Decesso di un artigiano posatore di lastre contenenti amianto per mesotelioma pleurico. Gli obblighi di protezione di cui all’art. 2087 c.c. ricadono anche sui non dipendenti.
Presidente: AMENDOLA ADELAIDE
Relatore: TATANGELO AUGUSTO
Data pubblicazione: 24/03/2016
Fatto
Il giudizio trae origine dal decesso di P.S., artigiano posatore di lastre contenenti amianto, avvenuto il 10 marzo 1996 per un mesotelioma pleurico.
Assumendo che la malattia fosse stata contratta a causa della sua attività professionale, la vedova L.M. ha agito per ottenere il risarcimento dei danni, sia a titolo ereditario che in proprio, nei confronti di due imprese per conto delle quali il P.S. aveva eseguito lavorazioni, la Edilfibro S.p.A. e la Cielle Prefabbricati S.p.A..
La domanda è stata rigettata dal Tribunale di Voghera, che ha ritenuto non provata la responsabilità delle convenute.
La Corte di Appello di Milano, in riforma della decisione dì primo grado, la ha invece parzialmente accolta. Ha ritenuto sussistente la responsabilità di entrambe le società per la morte del P.S., ma insufficiente l’allegazione e la prova dei danni non patrimoniali subiti dalla vittima, e ha quindi liquidato in favore dell’attrice esclusivamente il danno non patrimoniale da questa subito in proprio. Ricorre Edilfibro S.p.A., sulla base di cinque motivi.
Resistono con controricorso la L.M. e la Cielle Prefabbricati S.p.A., già in liquidazione e in concordato preventivo (e dichiarata fallita in corso di giudizio), la quale propone ricorso incidentale sulla base di quattro motivi, ai quale resiste la L.M. con ulteriore controricorso.
La società ricorrente Edilfibro S.p.A. e la controricorrente L.M. hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Diritto
1.- Con il primo motivo del ricorso principale sì denunzia «violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. e degli arti. 115 e 116 cod. proc. civ. (art. 360, n. 3, codice di procedura civile). Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360. n. 5 cod. proc. civ.)».
Con il terzo motivo del ricorso principale si denunzia «violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. (art. 360, n. 3, codice di procedura civile). Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, n. 5 cod. proc. civ. )».
Con il quarto motivo del ricorso principale si denunzia «violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. e degli artt 115 e 116 cod. proc. civ. (art. 360. n, 3. codice di procedura civile). Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, n. 5 cod. proc. civ.)».
Tali motivi, in quanto connessi, possono essere esaminati congiuntamente tra loro e con il primo ed il quarto motivo del ricorso incidentale con i quali si denunzia, rispettivamente, «violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 113. 115. 116 c.p.c. (art. 360 n, 3, c.p.c.). Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 n. 5 c.p.c.)». e «violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2697 c.c.. 113, 115, 116 c.p.c. (art. 360 n. 3, c.p.c.)».
Tutti questi motivi sono infatti diretti a censurare la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto dimostrata, sulla base degli elementi istruttori acquisiti agli atti dì causa, la prolungata e continua esposizione del P.S. all’amianto proveniente dalle lavorazioni dei prodotti realizzati Edilfibro S.p.A. e di quelli commercializzati da Cielle Prefabbricati S.p.A., nel periodo a cavallo tra gli anni settanta ed ottanta, nonché il nesso di causa tra tale esposizione e l’insorgenza della malattia che ha causato la sua morte.
Si tratta di motivi in parte infondati ed in parte inammissibili.
1.1- Sono certamente infondati nella parte in cui viene denunziata, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., la violazione delle norme in tema di nesso di causa (art. 2043 c.c.), di onere della prova (art. 2697 c.c.) e di disponibilità e valutazione degli elementi istruttori ai fini della decisione (art. 113, 115 e 116 c.p.c.).
