In tema di violazione di normativa antinfortunistica, per “ambiente di lavoro” deve intendersi tutto il luogo o lo spazio in cui l’attività lavorativa si sviluppa ed in cui, indipendentemente dall’attualità dell’attività, coloro che siano autorizzati ad accedere nel cantiere e coloro che vi accedano per ragioni connesse all’attività lavorativa, possono recarsi o sostare anche in momenti di pausa, riposo o sospensione del lavoro (Sezione IV, 19 febbraio 2015, Bartoloni ed altri).
Mentre è del resto parimenti pacifico che la normativa antinfortunistica si applica non solo ai lavoratori subordinati, ma anche ai soggetti ad essi normativamente equiparati, tra i quali rientrano i soci anche di fatto che prestino la loro attività per conto della società; e si applica altresì per garantire la sicurezza anche delle persone estranee che possano trovarsi occasionalmente nei luoghi di lavoro e, potenzialmente, nella situazione di pericolo.
Presidente: BIANCHI LUISA
Relatore: PICCIALLI PATRIZIA
Data Udienza: 22/03/2016
Fatto
G.E. ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe che, riformando, in accoglimento del ricorso del procuratore generale, quella assolutoria di primo grado- che aveva ritenuto non provata l’esistenza del nesso di causa- lo ha riconosciuto colpevole del reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche, per avere, quale titolare della ditta omonima, provocato, per colpa, la morte di G.I..
L’incidente era avvenuto durante le operazioni di taglio di un albero e l’addebito di colpa, pur non essendo stato provato che il deceduto fosse un lavoratore dipendente dell’imputato, era stato ravvisato nel fatto che questi, nell’avere predisposto l’attività di abbattimento di alberi, non aveva curato la messa in sicurezza delle operazioni, sì da evitare la presenza nel sito di persone estranee [quale infine doveva ritenersi il deceduto] in un momento pericoloso quale doveva ritenersi l’operazione del taglio: per l’effetto, durante l’abbattimento ne era derivato che l’albero nel cadere finiva con il colpire il G.I. procurandogli lesioni mortali.
La Corte territoriale escludeva la responsabilità del lavoratore chiamato all’abbattimento – per il quale manteneva la soluzione liberatoria adottata dal primo giudice- sul rilievo assorbente che comunque la causa dell’evento era da ricondursi alla inosservanza in materia prevenzionale addebitata all’imputato.
La causa dell’incidente – pur nella rappresentata difficoltà di una ricostruzione esatta della dinamica dell’incidente- era ricollegata alla caduta dell’albero e all’effetto “rimbalzo” in terra dello stesso: evenienza possibile e prevedibile e non certo eccezionale.
Si articolano quattro motivi.
Con il primo si contesta la violazione dell’articolo 521 c.p.p., sul rilievo della pretesa difformità tra la contestazione [basata sulla qualifica di lavoratore del deceduto e quindi sull’omessa osservanza della normativa cautelare posta a tutela dei lavoratori] e la condanna [il deceduto, difettando prova certa che si trattasse di lavoratore, si è ritenuto essere un estraneo che si era trovato in sede di lavoro, con un addebito calibrato sull’inosservanza dell’obbligo di impedire l’accesso al sito di persone diverse dai lavoratori].
Poi, con diversi argomenti, si censura il giudizio di responsabilità.
Si sostiene in proposito il mancato puntuale accertamento circa il luogo che avrebbe dovuto essere effettivamente interdetto e circa la posizione dell’infortunato.
Sotto questo profilo, si sostiene che la Corte territoriale, proprio ammettendo la difficoltà di una esatta ricostruzione della dinamica dell’incidente, contraddittoriamente avrebbe però affermata la colpa del prevenuto.
Si sostiene inoltre l’eccezionalità [con conseguente effetto interruttivo del nesso causale] dell’effetto “rimbalzo” del tronco, contestandosi il giudizio opposto di prevedibilità formalizzato in parte motiva.
Infine proprio in ragione del coinvolgimento nell’infortunio di estraneo si sostiene l’insussistenza dell’aggravante di cui al comma 2 dell’articolo 589 c.p., con effetti sulla prescrizione.
Diritto
Il ricorso è infondato.
Quanto alla prima doglianza, vale ricordare il principio secondo cui, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (cfr. Sezioni unite, 15 luglio 2010, Carelli). In ogni caso, comunque, l’osservanza del diritto al contraddittorio in ordine alla natura e alla qualificazione giuridica dei fatti di cui l’imputato è chiamato a rispondere, sancito dall’articolo 111, comma 3, della Costituzione, e dall’articolo 6 CEDU, commi 1 e 3, lettere a) e b), così come interpretato nella sentenza della Corte EDU nel proc. Drassich c. Italia, impone di ritenere che il potere di attribuire alla condotta addebitata all’imputato una nuova e diversa qualificazione giuridica non possa essere esercitato “a sorpresa” dovendosi garantire il rispetto della regola del contraddittorio. Ciò che si verifica in due situazioni: allorquando l’imputato o il suo difensore abbia avuto nella fase di merito la possibilità comunque di interloquire
in ordine al contenuto dell’imputazione o allorquando la diversa qualificazione giuridica appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio (di merito o di legittimità), stante la riconducibilità del fatto storico oggetto del procedimento ad una limitatissima gamma di previsioni normative alternative, per cui l’eventuale esclusione dell’una comporta inevitabilmente l’applicazione dell’altra, non corrispondendo, in tale ipotesi, alla diversa qualificazione giuridica, una sostanziale immutazione del fatto, che, integro nei suoi elementi essenziali, può essere diversamente qualificato secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile (Sezione V, 7 ottobre 2014, S. ).
