Cassazione Penale, Sez. 4, ud. 11 febbraio 2016 (dep. maggio 2016), n. 22147

Infortunio mortale durante l’abbattimento di un albero. La formazione non è esclusa dal personale bagaglio di conoscenze del lavoratore.


Presidente: ROMIS VINCENZO
Relatore: D’ISA CLAUDIO
Data Udienza: 11/02/2016

Fatto

1. Il Tribunale di Montepulciano con sentenza del 3.05.2012, dichiarava M.A. e S.V. responsabili del delitto di omicidio colposo, aggravato dalla violazione di norme in materia di infortuni sul lavoro in relazione alla morte di S.R., fratello del secondo imputato, deceduto per le gravi lesioni riportate a seguito dell’abbattimento di un albero (un abete bianco alto circa 26 metri) che lo aveva investito nel corso delle operazioni di diradamento di un bosco che i due fratelli stavano svolgendo – alle dipendenze dell’impresa denominata “3 EMME” della quale la M.A. era legale rappresentante – nel territorio del Comune di S.Abbadia S.Salvatore. La M.A. veniva, inoltre, ritenuta responsabile anche delle contravvenzioni in materia di infortuni sul lavoro.
1.1 Il giudice di primo grado ha ritenuto provata la responsabilità degli imputati sulla base della perizia svolta in sede di incidente probatorio, delle consulenze tecniche eseguite su incarico del P.M. e dai periti di parte, che, sostanzialmente, avevano ricostruito in modo conforme il verificarsi del sinistro, nonché della documentazione acquisita e delle testimonianze assunte in dibattimento.
Argomenta il Tribunale che i testimoni di polizia giudiziaria avevano riferito che fin dai primi accertamenti era emersa evidente l’imperizia di S.V., che, nel procedere al taglio della pianta non aveva proceduto secondo la tecnica corretta, aveva utilizzato una motosega in pessime condizioni, non aveva predisposto le vie di fuga, non aveva praticato un taglio direzionale nell’albero, c.d. cerniera, che consente la caduta controllata della pianta.
Quanto alla posizione della M.A. erano stati individuati diversi profili di colpa per non aver fornito ai dipendenti l’attrezzatura necessaria per l’esecuzione, con le corrette modalità, dei tagli forestali e per l’atterramento delle piante rimaste impigliate; inoltre, per avere omesso di formare ed informare adeguatamente i dipendenti S.V. e S.R., in particolare sulle distanze di sicurezza tra gli operatori, sui rischi connessi alla presenza di piante impigliate; infine, per avere omesso di porre in essere una adeguata attività di controllo e vigilanza del cantiere, vigilanza che avrebbe consentito di rilevare la condizione di pericolo che si era venuta a determinare e di intervenire per scongiurare i rischi esistenti.
1.2 La Corte d’appello di Firenze, sul gravame proposto dai due imputati, con la sentenza indicata in epigrafe, ha mandato assolto il S.V., confermando l’affermazione di responsabilità della M.A. in ordine alla contestazione di omicidio colposo, ritenendo infondati i motivi posti a base del suo appello, e dichiarando l’estinzione per intervenuta prescrizione dei reati contravvenzionali.
In particolare, quanto alla assoluzione del S.V., secondo la sentenza di primo grado, l’evento letale sarebbe stato provocato dalla caduta diretta di una pianta di abete che l’imputato stava tagliando, mentre la Corte d’appello ha ritenuto che gli elementi di prova acquisiti non possono essere considerati tali da escludere un ragionevole margine di incertezza e, quindi, che non si possa escludere che la morte del S.R. sia stata determinata dalla caduta improvvisa di un albero precedentemente tagliato e rimasto sospeso perché imbrigliato tra gli altri circostanti (il S.V. aveva sostenuto che l’albero che era caduto sul fratello fosse stato tagliato in precedenza dallo stesso S.R. e fosse rimasto impigliato nella chioma degli alberi vicini). Sulla base di questa differente ed alternativa ricostruzione del fatto la Corte fiorentina ha assolto il S.V. per insufficienza di prove a suo carico; ha, invece, ritenuto che l’incertezza sulla dinamica dell’incidente occorso al S.R. fosse indifferente all’accertamento della responsabilità della M.A..