La corte di appello ha ritenuto dimostrato che il P.S. abbia lavorato per le società ricorrenti a cavallo degli anni settanta e ottanta del secolo scorso – sebbene non in forza di rapporti diretti, i quali intervenivano solo con i cd. capi-commessa (motivo per cui ha ritenuto scarsamente significativa l’esistenza di un numero limitato di fatture che documentavano siffatti rapporti diretti) – e era rimasto esposto alle polveri di amianto provenienti dai materiali da queste rispettivamente prodotti e commercializzati, sulla base delle deposizioni testimoniali acquisite in corso di causa.
Ha in tal senso considerato maggiormente attendìbili quelle dei testi Omissis (artigiani che avevano lavorato a diretto contatto con il P.S. nel periodo presumibilmente rilevante ai finì della contaminazione) rispetto a quelle, di segno parzialmente diverso, degli ex dirigenti o dipendenti delle stesse società ricorrenti o di altri artigiani che però non avevano in quell’epoca avuto significativi contatti con la vittima.
Ha poi ritenuto causalmente rilevante la suddetta esposizione, ai fini della contrazione della malattia, sulla base della considerazione che secondo la prevalente letteratura scientifica il mesotelioma pleurico è causato dall’inalazione di polveri di amianto, è malattia dose-dipendente ed ha normalmente un lungo periodo di latenza, di almeno quindici anni.
Ha infine precisato non potersi ritenere decisive in senso contrario né la circostanza che il P.S. avesse a lungo abitato nei pressi dì uno stabilimento di produzione di materiali che contenevano amianto, non essendo comprovato che tale vicinanza comportasse l’inalazione di polveri di amianto, né che avesse eventualmente lavorato anche per altre imprese, avendo i testi riferito che la sua prevalente attività era svolta per le ricorrenti ed essendo comunque i riferimenti ad altre imprese del tutto generici.
Sulla base di tali elementi di fatto ha ritenuto dimostrato, in termini di elevata probabilità, il nesso causale tra esposizione all’amianto proveniente dai prodotti trattati dalle ricorrenti e contrazione della malattia letale.
Tale percorso argomentativo si sottrae certamente alle dedotte censure di violazione di legge: non è ravvisabile alcuna violazione dell’art. 2697 ovvero dell’art. 2043 c.c., e tanto meno degli artt. 113, 115 e 116 c.p.c..
La corte di merito ha applicato correttamente le suddette disposizioni.
L’onere della prova dei fatti costitutivi della responsabilità delle convenute è stato correttamente ritenuto gravare sulla parte attrice.
La decisione in proposito è stata assunta secondo diritto, sulla base dei fatti non contestati e di quelli notori, nonché delle prove acquisite agli atti di causa, valutate secondo il prudente apprezzamento del giudice.
L’accertamento del nesso di causalità è stato effettuato in base al criterio cd. del “più probabile che non”, in conformità al consolidato orientamento di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 576, 581, 582, 584 dell’11 gennaio 2008; conf., ex muitis: Sez. 3, Sentenza n. 10741 dell’11 maggio 2009; Sez. 3, Sentenza n. 16123 dell’8 luglio 2010; Sez. 3, Ordinanza n. 8430 del 12 aprile 2011; Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21 luglio 2011; Sez. 3, Sentenza n. 13214 del 26 luglio 2012; Sez. 3, Sentenza n. 23933 del 22 ottobre 2013; Sez. 3, Sentenza n. 22225 del 20 ottobre 2014). Tale accertamento costituisce apprezzamento insindacabile in sede di legittimità, in quanto sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi (Sez. 3, Sentenza n. 26997 del 7 dicembre 2005; Sez. 1, Sentenza n. 4587 del 25 febbraio 2009; Sez. 3, Sentenza n. 4439 del 25 febbraio 2014).
1.2. Per quanto poi attiene ai denunziati vizi di motivazione e di omesso esame di fatti decisivi, occorre premettere che la sentenza impugnata è stata pubblicata in data successiva al 1 settembre 2012 (segnatamente in data 30 novembre 2013), e quindi nella specie è applicabile il nuovo testo dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del decreto legge 22 giugno 2012 n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012 n. 134, secondo cui non sono più deducibili, come in passato, genericamente vizi di motivazione, ma esclusivamente l’«omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti».
