emendabile. La presenza di differenti gradi di giudizio trova infatti la propria ragion d’essere proprio nella possibilità (bidirezionale) di diverse valutazioni delle prove, frutto delle libertà decisionale dei giudicanti. Ciò che conta è, in conclusione, che ogni decisione venga assunta nel rispetto delle modalità di legge, secondo i criteri guida indicati ed interpretati nella loro prospettiva evolutiva dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema e della Corte EDU, con motivazione idonea, non contraddittoria e non manifestamente illogica atteso che questi possono essere gli unici aspetti evocati in sede di legittimità in quanto – è doveroso rimarcarlo – questa Corte è giudice del provvedimento e non del fatto.
Nel caso di specie, premesso che – come giustamente sottolineato dal Procuratore Generale di questa Corte nel corso della requisitoria- vi è su molteplici aspetti – come si evidenzierà in prosieguo- una sostanziale uniformità di giudizio da parte dei giudici di merito, in particolare La Corte territoriale, attingendo ad argomenti privi dei gravi vizi paventati, ha persuasivamente dimostrato perché andava affermata la penale responsabilità degli imputati assolti in primo grado. Sono in particolare stati evidenziati in più punti le contraddizioni interne della sentenza impugnata e la sua manifesta erroneità nella applicazione della legge penale, rispetto a fondamentali principi ed indirizzi di questa Corte su cui si tornerà in prosieguo (cfr. in particolare pp. 13 e 32 della impugnata sentenza).
8. Tanto premesso si può procedere anche in relazione ad altre doglianze dei ricorrenti, e fatte salve le precisazioni e specificazioni di cui in appresso, ad un esame congiunto dei ricorsi, che presentano sotto diversi aspetti analoghi
Del tutto peculiare nel presente giudizio appare infatti solo la posizione del DM.M., sia perché nei confronti di quest’ultimo entrambe le sentenze di merito sono pervenute ad un conforme giudizio di penale responsabilità., sia in quanto questi ebbe a rivestire il ruolo di progettista e direttore dei lavori degli appalti attraverso i quali l’Amministrazione Provinciale realizzò il cambio di destinazione d’uso dei locali posti al piano immediatamente superiore rispetto al locale oggetto del crollo, mediante la demolizione delle stanzette del seminario e la creazione delle aule ad uso scolastico, (cfr. pag. 7 della gravata sentenza). Va quindi in primo luogo ricordato come costituisca orientamento consolidato di questa Corte quello secondo il quale, in presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità, va ritenuta l’ammissibilità della motivazione della sentenza d’appello per relationem a quella della decisione impugnata, sempre che le censure formulate contro la sentenza di primo grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello, nell’effettuazione del controllo della fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite dall’appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate. In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell’appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (Sez.6, n.28411 del 13/11/2012, dep. 1/07/2013, Santapaola, Rv. 256435; Sez. 3, n. 13926 del 10/12/2011, dep. 12/04/2012, Valerio, Rv. 252615; Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 4/02/1994, Albergamo ed altri, Rv. 197250).
Nella specie fra l’altro la duplice affermazione di responsabilità, è stata adeguatamente motivata, nè può essere qui sindacata, avendo i giudici del merito fatta satisfattiva applicazione dei principi vigenti in materia. La Corte territoriale inoltre, pur confermando la sentenza di primo grado, ha sottoposto a complessiva rivisitazione il compendio probatorio, valorizzando in modo particolarmente significativo il duplice ruolo rivestito dall’imputato di progettista, direttore dei lavori e funzionario della Provincia di Torino.
Mentre per quest’ultimo aspetto si rinvia a quanto si dirà in prosieguo in relazione alla posizione degli altri funzionari e dirigenti della Provincia di Torino, sotto il primo profilo particolare rilevanza assume la disamina della sentenza impugnata in ordine alle cause del crollo, individuate, sulla base dei rilievi tecnici dei CC di Rivoli, dei Vigili del Fuoco e della ASL intervenuti subito dopo il crollo e della consulenza collegiale dei consulenti del PM. Dette cause sono state individuate non solo nelle “cricche” più o meno presenti nei pendini, ma nell’eccessivo ed irregolare interasse fra questi ultimi, “difetto facilmente percepibile ad un’osservazione visiva” ed addebitabile ad una anomalia progettuale.