2. Ricorre per cassazione la M.A..
2.1 Con il primo motivo si denuncia manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione alla ricostruzione della dinamica dell’infortunio ed in punto di sussistenza dei presupposti normativi dell’imputazione oggettiva dell’evento alla ricorrente.
La sentenza di appello, pur riconoscendo l’inidoneità dei risultati probatori all’accertamento della effettiva dinamica dell’incidente letale – così da assolvere il S.V. per insufficienza probatoria – ha ravvisato che potesse comunque essere verificata la rilevanza della ritenuta violazione delle regole cautelari da parte del datore di lavoro. Si adduce che, nel caso di specie, non è indifferente l’accertamento della concreta dinamica dell’incidente al fine di valutare il concorso nella determinazione dell’evento lesivo, della presunta inosservanza di regole di prevenzione negli ambienti di lavoro, giacché non vi è un rapporto di causalità materiale tra le dette presunte inosservanze cautelari della ricorrente e la morte del dipendente. L’accertamento della concretizzazione del rischio, oggetto della regola di cautela violata, presuppone la preventiva ricostruzione della dinamica dell’incidente. Nella sentenza gravata, invece, per la Difesa l’enunciato di compatibilità delle contestate violazioni cautelari con l’evento letale è del tutto astratto: tradisce la mancanza di un effettivo giudizio controfattuale.
Per altro, si adduce che la ricostruzione “ipotetica” del provvedimento impugnato intorno alla dinamica dell’incidente appare ictu oculi contraddetta dai risultati probatori acquisiti che, invece, avevano indotto il Tribunale a riconoscere la causa materiale dell’infortunio nella caduta diretta dell’albero che l’imputato S.V. aveva appena tagliato. Plurimi dati oggettivi introdotti nel processo non giustificano in alcun modo l’approdo in fatto della Corte d’appello che è escluso sia dalle ragionevoli conclusioni contenute nella perizia e nelle consulenze di parte, sia da tutte le dichiarazioni dibattimentali rese sul punto dal perito, dai consulenti e da tutti i testi.
La diversa conclusione della sentenza è stata indotta da una valutazione parziale e sommaria della rappresentazione dello stato dei luoghi, dettagliatamente offerta dalle conoscenze acquisite all’esito dell’istruzione di primo grado.
In sostanza, si sostiene, la motivazione è viziata dalla omessa valutazione ovvero dal travisamento di taluni dati probatori decisivi. L’ipotesi avvalorata dalla Corte d’appello è basata sui rilievi di irregolare mancanza di rami su una pianta vicina a quella caduta su S.R., l’esistenza di spazi modesti tra le varie piante sull’area dell’infortunio.
La Corte territoriale ha valorizzato il dato dello scortecciamento della pianta ed eludendo completamente diverse evidenze oggettive. Ma l’ipotesi ricostruttiva della Corte del merito è originata da un evidente travisamento probatorio alla luce delle dichiarazioni rese in corso di incidente probatorio dal perito S. secondo il quale i dati oggettivi sono chiaramente incompatibili con l’ipotesi che l’incidente sia stato provocato dalla improvvisa caduta di un albero precedentemente tagliato e rimasto appoggiato ad altro. In tal senso sono anche le conclusioni del perito del P.M. dott. P., confortate anche dal perito di parte S..
In definitiva, il Giudice di seconde cure si è limitato a trasferire nel discorso giustificativo della decisione talune conclusioni puramente dichiarative della relazioni di perizia realizzata in sede di incidente probatorio.