Secondo il recente arresto delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sezioni Unite, 7 aprile 2014 n. 8053 e n. 8054; conf.: Cass. 27 novembre 2014 n. 25216; 9 luglio 2015 n. 14324) «la riformulazione della disposizione va interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui: a) l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; b) il nuovo testo dell’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c., introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia); c) l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; d) la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366, co. 1, n. 6), e all’art. 369, co. 2, n. 4), c.p.c. – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” dei fatto stesso».
Orbene, le censure della ricorrente principale risultano addirittura espressamente formulate sulla base del testo abrogato dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., e dunque esse sono certamente inammissibili.
Ma anche quelle formulate dalla ricorrente incidentale non trovano puntuale riscontro nel paradigma di cui alla previsione normativa applicabile ratione temporis.
Manca l’indicazione di un preciso fatto storico decisivo, risultante dagli atti e oggetto di discussione nel corso del giudizio, il cui esame sia stato radicalmente omesso.
I fatti storici emergenti dagli atti e rilevanti ai fini della decisione sono stati del resto tutti presi espressamente in considerazione dal giudice del merito. La motivazione non risulta omessa, né apparente, e certamente non è affetta dai radicali vizi di intrinseca ed insanabile contraddittorietà logica tuttora denunziabili con il ricorso per cassazione.
In definitiva, le società ricorrenti chiedono sostanzialmente una nuova e diversa valutazione del materiale probatorio al fine di sovvertire gli accertamenti in fatto insindacabilmente operati dal giudice del merito, il che certamente non è ammissibile in sede di legittimità.
2. – Con il secondo motivo del ricorso principale si denunzia «violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. (art. 360, n. 3, codice di procedura civile). Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360. n, 5 cod. proc. civ.)».
Con il quinto motivo del ricorso principale si denunzia «violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 cod. civ.. dell’art. 2697 cod. civ. e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. (art. 360, n. 3, codice dì procedura civile). Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, n. 5 cod. proc. civ. )».
Con il secondo motivo del ricorso incidentale si denunzia ancora «violazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.)».
Con il terzo motivo del ricorso incidentale si denunzia infine «violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2697 c.c.. 113. 115, 116 c.p.c. (art. 360 n. 3. c.p.c.).
I motivi indicati sono connessi, e come tali vanno esaminati congiuntamente. Essi sono infatti tutti rivolti a censurare la ritenuta sussistenza della responsabilità delle società ricorrenti per l’omessa adozione delle cautele necessarie, secondo le conoscenze del tempo, ad evitare la contrazione della malattia da parte dei soggetti che operavano presso le loro strutture aziendali e/o i loro cantieri.
Anche questi motivi sono peraltro in parte inammissibili ed in parte infondati.
2.1- La corte di appello, sulla base degli elementi istruttori acquisiti agli atti, ha ritenuto provato in fatto: a) che presso i cantieri delle società ricorrenti non veniva fatto uso delle due fondamentali misure di sicurezza delle maschere di protezione e degli aspiratori delle polveri, in violazione dell’art. 387 del D.P.R. n. 547 del 1955 e dell’art. 21 del D.P.R. n. 303 del 1956; b) che il P.S., così come gli altri artigiani nella sua stessa posizione, operavano per le suddette società, formalmente quali prestatori d’opera e quindi al di fuori di un rapporto di lavoro subordinato, ma comunque nei cantieri e sotto la vigilanza del loro personale, con impianti e arredi da esse forniti, senza quindi una sostanziale autonomia nell’organizzazione dei propri mezzi e delle proprie strutture operative.
Sulla base dì tali (insindacabili) accertamenti in fatto ha poi ritenuto in diritto applicabili alle ricorrenti, quali committenti, gli obblighi di protezione di cui all’art. 2087 c.c. in materia di misure di sicurezza sui luoghi di lavoro al fine di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali dei lavoratori, anche se non dipendenti.