A fronte di una disamina ampiamente argomentata, le diverse prospettazioni del ricorrente si risolvono in censure sull’apprezzamento del compendio probatorio, opinabili, sicuramente improponibili in sede di legittimità. Ed invero, attraverso ciascuna delle diverse doglianze avanzate con l’odierna impugnazione, il DM.M. ha circoscritto il proprio discorso critico sulla sentenza impugnata a una discordante lettura delle risultanze istruttorie acquisite nel corso del giudizio, in difformità rispetto alla complessiva ricostruzione operata dai giudici di merito, limitandosi a dedurre i soli elementi astrattamente idonei a supportare la propria alternativa rappresentazione del fatto (peraltro, in modo solo parziale, selettivo e non decisivo), senza farsi carico della complessiva riconfigurazione dell’intera vicenda sottoposta a giudizio, sulla base di tutti gli elementi istruttori raccolti, che, viceversa, la corte d’appello (sulla scia del discorso giustificativo dettato dal primo giudice) ha ricostruito con adeguata coerenza logica e linearità argomentativa. Non può rinnovarsi quindi in questa sede la ricostruzione delle cause del crollo.
In questa prospettiva, soccorre utilmente il principio pacifico secondo cui, in tema di prova, in virtù del principio del libero convincimento, il giudice di merito può scegliere, tra le diverse tesi prospettate dal perito o dai consulenti delle parti, quella che ritiene condivisibile, purché dia motivatamente conto delle ragioni della scelta, nonché del contenuto della tesi disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti (Cass., Sez. 4, n. 34747/2012, Rv. 253512; Cass., Sez. 4, n. 45126/2008, Rv. 241907; Cass., Sez. 4, n. 11235/1997, Rv. 209675). Nella specie, la corte territoriale ha provveduto a chiarire in modo analitico le ragioni della privilegiata considerazione ascritta alle tesi prospettate dai consulenti dell’accusa, nonché dei tecnici intervenuti nella immediatezza del crollo, non trascurando l’apprezzamento delle contrarie deduzioni della difesa, anch’esse specificamente considerate e confutate sulla base di argomentazioni logicamente lineari e del tutto congrue in termini esplicativi. Peraltro, l’esigenza di fornire un’appropriata motivazione del rigetto delle tesi e delle deduzioni contrarie a quelle condivise, può ritenersi adeguatamente soddisfatta dal giudice anche attraverso l’esame complessivo delle ragioni giustificative della decisione, allorché le articolazioni dello sviluppo argomentativo della sentenza appaiano tali da lasciar ritenere implicitamente superate le deduzioni disattese, per la logica incompatibilità delle stesse con l’obiettiva ricostruzione dei fatti operata dal giudice sulla base delle fonti probatorie richiamate e della coerente connessione delle stesse da parte del consulente richiamato. Ciò posto, rileva il collegio come la corte territoriale abbia ricapitolato le scansioni del decorso causale che condusse al crollo di cui alla presente vicenda in termini di adeguata coerenza logica e linearità argomentativa, avendo proceduto a un’analitica ricostruzione esplicativa sulla base di rilievi scientificamente fondati e adeguatamente corroborati attraverso un’esauriente caratterizzazione probatoria della fattispecie concreta.
La decisione, del resto, oltre che congruamente motivata, è giuridicamente corretta, avuto riguardo alla circostanza che i giudici di merito, neH’argomentare la condanna e la sua conferma, non si sono limitati a considerare la violazione colposa addebitata all’imputato, ma ne hanno considerato adeguatamente il ruolo efficiente, nella eziologia dell’occorso.