Dunque, dovendosi accreditare per quanto evidenziato, l’ipotesi fatta propria dal Tribunale, l’evento letale verificatosi non costituisce affatto concretizzazione del rischio asseritamente creato dalle violazioni cautelari contestate alla M.A., essendosi determinato in conseguenza del fatto che l’altro imputato aveva eseguito il taglio dell’albero senza assicurarsi che nell’area circostante non vi fossero altre persone, secondo le distanze stabilite dalle pratiche diffuse in materia. L’esecuzione corretta della tecnica di taglio non assume rilevanza giacché l’erroneo svolgimento non ha determinato il rischio concretizzatosi nell’evento mortale, né ha concorso ad aumentarlo. La “tacca direzionale” e la “cerniera” rappresentano una tecnica che non è finalizzata a salvaguardare terze persone presenti nell’area, poiché non è evidentemente idonea a prevenire il rischio che queste ultime vengano colpite dall’albero abbattuto: la funzione cautelare della descritta modalità di taglio si esaurisce nella sola protezione dell’operatore, il quale si trova necessariamente nella zona di pericolo, cioè di caduta dell’albero. Si argomenta che è altamente probabile che se questa regola cautelare fosse stata osservata da S.V. l’evento de quo non si sarebbe verificato; mentre, non può affermarsi, in termini di elevata probabilità, che l’infortunio occorso al fratello dell’imputato non si sarebbe determinato se il taglio dell’abete fosse stato eseguito correttamente. Sul punto né la motivazione della decisione del Tribunale, né quella della decisione della Corte d’appello hanno evidenziato dati o circostanze di fatto idonei a fondare, in termini di ragionevolezza, la conclusione che la corretta esecuzione del taglio .avrebbe nel caso di specie impedito l’evento o reso altamente improbabile la sua verificazione .
Si adduce che la Corte del merito ha pretermesso una circostanza riferita dal fratello della vittima e cioè che questa per il rumore della motosega con cui stava operando che era in moto e per le cuffie sugli orecchi non poteva sentire alcun avvertimento, per cui si rileva che è altamente improbabile, secondo l’esperienza comune, che la p.o., nelle dette condizioni, si sarebbe potuta avvedere della caduta dell’abete nella sua esatta direzione, evitando l’impatto, se la pianta fosse precipitata con una minore velocità.
Inoltre, si rappresenta che la motivazione del giudizio di responsabilità della ricorrente è censurabile laddove esclude apoditticamente che il S.V. fosse a conoscenza della regola di condotta che impone il rispetto della distanza di sicurezza. La sentenza impugnata avrebbe dovuto superare l’obiezione dell’appellante evidenziando dati o circostanze idonee ad escludere che il fratello della vittima fosse consapevole di tale regola di prevenzione. Per altro, il rischio era riconoscibile da chiunque non essendo specifico indipendentemente da una formazione da parte del datore di lavoro.
2.2 Con il secondo motivo si denuncia violazione di legge in relazione alla ritenuta sussistenza delle violazioni delle regole cautelari ex art. 43 e 589 cod. pen. da parte del datore di lavoro.
2.2.1 Con riguardo ad uno dei profili di colpa addebitati all’imputata, vale a dire alla ritenuta genericità del documento di valutazione dei rischi predisposto dal datore di lavoro, sulla base dell’adesione alle valutazioni sul punto del consulente S., si sottolinea che la M.A. non era in alcun dubbio obbligata ex lege a redigere tale documento poiché al tempo del tragico infortunio ella aveva soltanto cinque dipendenti assunti regolarmente, il che significa che la M.A. rientrava in quella particolare categoria di datori di lavoro esentati dall’art. 4 comma 11 d.Lgs 626/94, in vigore all’epoca dei fatti, a redigere il DVR, ma era unicamente tenuta ad effettuare una autocertificazione della valutazione dei rischi e un adempimento degli obblighi ad essa correlati. Per cui, sulla base di tale considerazione, è del tutto erroneo attribuire un coefficiente di colpa specifica alla condotta della ricorrente sulla base della genericità di un documento che quella particolare categoria di datore di lavoro non è tenuto a redigere, sviluppare e conservare.