Infine ha precisato che, se anche non fosse predicabile una responsabilità delle società ricorrenti per l’omissione delle misure dì sicurezza ai sensi dell’art. 2087 c.c., esse risponderebbero ugualmente dei danni subiti dal P.S., e segnatamente della contrazione della malattia mortale per cui è causa, in base ai principi solidaristici e di difesa del contraente debole nei rapporti economici e sociali che si desumono dagli artt. 2 e 3 Cost., essendo l’impresa il soggetto che fruisce dei vantaggi e dei profitti del lavoro prestato in suo favore e che come tale deve ritenersi obbligato a sopportare anche i rischi che la prestazione lavorativa comporta per la salute del lavoratore e della sua famiglia.
2.2- Orbene, va in primo luogo escluso qualsiasi vizio di ultrapetizione della pronunzia impugnata, con riguardo alla natura del rapporto di lavoro intercorrente tra le società ricorrenti ed il P.S. ed al titolo della responsabilità imputata a queste ultime.
In realtà la natura autonoma, sul piano della qualificazione giuridica, delle prestazioni lavorative rese dal P.S. in favore delle società ricorrenti ed il titolo della responsabilità di queste non risultano neanche messi in discussione dalla corte di appello.
Le considerazioni sul sostanziale difetto di autonomia dei caratteri della prestazione resa dal P.S. e dagli altri artigiani che operavano in favore delle suddette società ricorrenti, e il conseguente obbligo di queste, ai sensi dell’art. 2087 c.c., di adottare le necessarie cautele a tutela della sicurezza dei lavoratori a qualunque titolo operanti presso le loro strutture aziendali e i loro cantieri, e sotto la loro sostanziale direzione e vigilanza, risultano effettuate in via incidentale e di mero fatto, al solo fine di valutare la sussistenza di una loro condotta colposa, evidentemente rilevante ai fini dell’affermazione della relativa responsabilità civile.
Non sussiste dunque alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo la corte di merito pronunziato nei limiti delle domande proposte.
2.3- Va poi rilevata l’evidente inammissibilità delle censure di vizi motivazionali prospettate dalla ricorrente principale sulla base del testo abrogato e non applicabile nel presente giudizio dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. (come già rilevato in relazione alle analoghe censure operate con gli altri motivi di ricorso ed esaminate nel precedente paragrafo, cui può farsi rinvio), e l’evidente insussistenza delle dedotte violazioni dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 113, 115 e 116 c.p.c..
È sufficiente osservare in proposito che anche in relazione ai punti qui in discussione:
a) la corte di appello ha preso espressamente in considerazione tutti i fatti storici emergenti dagli atti e rilevanti ai fini della decisione;
b) la motivazione non risulta omessa, né apparente, e certamente non è affetta dai radicali vizi di intrinseca ed insanabile contraddittorietà logica tuttora denunziabili con il ricorso per cassazione;
c) l’onere della prova dei fatti costitutivi della responsabilità delle convenute è stato correttamente ritenuto gravare sulla parte attrice;
d) la decisione è stata assunta secondo diritto, sulla base dei fatti non contestati e di quelli notori, nonché delle prove acquisite agli atti di causa, valutate secondo il prudente apprezzamento del giudice.
In definitiva, le società ricorrenti chiedono sostanzialmente – anche in relazione ai profili in esame – una nuova e diversa valutazione dei materiale probatorio al fine di sovvertire gli accertamenti in fatto insindacabilmente operati dal giudice del merito, il che certamente non è ammissibile in sede dì legittimità.
2.4- Gli ulteriori profili che vengono in rilievo nei motivi di ricorso in esame hanno tutti ad oggetto la contestazione dell’applicabilità dell’art. 2087 c.c, ai fini dell’affermazione della responsabilità delle ricorrenti.