9. Con motivo comune le difese degli imputati M.E., P.P. e T., richiamando il contenuto dell’alt. 18 comma 3 del decreto legislativo n. 81 del 2008 sostengono che avrebbero dovuto essere mandati esenti da ogni responsabilità per gli eventi di cui è causa. Significativamente la questione è posta sia da imputati ritenuti responsabili in quanto funzionari della Provincia che da altri che rivestivano, invece, il ruolo di RSPP. Tale norma che ha trasfuso l’art. 4 comma 12 del decreto legislativo n. 626 del 1994 prevede che gli obblighi relativi agli interventi strutturati e di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del presente Decreto Legislativo, la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell’amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione. In tale caso gli obblighi previsti dai presente Decreto Legislativo, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all’amministrazione competente o ai soggetto che ne hanno l’obbligo giuridico.
Va osservato a riguardo che nella specie è pacifico che il liceo Darwin dipendesse per gli interventi strutturali e di manutenzione dalla Provincia, mentre “datore di lavoro” era da intendersi l’istituzione scolastica, soggetto che non possiede poteri decisionali e di spesa. Non può pertanto dubitarsi della posizione di garanzia dei funzionari della Provincia cui gravava l’obbligo degli interventi di manutenzione straordinaria dell’edificio. Ciò tuttavia non comporta che la scuola resti esente da responsabilità anche nel caso in cui abbia richiesto all’Ente locale idonei interventi strutturali e di manutenzione poi non attuati , incombendo comunque al datore di lavoro (e per lui come si vedrà al RSPP da questi nominato) l’adozione di tutte le misure rientranti nelle proprie possibilità, quali in primis la previa individuazione dei rischi esistenti e ove non sia possibile garantire un adeguato livello di sicurezza, con l’interruzione dell’attività. Ulteriore conferma si rinviene nel decreto ministeriale n. 382 del 1998 e nella circolare ministeriale n. 119 del 1999 che prevede l’obbligo per l’istituzione scolastica di adottare ogni misura idonea in caso di pregiudizio per l’incolumità dell’utenza. Si configura insomma una pregnante posizione di garanzia in tema di incolumità delle persone. Tale obbligo è stato palesemente violato a causa della mancata valutazione della inadeguatezza dell’edificio sotto il profilo della sicurezza a causa della presenza del vano tecnico sovrastante il controsoffitto.
10. Quanto, in particolare, al ruolo ed ai connessi profili di responsabilità della figura del RSPP, va osservato che Sez. 4, n. 49821del 23/11/2012,Rv. 254094 ) svolge una delicata funzione di supporto informativo, valutativo e programmatico ma è priva di autonomia decisionale: esse, tuttavia coopera in un contesto che vede coinvolti diversi soggetti, con distinti ruoli e competenze.
Tale figura non è destinataria in prima persona di obblighi sanzionati penalmente; e svolge un ruolo non operativo, ma di mera consulenza. L’argomento non è tuttavia di per sé decisivo ai fini dell’esonero dalla responsabilità penale. In realtà, l’assenza di obblighi penalmente sanzionati si spiega agevolmente proprio per il fatto che il servizio è privo di un ruolo gestionale, decisionale. Tuttavia quel che importa è che il RSPP sia destinatario di obblighi giuridici; e non può esservi dubbio che, con l’assunzione dell’incarico, egli assuma l’obbligo giuridico di svolgere diligentemente le funzioni che si sono viste.
D’altra parte, il ruolo svolto dal RSPP è parte inscindibile di una procedura complessa che sfocia nelle scelte operative sulla sicurezza compiute dal datore di lavoro e la sua attività può ben rilevare ai fini della spiegazione causale dell’evento illecito.