2.2.2. Quanto all’altro profilo di colpa addebitato alla M.A., consistito nella mancata formazione ed informazione dei dipendenti sui rischi specifici derivanti dal taglio di alberi, si rileva altro vizio della motivazione per contraddittorietà. Si è dimostrato che gli obblighi di informazione del datore di lavoro furono assolti, ma anche nel caso in cui si volesse ritenere il contrario, non si potrebbe fondatamente ritenere la sussistenza di un nesso eziologico fra l’omissione colposa ed il decesso del lavoratore. Per prima cosa, trattandosi di rischio non preciso, è la stessa giurisprudenza di legittimità ad affermare che in tal caso ricorre l’affidamento del datore di lavoro sul comportamento diligente del lavoratore.
Quanto alla contestata culpa in vigilando, parimenti la Corte fiorentina è caduta in errore essendo sufficiente fare corretta applicazione dei principi espressi dalla Corte di legittimità con riferimento ai rapporti tra datore di lavoro e delegato alla sicurezza, sulla base dei quali si può affermare che, in materia di infortuni sul lavoro, l’obbligo di prevenzione, assicurazione e sorveglianza del datore di lavoro non impongono al datore il controllo momento per momento delle modalità di svolgimento delle lavorazioni.

Diritto

3. I motivi posti a base del ricorso, il primo dei quali non consentito in questa sede di legittimità, sono, comunque, infondati e ne determinano il rigetto.
3.1 Con il primo motivo, infatti, si è denunciata la contraddittorietà motivazionale della sentenza impugnata laddove, sebbene si sia evidenziato che non è stata accertata l’effettiva dinamica dell’Incidente letale, potendo ravvisarsi una ricostruzione diversa da quella prospettata dal Tribunale, la circostanza è stata ritenuta dalla Corte d’appello del tutto indifferente in ordine all’accertamento della responsabilità dell’imputata. Si è obiettato dalla Difesa che, in generale, l’accertamento della concretizzazione del rischio, oggetto della regola di cautela violata, deve presupporre la preventiva ricostruzione della dinamica dell’incidente, senza la quale è arbitrario collegare la condotta dell’imputato al verificarsi dell’evento.
Questa Corte, con diverse pronunce (Sez. 4, Sentenza n. 2650 del 31/01/1995 Ud. Rv. 201422) ha affermato il principio che, in tema di causalità, qualora siano prospettabili diverse ipotesi alternative in ordine alla ricostruzione del processo causale dell’evento, non è censurabile la sentenza che affermi la sussistenza del nesso causale tra la condotta e l’evento e con essa la responsabilità dell’imputato, senza precisare quale tra esse si sia realmente verificata, qualora identiche siano le conseguenze giuridiche dall’una e dall’altra derivanti. Ed ancora (Sez. 4 Sentenza n. 988 dell’11.07.2002, Rv. 227002), la dipendenza di un evento da una determinata condotta deve essere affermata anche quando le prove raccolte non chiariscano ogni passaggio della concatenazione causale, e possano essere configurate sequenze alternative di produzione dell’evento, purché ciascuna tra esse sia riconducibile all’agente e possa essere esclusa l’incidenza di meccanismi eziologici indipendenti.
La sentenza impugnata, sulla scorta di un’approfondita analisi degli elementi probatori raccolti e delle relazioni peritali in atti, ha optato per una ricostruzione della dinamica dell’infortunio sul lavoro de quo in parte diversa, sia pure per un particolare, da quella prospettata dal Tribunale. E’ da rilevare, che io scenario in cui si è verificato l’infortunio non è certamente mutato all’esito di quanto ritenuto in fatto dalla Corte territoriale: affermare che la persona offesa sia stata colpita dalla caduta diretta di un albero (quello tagliato dal fratello) o dalla caduta dello stesso albero, rimasto impigliato nelle chiome degli altri alberi, in precedenza tagliato dalla medesima persona offesa, non viene ad eliminare la responsabilità della ricorrente per l’inadempimento dell’obbligo di predisposizione delle misure cautelari antinfortunistiche, come dettagliatamente indicate nel capo d’imputazione, la cui carenza è emersa, in tutta la sua evidenza, all’esito dell’istruttoria dibattimentale, ed ha determinato l’evento letale, comunque, indipendentemente dalle due diverse ipotesi di caduta dell’albero. Sia nell’uno che nell’altro caso, se fossero state adottate, l’infortunio non si sarebbe verificato.