E’ principio qui calzante ove si consideri che la questione dell’essere o no il deceduto dipendente dell’imputato è stata oggetto di precipuo approfondimento sia in primo che in secondo grado, e su tale questione la difesa ha potuto ampiamente interloquire.
A ciò dovendosi aggiungere, vertendosi in tema di reati colposi, l’altro principio secondo cui non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa (se si fa, in altri termini, riferimento alla colpa generica), essendo quindi consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e quindi non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa. Analogamente, non sussiste la violazione dell’anzidetto principio anche qualora, nel capo di imputazione, siano stati contestati elementi generici e specifici di colpa ed il giudice abbia affermato la responsabilità dell’imputato per un’ipotesi di colpa diversa da quella specifica contestata, ma rientrante nella colpa generica, giacché il riferimento alla colpa generica, anche se seguito dall’indicazione di un determinato e specifico profilo di colpa, pone in risalto che la contestazione riguarda la condotta dell’imputato globalmente considerata, sicché questi è in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti del comportamento tenuto in occasione del fatto di cui è chiamato a rispondere, indipendentemente dalla specifica norma che si assume violata (di recente, Sezione IV, 4 dicembre 2014, Paolini).
E’ principio parimenti calzante, da cui deriva la corretta affermazione di responsabilità in ordine a profili di colpa ampiamente oggetto di contestazione.
Parimenti corretta l’affermazione di responsabilità articolata pur in assenza di prova del rapporto di dipendenza del deceduto.
In punto di condotta colposa va infatti ricordato che, proprio in tema di violazione di normativa antinfortunistica, per “ambiente di lavoro” deve intendersi tutto il luogo o lo spazio in cui l’attività lavorativa si sviluppa ed in cui, indipendentemente dall’attualità dell’attività, coloro che siano autorizzati ad accedere nel cantiere e coloro che vi accedano per ragioni connesse all’attività lavorativa, possono recarsi o sostare anche in momenti di pausa, riposo o sospensione del lavoro (Sezione IV, 19 febbraio 2015, Bartoloni ed altri).
Mentre è del resto parimenti pacifico che la normativa antinfortunistica si applica non solo ai lavoratori subordinati, ma anche ai soggetti ad essi normativamente equiparati, tra i quali rientrano i soci anche di fatto che prestino la loro attività per conto della società; e si applica altresì per garantire la sicurezza anche delle persone estranee che possano trovarsi occasionalmente nei luoghi di lavoro e, potenzialmente, nella situazione di pericolo (Sezione III, 3 marzo 2009, Girotti ed altro).
Proprio dal fatto che le disposizioni prevenzionali sono da considerare emanate nell’interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell’Impresa, consegue [e ciò rileva per contrastare il motivo di censura che invoca l’intervenuta prescrizione] che, in caso di lesioni e di omicidio colposi, perché possa ravvisarsi l’ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, è necessario e sufficiente che sussista tra siffatta violazione e l’evento dannoso un legame causale, il quale ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse secondo i principi dettati dagli articoli 40 e 41 c.p.: in tale evenienza, quindi, dovrà ravvisarsi l’aggravante di cui agli articoli 589, comma 2, e 590, comma 3, c.p., nonché il requisito della perseguibilità d’ufficio delle lesioni gravi e gravissime, ex articolo 590, ultimo comma, c.p., anche nel caso di soggetto passivo estraneo all’attività ed all’ambiente di lavoro, purché la presenza di tale soggetto nel luogo e nel momento dell’infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l’evento e la condotta inosservante e purché, ovviamente, la norma violata miri a prevenire incidenti come quello in effetti verificatosi [situazioni queste ultime qui non verificatesi].
Corretta e satisfattivamente motivata è la decisione anche in punto di nesso causale.
Vale osservare che la rilevata impossibilità di ricostruire le modalità dell’abbattimento non ha impedito – con il conforto del resto dello stesso accadimento materiale- di fondare convincentemente [e non contraddittoriamente] l’addebito sull’impropria presenza del deceduto sul sito e sulla conseguente inosservanza delle regole cautelari da parte dell’imputato [rilevante, quest’ultima, ai fini dell’apprezzamento della causalità della colpa]. Si tratta di valutazioni indipendenti che reggono il vaglio di legittimità.
Vale ancora osservare che è stato parimenti escluso in modo affatto illogico che l’effetto di “rimbalzo” del tronco possa costituire evenienza imprevedibile, trattandosi anzi di situazione non “eccentrica rispetto al rischio” che il garante è chiamato a governare in ipotesi del tipo di che trattasi. In ricorso neppure si spiega per quale ragione un’ evenienza quale quella di interesse dovrebbe invece ritenersi anomala ed imprevedibile.
Al rigetto del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in data 22 marzo 2016