Gli imputati, nella veste di RSPP, erano astretti, come si è sopra esposto, all’obbligo giuridico di fornire attenta collaborazione al datore di lavoro individuando i rischi lavorativi e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli. Le singole posizioni dei tre imputati sono state a riguardo debitamente evidenziate (cfr. pag. 68 dell’impugnata sentenza)
Né può censurarsi la gravata sentenza nella parte in cui ha ritenuto che gli imputati in questione avessero posseduto le competenze adeguate alla natura dei rischi presenti per poter adempiere in primis al loro obbligo di preliminare adeguata valutazione dei rischi, trattandosi comunque di professionisti qualificati, dotati di ampia esperienza nel campo.
Nè può farsi genericamente valere la presenza di altri titolari della posizione di garanzia perché la compresenza di più titolari della posizione di garanzia non è evenienza che esclude, per ciascuno, il contributo causale nella condotta incriminata (cfr. Sez. 4 n. 1194 del 15/11/2013 Rv. 258232)
11. Con riferimento alle ulteriori problematiche sottese all’odierna vicenda, vanno richiamati i principi individuati da questa Corte di legittimità (cfr. ex plurimis Sez. 4, Sez. 4, n. 16761 del 11/03/2010, Rv. 247015) ed i criteri utilizzati per verificare la prevedibilità dell’evento e anche quelli riguardanti l’evitabilità del medesimo; nel senso che anche per quanto riguarda lo scrutinio sulla possibilità che un evento possa verificarsi e sul grado di diligenza usato per evitarlo è necessario individuare criteri di misura oggettivi. La giurisprudenza e la dottrina dominanti si rifanno a criteri che rifiutano i livelli di diligenza esigibili dal concreto soggetto agente (perché in tal modo verrebbe premiata l’ignoranza di chi non si pone in grado di svolgere adeguatamente un’attività di natura eminentemente tecnica) o dall’uomo più esperto (che condurrebbe a convalidare ipotesi di responsabilità oggettiva) o dall’uomo normale (verrebbero privilegiate prassi scorrette) e si rifanno invece a quello del c.d. “agente modello” (homo ejusdem professionis et condicionis), un agente ideale in grado di svolgere al meglio, anche in base all’esperienza collettiva, il compito assunto evitando i rischi prevedibili e le conseguenze evitabili. Ciò sul presupposto che se un soggetto intraprende un’attività, tanto più se di carattere tecnico, ha l’obbligo di acquisire le conoscenze necessarie per svolgerla senza porre in pericolo (o in modo da limitare il pericolo nei limiti del possibile nel caso di attività pericolose consentite) i beni dei terzi. Si parla dunque di misura “oggettiva” della colpa diversa dal concetto di misura “soggettiva” della colpa che non rileva nel presente giudizio. È stato sottolineato che la necessità di individuare un modello standard di agente si rende ancor più necessaria nei casi (per es. l’attività medico chirurgica) nei quali difettano regole cautelari codificate anche se vanno sempre più diffondendosi linee guida e protocolli terapeutici. L’agente modello, si è detto, va di volta in volta individuato in relazione alle singole attività svolte e “lo standard della diligenza, della perizia e della prudenza dovute sarà quella del modello di agente
che “svolga” la stessa professione, lo stesso mestiere, lo stesso ufficio, la stessa attività, insomma dell’agente reale, nelle medesime circostanze concrete in cui opera quest’ultimo”.
Il parametro di riferimento non è quindi ciò che forma oggetto di una ristretta cerchia di specialisti o di ricerche eseguite in laboratori d’avanguardia ma, per converso, neppure ciò che usualmente viene fatto, bensì ciò che dovrebbe essere fatto. Non può infatti da un lato richiedersi ciò che solo pochi settori di eccellenza possono conoscere e attuare ma, d’altro canto, neppure possono essere convalidati usi scorretti e pericolosi; questi principi sono ormai patrimonio comune di dottrina e giurisprudenza pressoché unanimi nel sottolineare l’esigenza di non consentire livelli non adeguati di sicurezza sia che siano ricollegabili a trascuratezza sia che il movente economico si ponga alla base delle scelte.