Non va dimenticato che l’individualizzazione della responsabilità penale impone di verificare non soltanto se la condotta abbia concorso a determinare l’evento, ciò che si risolve nell’accertamento della sussistenza del “nesso causale”, e se la condotta sia stata caratterizzata dalla violazione di una regola cautelare (generica o specifica), ciò che si risolve nell’accertamento dell’elemento soggettivo della “colpa”, ma anche se l’autore della stessa, il titolare della posizione di garanzia in ordine al rispetto della normativa precauzionale che si ipotizzi produttiva di evento lesivo mortale, potesse “prevedere” ex ante quello “specifico” sviluppo causale ed attivarsi per evitarlo. In quest’ottica ricostruttiva, occorre poi ancora chiedersi se una condotta appropriata (il cosiddetto comportamento alternativo lecito) avrebbe o no “evitato” l’evento: ciò in quanto si può formalizzare l’addebito solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l’esito antigiuridico o anche solo avrebbe determinato apprezzabili, significative probabilità di scongiurare il danno (cfr. Sezione 4^, 6 novembre 2009, Morelli).
Ciò ha fatto il giudice di appello, il quale, rappresentandosi la condotta legale richiesta alla ricorrente, in ragione della sua posizione di garanzia, per la qualità di datore di lavoro, ha evidenziato come, sia ritenendo l’una o l’altra ricostruzione della caduta dell’albero, la mancata sua attuazione ha comunque determinato l’evento; come pure l’adozione di quelle misure, in base ad un giudizio controfattuale, di probabilità logica lo avrebbe evitato.
Si tratta di conclusione che è esaustivamente risolutiva del tema processuale in punto di responsabilità ed è in linea con la giurisprudenza di questa Corte in tema di nesso di causalità, secondo la quale, in tema di reato colposo omissivo improprio, quando non vi sia alcun ragionevole dubbio circa la sussistenza del nesso causale tra condotta ed evento, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell’omissione dell’agente rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, l’esito del giudizio non può essere che quello dell’affermazione di responsabilità dell’imputato. Ciò che rileva è la necessità della individuazione del nesso di causalità in termini di certezza processuale, la valutazione dei dati fattuali impone, infatti, che, nella ricostruzione del nesso eziologico, non può assolutamente prescindersi dall’individuazione degli elementi necessari concernenti la causa dell’evento: solo conoscendo tali elementi è poi possibile analizzare la condotta omissiva colposa addebitata al titolare della posizione di garanzia per effettuare il giudizio controfattuale e verificare, avvalendosi delle leggi statistiche o scientifiche e delle massime di esperienza che si attaglino al caso concreto, se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta (ma omessa), l’evento lesivo “al di là di ogni ragionevole dubbio” sarebbe stato evitato. In altri termini, la condanna al là di ogni ragionevole dubbio implica, in caso di prospettazione di un’alternativa ricostruzione dei fatti, che siano individuati gli elementi di conferma dell’ipotesi ricostruttiva accolta, in modo da far risultare la non razionalità del dubbio derivante dalla stessa ipotesi alternativa. Nel caso in esame, i giudici del gravame di merito, una volta individuata la condotta ritenuta doverosa dall’imputata, tra cui anche quella relativa alla previsione (con la conseguente adozione delle relative misure prevenzionali) dei rischi connessi alla presenza di piante impigliate o sospese, così come specificamente contestato nel capo di imputazione (di tal che viene meno qualsiasi obiezione circa la violazione della disposizione di cui all’alt. 521 c.p.p.), hanno condivisibilmente collegato la condotta omissiva alla causazione dell’evento letale.
