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Il caso Thyssen e la sua conclusione

Non possiamo trascurare la sentenza definitiva del caso Thyssen, arrivata dopo 9 anni e diversi gradi di giudizio. Non lo facciamo per evitare di “bucare” la notizia, non per rimanere agganciati ai numerosi articoli e commenti che si sono accavallati in questi giorni. Lo facciamo per un semplice motivo: ciò che è accaduto nella notte tra il 5 e il 6 Dicembre dl 2007 è stata una grande tragedia per le vittime e i parenti, ma è stato anche l’inizio di una valanga che ha modificato il quadro normativo e la sensibilità sociale sul tema della salute e sicurezza.

Partiamo da un breve riassunto che l’avv. Dubini ha fatto del caso:

Nella notte a cavallo tra il 5 e il 6 dicembre 2007 otto operai al lavoro sulla linea 5 della fabbrica siderurgica Thyssenkrupp di Torino vengono investiti da una fuoriuscita di olio bollente che prende fuoco. L’incendio si sviluppa all’altezza della linea di ricottura e decapaggio. L’intervento dei Vigili del Fuoco è immediato: i feriti vengono trasportati in ospedale, ma le loro condizioni sono gravissime. In sette non ce la fanno: il primo operaio, Antonio Schiavone, muore poche ore dopo. Tra il 7 e il 30 dicembre le altre sei vittime: Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rocco Marzo, Rosario Rodinò e Bruno Santino, tra i 26 e i 54 anni. Si salva Antonio Boccuzzi, unico superstite eletto poi nelle liste del Pd di cui è tutt’ora deputato.

Quella notte di fine 2007, allo scoppio del rogo, i sette operai insieme al collega Antonio Boccuzzi avevano tentato di spegnere le fiamme, ma ogni loro sforzo era stato inutile: nonostante i frequenti incendi sulla linea 5, gli estintori erano quasi vuoti, le manichette di acqua inutili, l’impianto non era adeguato perché il management sapeva che lo stabilimento sarebbe stato chiuso. Dall’indagine dei pm Raffaele Guariniello, Laura Longo e Francesca Traverso emerse che quella di limitare le spese nella prevenzione era stata una scelta aziendale, definita dai giudici della corte d’assise come “sciagurata”, ma consapevole, motivo per cui avevano condannato gli imputati a pene tra i dieci anni e i sedici per omicidio volontario con dolo eventuale. Per i colleghi della Corte d’assise d’appello, invece, non ci fu “dolo”, ma soltanto imprudenza, un impianto inadeguato dal punto di vista della prevenzione e protezione antincendio che non ha retto. Un’imprudenza inescusabile dei dirigenti pagata a carissimo prezzo dai lavoratori.

La prima cosa che cambiò fu la calma con cui il Governo stava procedendo alla stesura di un Testo Unico che raccogliesse quasi tutte le norme che riguardano la salute e la sicurezza delle persone che lavorano. Il terribile modo con cui perirono i lavoratori, arsi vivi, diede all’accaduto un’eco tale che l’opinione pubblica rimase attonita. Il Presidente Giorgio Napolitano si fece portavoce dello sgomento e si disse convinto che

questo drammatico evento coinvolge ancora una volta la responsabilità di tutti, poteri pubblici e forze sociali, ad assumere il necessario impegno per estirpare l’inaccettabile piaga delle morti e degli incidenti sul lavoro.

Il Ministro del Lavoro Cesare Damiano richiamò tutti al dovere di concludere presto i lavori per giungere a una nuova normativa anche avendo la consapevolezza che il Governo Prodi di cui faceva parte, traballava pericolosamente. Il 9 Aprile del 2008, tre mesi dopo l’incidente, venne varato il Decreto 81. Esattamente un mese dopo il Governo Prodi chiuse la propria esperienza.

È indubbio, fatte salve le lacune e alcune incongruenze dovute forse anche alla fretta, che il D.Lgs. 81/08 rappresenti un elemento di forte discontinuità con il passato e insieme uno stimolo al cambiamento. Si provò anche a tornare indietro lanciando la sciagurata campagna nel 2010 con lo slogan “La sicurezza la pretende chi si vuole bene” dove le responsabilità organizzative, a cui a livello mondiale si guarda per capire le cause degli infortuni, venivano sostituite da un richiamo alle responsabilità dei singoli che trascuravano atteggiamenti sicuri sul lavoro in quanto “non si volevano bene abbastanza”. Campagna per fortuna naufragata tra le proteste di numerosi operatori del settore.

Ci fu però un altro aspetto importante, il modo con cui il magistrato di Torino Guariniello affrontò l’indagine successiva al rogo. Innanzitutto la rapidità dell’inchiesta: due mesi e 19 giorni di indagine accurata e documentata a cui non potranno prescindere i livelli successivi di valutazione.

Poi il modo di procedere per la prima volta fu riconosciuto il dolo in un grave incidente del lavoro, quindi una volontarietà dovuta al fatto che l’azienda era consapevole del rischio cui andavano incontro gli operai.

Dichiarò Guariniello dopo la prima sentenza alla Corte di Appello torinese che inflisse 16 anni e 6 mesi all’amministratore delegato della Thyssenkrupp Harald Espenhahn e altre pene, tra i 13 anni e mezzo ai 10 anni e 10 mesi per 5 dirigenti dello stabilimento di Torino:

La sentenza presenta elementi innovativi: perché pone la politica aziendale per la sicurezza dei dipendenti al centro della attenzione delle indagini, quindi coinvolge le scelte di fondo delle aziende. E, per la magistratura, questa visione implica che quando accade un infortunio bisogna vedere subito perché è avvenuto partendo dalle scelte aziendali per la prevenzione, entrare cioè nelle stanze dei Consigli di Amministrazione per vedere cosa era stato previsto per  l’ambiente di lavoro e la salute dei dipendenti, cercare documenti, disposizioni, delibere. Guardi che questa è una novità a livello italiano ed anche europeo. Gli infortuni non accadono a caso, la mancanza di prevenzione, che va provata, implica indagini immediate e ricerca di documenti, quindi magistrati preparati e investigatori che sanno dove andare a prendere e trovare,nei computer come negli archivi, i documenti necessari.

La corte di Cassazione ha confermato, pochi giorni fa e malgrado la richiesta di rinvio del PG, il verdetto della Corte d’Assise d’Appello di Torino del 29 maggio 2015.

La pena più alta, 9 anni e 8 mesi, è quella inflitta all’ex amministratore delegato e datore di lavoro. Condannati poi il responsabile investimenti antincendio dell’azienda, a 7 anni e 6 mesi;  ex direttore dello stabilimento, a 7 anni e 2 mesi; il responsabile del servizio prevenzione e protezione  a 6 anni e 8 mesi. Pene di 6 anni e 3 mesi per i manager uno italiano responsabile commerciale e datore di lavoro, oggi responsabile delle partecipate del gruppo Ilva che si è sospeso dal proprio incarico e l’altro tedesco responsabile amministrativo e datore di lavoro.

La speranza è di essersi lasciati dietro alle spalle le possibilità che accadano ancora stragi di questo tipo e soprattutto di aver abbandonato la cultura superficiale e irresponsabile che sottovaluta i danni alle persone guardando unicamente al proprio, sia pur minimo, tornaconto economico.

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