Utilizzando quindi tale criterio dell’agente modello quale – lo si ribadisce- agente ideale in grado di svolgere al meglio il compito affidatogli; in questo giudizio si deve tener conto non solo di quanto l’agente concreto ha percepito ma altresì di quanto l’agente modello avrebbe dovuto percepire valutando anche le possibilità di aggravamento di un evento dannoso in atto che non possano essere ragionevolmente escluse.
L’addebito soggettivo dell’evento richiede comunque non soltanto che l’evento dannoso sia prevedibile ma altresì che lo stesso sia evitabile dall’agente con l’adozione delle regole cautelari idonee a tal fine, non potendo essere soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con valutazione ex ante, non avrebbe potuto comunque essere evitato. A questi criteri si è attenuta la Corte di merito che si è posta il problema dell’osservanza delle regole cautelari in relazione alla situazione percepibile con l’osservanza delle regole di cautela esigibili nella fattispecie dall’agente modello e non in relazione – come sostanzialmente sostenuto da parte di alcuni ricorrenti- alla preparazione professionale degli agenti concreti negando l’esistenza della colpa perché i medesimi non avevano la preparazione scientifica necessaria. Detta tesi è da ritenere erronea perché agente modello è colui che adegua la propria condotta alle conoscenze disponibili nella comunità scientifica e che, se non dispone di queste conoscenze, adempie all’obbligo – se intende svolgere un’attività che comporta il rischio di eventi dannosi – di acquisirle o di utilizzare le conoscenze di chi ne dispone o, al limite, di segnalare al datore di lavoro la propria incapacità di svolgere adeguatamente la propria funzione. Insomma se un soggetto riveste una posizione di garanzia per una funzione di protezione del garantito deve operare per assicurare la protezione richiesta dalla legge al fine di evitare eventi dannosi e non può addurre la propria ignoranza per escludere la responsabilità dell’evento dannoso. Ove si accedesse ad una diversa impostazione, chiunque, anche se inesperto e incapace, potrebbe svolgere un’attività che comporta rischi di eventi dannosi e che richiede, per il suo svolgimento, conoscenze tecniche o scientifiche adducendo la sua ignoranza nel caso in cui questi eventi dannosi in concreto si verifichino.
I ricorsi degli imputati nel resto sono a riguardo peraltro articolati con numerosi riferimenti a dati fattuali e, sostanzialmente, propongono una lettura alternativa del compendio probatorio effettuata, nella maggior parte dei casi, attraverso il confronto tra i contenuti della sentenza di primo grado e quella impugnata. Va in proposito ricordata la consolidata giurisprudenza di questa Corte orientata nel senso di ritenere che il controllo sulla motivazione demandato al giudice di legittimità resta circoscritto, in ragione della espressa previsione normativa, al solo accertamento sulla congruità e coerenza dell’apparato argomentativo con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti (si vedano ad esempio, limitatamente alla pronunce successive alle modifiche apportate all’art. 606 cod. proc. pen. dalla L. n. 46 del 2006, Sez. 3 n. 12110, 19 marzo 2009; Sez. 6 n. 23528, 6 luglio 2006; Sez. 6 n. 14054, 20 aprile 2006; Sez. 6 n. 10951, 29 marzo 2006). Si è altresì precisato che il vizio di motivazione ricorre nel caso in cui la stessa risulti inadeguata perché non consente di riscontrare agevolmente le scansioni e gli sviluppi critici che connotano la decisione riguardo a ciò che è stato oggetto di prova ovvero impedisce, per la sua intrinseca oscurità od incongruenza, il controllo sull’affidabilità dell’esito decisorio, sempre avendo riguardo alle acquisizioni processuali ed alle prospettazioni formulate dalle parti (Sez. 6 n.7651, 25 febbraio 2010). Ancor più efficacemente si è specificato come il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo della decisione impugnata sia circoscritto alla verifica dell’assenza, in quest’ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili con “atti del processo”, specificamente indicati dal ricorrente, che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Sez. 4 n. 15801, 19 aprile 2010, Sez. 6 n. 38698, 22 novembre 2006). Nel caso in esame la Corte territoriale ha sviluppato un percorso argomentativo del tutto coerente e logico, confrontandosi adeguatamente – come già sopra sottolineato con la sentenza assolutoria di primo grado.