Ed hanno logicamente e correttamente affermato, come sopra evidenziato, che non è possibile ritenere fondata la prospettazione difensiva perché, pur in presenza di una diversa modalità di caduta dell’albero (rispetto a quella ritenuta dal Tribunale), è stata acquisita la prova che: a) i due lavoratori non erano in possesso dell’attrezzatura idonea per eseguire in sicurezza l’abbattimento degli abeti di grandi dimensioni e posti a poca distanza l’uno dall’altro, con conseguente difficoltà di farli cadere a terra evitando che si impigliassero gli uni con gli altri; b) mancavano corde, verricelli e mezzi meccanici necessari per l’atterramento delle piante sospese, che, inevitabilmente (previsione del rischio) costringevano i due lavoratori, per continuare il lavoro, ad esporsi al pericolo di una improvvisa caduta delle piante stesse; c) non era stata attuata una formazione dei lavoratori dipendenti per quella specifica attività lavorativa.
La condanna al là di ogni ragionevole dubbio implica, infatti, in caso di prospettazione di un’alternativa ricostruzione dei fatti (che per altro nel caso in esame è marginale atteso che quella ritenuta dalla Corte distrettuale è stata formalmente contestata), che siano individuati gli elementi di conferma dell’ipotesi ricostruttiva accolta, in modo da far risultare la non razionalità del dubbio derivante dalla stessa ipotesi alternativa, con la precisazione che il dubbio ragionevole non può fondarsi su un’ipotesi alternativa del tutto congetturale seppure plausibile (v. sentenza Sezione 1^, 21 maggio 2008, Franzoni, rv. 240673; anche Sezione 4 12 novembre 2009, Durante, rv. 245879).
Il compito della Corte di Cassazione, quando viene dedotta la violazione del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, è limitato a prendere atto di quanto accertato dal giudice di merito e a valutare se appaia logicamente motivato nella sentenza il raggiungimento dello standard probatorio sopra ricordato. Non si può, invero, trascurare che la selezione e la valutazione delle prove spetta in via esclusiva al giudice del merito, anche perché non c’è nessuna prova che abbia un significato isolato, slegato o disancorato dal contesto in cui è inserita e solo il giudice di merito può apprezzarne la valenza attraverso la valutazione complessiva di tutto il materiale probatorio; con la conseguenza che persiste per la Corte di Cassazione, nonostante le modificazioni introdotte dalla L. n. 46 del 2006, all’art. 606 c.p.p., il divieto di accesso agli atti istruttori, quanto meno nel senso che la Corte di legittimità non potrebbe mai esaminare i singoli atti in modo separato ed atomistico, restando pur sempre il giudizio di cassazione un giudizio di sindacato sulla tenuta della motivazione, cui è preclusa la pure e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma deduzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti; preferiti a quelli adottati dal giudice di merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa (v. in questo senso, Sezione 1A, 11 maggio 2006, Ganci ed altro, rv. 234111).
Nel caso in esame, i giudici del merito, rimasta acquisita, per quanto sopra esposto, una insuperabile certezza sulla ricorrenza della incidentalità causale tra le omissioni contestate e l’evento letale, hanno incensurabilmente ritenuto che sussista la prova sufficiente idonea a superare il ragionevole dubbio.
3.2 Il secondo motivo è altresì infondato.
Ciò che rileva, indipendentemente dall’obbligo legale di redigere il documento di valutazione dei rischi (DVR), è che il rischio di cui trattasi non è stato assolutamente previsto; neanche da quella autocertificazione cui fa riferimento la M.A.. Tale documento, analizzato dal perito S., risultava essere “carente in molti suoi aspetti” infatti non analizza elementi fondamentali delle operazioni di taglio e di esbosco. Fra gli elementi non presi in considerazione, e che risulta subito evidente, c’è la valutazione del rischio specifico di intercettazione delle piante in caduta da parte di altre piante. Dall’analisi di tale rischio potevano scaturire misure organizzative del cantiere tali da prevenire e gestire eventuali criticità”.