In proposito risulta però assorbente la considerazione che la sentenza impugnata risulta basata su una ulteriore ratio decidendi non censurata, di per sé autonoma e sufficiente a fondare la suddetta responsabilità.
Come più sopra chiarito, la corte di appello ha infatti ritenuto che, anche a prescindere dall’applicabilità della disposizione di cui all’art. 2087 c.c., le società ricorrenti sono tenute a rispondere comunque dei danni derivanti dalla contrazione della malattia professionale da parte del P.S., in base ai principi solidaristici e di difesa del contraente debole nei rapporti economici e sociali che si desumono dagli artt. 2 e 3 Cost., quali imprese che hanno tratto utile dalle sue prestazioni lavorative.
Tale affermazione non risulta oggetto di impugnazione ed essa – indipendentemente dalla sua correttezza in diritto, che non può essere messa qui in discussione per la rilevata assenza di specifica censura – è certamente in grado di giustificare autonomamente, sul piano logico e giuridico, l’affermazione della responsabilità delle società ricorrenti.
Le censure avanzate in relazione all’applicabilità dell’art. 2087 c.c. sono dì conseguenza inammissibili, per difetto di interesse, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata e non potendosi quindi pervenire in nessun caso alla cassazione della sentenza (cfr., ex muitis: Sez. U, Sentenza n. 16602 dell’8 agosto 2005; Sez. L, Sentenza n. 3386 dell’11 febbraio 2011; Sez. 6 – L, Ordinanza n. 22753 del 3 novembre 2011; Sez. 3, Sentenza n. 2108 del 14 febbraio 2012; Sez. U, Sentenza n. 7931 del 29 marzo 2013).
È solo per completezza di esposizione che il collegio osserva, comunque, che la corte di appello, nel ritenere applicabile nella fattispecie l’art. 2087 c.c., si è correttamente conformata – sulla base degli insindacabili accertamenti di fatto operati in ordine alla effettiva direzione e organizzazione tecnica del lavoro degli artigiani posatori da parte delle società ricorrenti – alla giurisprudenza di questa Corte, che ritiene applicabile la suddetta disposizione anche al committente, laddove, riservandosi i poteri tecnico – organizzativi sull’opera da eseguire, si sia reso in concreto garante della vigilanza relativa alle misure da adottare a tutela dei lavoratori, anche se non dipendenti da lui (ex plurimis, Sez. L, Sentenza n. 17092 dell’8 ottobre 2012: «l’art. 2087 c.c. che, integrando le disposizioni in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro previste da leggi speciali, impone all’imprenditore l’adozione di misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, è applicabile anche nei confronti del committente, tenuto ai dovere di provvedere alle misure di sicurezza dei lavoratori anche se non dipendenti da lui, ove egli stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alle misure da adottare in concreto, riservandosi i poteri tecnico – organizzativi dell’opera da eseguire»; conf.: Sez. L, Sentenza n. 22818 del 28 ottobre 2009; nel medesimo senso, cfr. altresi; Sez. 3, Sentenza n. 1146 del 22 gennaio 2015; Sez. 3, Sentenza n. 21694 del 20 ottobre 2011; Sez. L, Sentenza n. 11757 del 27 maggio 2011; Sez. L, Sentenza n. 22818 del 28 ottobre 2009; Sez. L, Sentenza n. 4129 del 22 marzo 2002).
4. – Sono rigettati sia il ricorso principale che quello incidentale.
Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo.
Dal momento che il ricorso risulta notificato successivamente al termine previsto dall’art. 1, co. 18, della legge n. 228 del 2012, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, co. 17, della citata legge n. 228 del 2012.
P.Q.M.
La Corte:
– rigetta il ricorso principale e quello incidentale;
– condanna sta la ricorrente principale che la ricorrente incidentale a pagare le spese del presente giudizio in favore della controricorrente L.M., liquidandole, per ciascuna di esse, in complessivi € 6.000,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte sia della ricorrente principale che della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, in data 23 febbraio 2016.