Con riferimento alla prevedibilità dell’evento (unica questione su cui sostanzialmente le due sentenze di merito divergono, avendo il primo giudice ritenuto che non si era in presenza di segni di dissesto agevolmente riconoscibili) la Corte territoriale ha in primo luogo posto in evidenza – come già ricordato- come quello che la sentenza di primo grado definiva un semplice “controsoffitto”, aveva invece la funzione di costituire il solaio di un cosiddetto vano tecnico della estensione di circa 1000 mq., e del peso di circa otto tonnellate, che, come tale doveva sostenere oltre il peso proprio, di per sé molto rilevante, anche il sovraccarico dei servizi presenti, del materiale che nel tempo si era ivi accumulato, nonché l’eventuale peso del personale della manutenzione, che sicuramente vi aveva fatto accesso, quanto meno per la sostituzione dei tubi di scarico del piano superiore. Agli imputati è stato quindi di fatto addebitato di aver ignorato l’esistenza dei detto vano che presentava numerose varie criticità e difetti, nonostante l’accertata presenza di una botola che ne consentiva agevolmente l’accesso. In particolare la sentenza impugnata ha sottolineato come il detto accesso, previa apertura della botola non costituiva un eccesso di scrupolo, ma una doverosa necessità per tutti gli imputati, onde adempiere agli obblighi giuridici connessi alle rispettive funzioni. L’apertura della botola avrebbe consentito di verificare lo stato del vano tecnico ed di evidenziarne le già ricordate problematiche (cfr. pagg. 34 e ss. della impugnata sentenza)
12. Non possono accogliersi neppure le doglianze proposte da tutti i ricorrenti, relativa al trattamento dosimetrico proposta con riferimento, in particolare, al diniego delle circostanze attenuanti generiche. È sufficiente ricordare che, in tema di circostanze attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza. Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita, essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda. In questa prospettiva, anche uno solo degli elementi indicati nell’articolo 133 c.p., attinente alla personalità del colpevole o alla entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso, può essere sufficiente per negare o concedere le attenuanti generiche, derivandone così che, esemplificando, queste ben possono essere negate anche soltanto in base ai precedenti penali dell’imputato (Sezione 4, 15 luglio 2014, Lacchè).
L’applicazione di tali principi non consente l’accoglimento della doglianza, avendo il giudice motivato, nel rispetto dei parametri di cui all’articolo 133 c.p. valorizzando la gravita del fatto e negativamente la mancanza di una qualsiasi condotta meritoria da parte dei prevenuti.
13. Vanno da ultimo esaminate alcune questioni specifiche poste in particolare dal ricorrente M.S., anche se riecheggiate anche in altri ricorsi. Sostiene in particolare il M.S. che nulla gli potrebbe essere addebitato per aver emesso un’apposita direttiva volta ad effettuare dei sopralluoghi finalizzati ad accertare la necessità di eventuali interventi. Sul punto la gravata sentenza ha ritenuto l’assoluta genericità di detta direttiva. Detta affermazione – confutata dal ricorrente- va tuttavia calata nell’ambito dell’intero compendio motivazionale della gravata sentenza che ha sottolineato che pur essendo evidente che i funzionari e dirigenti della Provincia di Torino non avrebbero potuto svolgere personalmente tutti i controlli, agli stessi doveva comunque essere addebitata la mancata adeguata mappatura degli edifici al fine della valutazione di tutti i “rischi” verificabili, incombente questo rientrante nei precipui obblighi di controllo e di interevento su tutte le fonti di insicurezza. E che tale fosse la presenza del “controsoffitto” diu cui si discute è di palmare evidenza alla luce delle caratteristiche dello stesso quali in precedenza rammentate, della sua risalenza nel tempo, elementi questi che, come icasticamente affermato dalla difesa della parte civile nel corso del giudizio di appello e riportato nella sentenza impugnata (cfr. pag. 15) lo rendevano una vera e propria “bomba ad orologeria”, innescata e sovrastante l’aula $ G del liceo Darwin, a fronte della quale per quasi mezzo secolo, nessun intervento era stato operato.