In definitiva, come rileva la Corte fiorentina, non esistevano tassative prescrizioni in materia di sicurezza che fossero state imposte dal datore di lavoro e alla cui costante osservanza i lavoratori fossero stati debitamente addestrati.
Sul punto la Difesa della ricorrente rileva la carenza di motivazione non essendo stato verificato in concreto se tale asserita genericità di valutazione del rischio abbia contribuito casualmente al determinarsi dell’evento, così come richiede la giurisprudenza di legittimità, secondo cui il giudizio di inidoneità della valutazione dei rischi si deve confrontare con un rigoroso obbligo motivazionale. La stessa giurisprudenza, continua la Difesa, ha, poi, escluso ogni automatismo tra l’accertata violazione e l’evento dannoso verificatosi. Il rapporto di causalità tra la condotta dei responsabili della normativa antinfortunistica e l’evento lesivo non può essere desunto dalla mera omissione della previsione nel documento di valutazione dei rischi, dovendo tale rapporto essere accertato in concreto, rapportando gli effetti dell’omissione all’evento che si è verificato. Tra l’altro, si rappresenta che la ricorrente, proprio al fine di valutare correttamente la presenza di rischi, è ricorsa all’ausilio di una società accreditata di Siena, la Prassi s.r.l., che ha sviluppato il documento, ricorrendo, quindi, ai fini dell’esonero da responsabilità, il principio dell’affidamento nell’altrui condotta.
Orbene, la censura, sebbene condivisibile in diritto, non coglie nel segno avendo la Corte del merito collegato, in riferimento a quello specifico rischio, come ampiamente illustrato, la condotta della ricorrente alla causazione dell’evento. Per altro, per completezza di motivazione, per fugare ogni dubbio sulla rilevanza degli inadempimenti contestati alla ricorrente, quale titolare della posizione di garanzia, ha anche analizzato tale profilo tenendo conto della ricostruzione delle modalità dell’infortunio ritenuta dal Tribunale, escludendo, comunque, che l’evento si sarebbe verificato, così come sostenuto con l’appello, per errore del S.V., non potendo tale errore, per i giudici del secondo grado, essere ritenuto imprevedibile. Errore che, invece, trova la sua essenziale spiegazione nel difetto di formazione dei lavoratori e di organizzazione del cantiere.
Quanto poi al dedotto principio dell’affidamento, quale esonero da responsabilità, la ricorrente dimentica che il datore di lavoro è l’unico destinatario degli obblighi prevenzionali e, quand’anche abbia delegato ad altri la stesura del documento di valutazione dei rischi, non di meno è tenuto, nel momento della sua attuazione, a
verificarne la completezza e l’efficacia, adempimento che la M.A. non ha svolto, attesa l’evidente inadeguatezza del documento, come prima evidenziato.
3.4 Per il ricorrente altro errore della sentenza è quello che si riflette sull’omessa rilevanza del grado di incidenza da attribuire alla comprovata esperienza dei fratelli S. nell’attività di boscaioli, laddove si evidenzia una palese contraddittorietà nel riconoscere che, sebbene esperti, la tecnica di taglio derivava dalla loro carriera di boscaioli nel paese di origine. Ciò che emerge che entrambi i fratelli erano boscaioli di esperienza già prima di essere assunti dalla ricorrente, erano boscaioli di esperienza pluriennale nel disboscamento di alberi di alto fusto, per cui non è neanche ravvisabile a carico della M.A. una culpa in eligendo.