Altra questione posta è quella relativa alla individuazione quale “luogo di lavoro” del vano tecnico. Il motivo è manifestamente infondato, atteso che nella nozione di ” luogo di lavoro”, rilevante ai fini della sussistenza dell’obbligo di attuare le misure antinfortunistiche, rientra ogni luogo in cui viene svolta e gestita una qualsiasi attività implicante prestazioni di lavoro, indipendentemente dalle finalità – sportive, ludiche, artistiche, di addestramento o altro – della struttura in cui essa si svolge e dell’accesso ad essa da parte di terzi estranei all’attività lavorativa. ( cfr. Sez. 4, n. 2343 del 27/11/2013, Rv. 258435 ). Nel caso di specie, anche a voler prescindere dalla circostanza che il vano tecnico in questione era accessibile e che allo stesso si era concretamente fatto in passato accesso da parte degli operai per la sostituzione dei tubi, non può tralasciarsi che esso costituiva anche il controsoffitto dell’aula sottostante (nonché di numerosi altri locali) , aula in cui si svolgeva costantemente attività lavorativa anche in senso stretto.
E’ stata posta altresì questione in ordine alle effettive cause di morte dello studente V.S., individuate dai giudici di merito nel colpo da questi subito alla testa ove era stato attinto da uno dei tubi di ghisa abbandonati nel vano tecnico. Anche detto accertamento è stato compiuto dai giudici di merito sulla base delle risultanze peritali per cui si rimanda alle osservazioni svolte in precedenza.. La questione tuttavia non ha la rilevanza che gli viene attribuita atteso che non modifica sostanzialmente il decorso causale dell’evento, in ogni caso immediata conseguenza del crollo del solaio, cui ha sicuramente contribuito quale concausa il sovraccarico del materiale ivi lasciato. La presenza di detto materiale, icto oculi accertabile rafforza per altro verso le argomentazioni in ordine alla prevedibilità e prevedibilità dell’evento come sopra formulate.
14. Ultima questione è quella relativa alla condanna alle spese sostenute dalle parti civili non impugnanti. Sul punto la gravata sentenza ha richiamato la sentenza n. 30327 del 2002 delle SS.UU., Guadalupi, Rv. 222001, secondo cui il giudice di appello, che su gravame del solo pubblico ministero condanni l’imputato assolto nel giudizio di primo grado, deve provvedere anche sulla domanda della parte civile che non abbia impugnato la decisione assolutoria, ché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili liquidate come da dispositivo. Detta decisione ha trovato successive conferme (cfr. ex plurimis Sez. 4, n. 26841 del 14/05/2003 , Rv. 225114 ), sulla base del principio della cd. immanenza della parte civile più volte ribadito da questa Corte (cfr. Sez. 4, n. 10802 , Rv. 243976 )
15. Al riscontro dell’infondatezza di tutti i motivi di doglianza avanzati dai ricorrenti segue il rigetto dei ricorsi e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi proposti da DM.M., M.S., M.E. , T.F., S.D. e P.P., che condanna al pagamento delle spese processuali.
Condanna i predetti imputati DM.M., M.S., M.E. , T.F., S.D. e P.P. alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili in questo giudizio di cassazione che liquida in
euro 2500,00 in favore di C.C.
euro 8000,00 in favore di ; euro 2500,00 in favore di ;
euro 4500,00 in favore di ;
euro 2500,00 in favore di Legambiente Onlus;
euro 7500,00 in favore di ;
euro 2500,00 in favore di Cittadinanza Attiva Onlus: euro 2500,00 in favore del Comune di Rivoli
Così deciso nella camera di consiglio del 3 febbraio 2015