La giurisprudenza di questa Corte ha tratteggiato i contorni ed i contenuti dell’obbligo di formazione gravante sul datore di lavoro in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro. Questi ha l’obbligo di assicurare ai lavoratori una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro ed alle proprie mansioni, in maniera tale da renderlo edotto sui rischi inerenti ai lavori a cui è addetto (cfr. Sez. 3A, sent. n. 4063 del 04/10/2007, Rv. 238540; Sez. 4A, sent. n.41997 del 16/11/2006, Rv. 235679. A ciò va aggiunto che il D.Lgs. n. 626 del 1994, al quale occorre fare riferimento ratione temporis, all’art. 3, comma 1 lett. s) poneva la “informazione, formazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori ovvero dei loro rappresentanti, sulle questioni riguardanti la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro” tra le misure generali di tutela, distinguendole peraltro dalla diversa ed ulteriore misura generale costituita dalle “istruzioni adeguate ai lavoratori” D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 3, comma 1, lett. t); similmente il D.Lgs. n. 81 del 2008, all’art. 15, comma 1, lett. da n) a q). Gli artt. 21 e 22 del citato decreto prevedevano e definivano i contenuti degli obblighi di informazione e di formazione, intesi quindi come attività ed obiettivi distinti. In particolare, per quel che qui più interessa, dell’attività di formazione veniva scandito: a) l’oggetto, dovendo aver attinenza specifica al posto di lavoro e alle mansioni assegnate al lavoratore; b) la temporalità, essendo evidenziati per la sua somministrazione i momenti dell’assunzione, del trasferimento o cambio di mansioni, dell’introduzione di nuove attrezzature di lavoro o di nuove tecnologie, di nuove sostanze e preparati pericolosi, nonché la modifica per evoluzione o per innovazione del quadro dei rischi; c) il coinvolgimento degli organismi paritetici previsti dall’art. 20 (ancora più dettagliato e portatore di limitazioni alle scelte datoriali, quanto a contenuti e modalità di somministrazione dell’attività di formazione, è il D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 37). Già questo breve tratteggio del profilo normativo dell’attività di formazione che il datore di lavoro deve assicurare permette di evidenziare il seguente principio: “in tema di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, l’attività di formazione del lavoratore, alla quale è tenuto il datore di lavoro, non è esclusa dal personale bagaglio di conoscenze del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenze che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro. L’apprendimento insorgente da fatto del lavoratore medesimo e la socializzazione delle esperienze e delle prassi di lavoro non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e di formazione legislativamente previste, le quali vanno compiute nella cornice formalizzata prevista dalla legge”. Ne consegue, che la prova dell’assolvimento degli obblighi di informazione e di formazione del lavoratore non può ritenersi data dalla dedotta circostanza che i due fratelli S. avevano pregresse esperienze per avere esercitato l’attività di taglio di alberi di alto fusto nel loro paese d’origine.
Ne deriva la correttezza della decisione qui impugnata.
3. 4. Da ultimo, quanto alle censure relative alla contestata culpa in vigilando la richiamata giurisprudenza non si attaglia al caso di specie (V. parte narrativa) atteso che è rimasto provato che l’azienda non aveva predisposto alcuna attività di vigilanza sul cantiere, e per alcuni giorni i due lavoratori hanno operato in condizioni di insicurezza, visto che il lavoro proseguiva nella stessa area in cui numerose piante erano rimaste “sospese”, con grave pericolo di caduta, e che tutte le piante erano state tagliate senza una corretta tecnica operativa, e senza il controllo da parte dell’Impresa. Mancava una qualsiasi predisposizione, diretta o indiretta (delegata) del controllo delle attività che si stavano svolgendo e di come si stessero svolgendo.
4. Segue al rigetto, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., non emergendo ragioni di esonero e alla rifusione in favore della costituita parte civile delle spese processuali da essa sostenute, che si liquidano come da dispositivo, che si liquidano “ex actis” in mancanza del deposito della nota spese.

P.Q.M.

Rigetta il ricorre condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali , nonché a rimborsare la parte civile le spese sostenute per questo giudizio che liquida “ex actis” in complessivi € 2.500,00 oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma all’udienza dell’11 febbraio 2016.

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