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La Responsabilità sociale è economicamente sostenibile e vantaggiosa o un fiore all’occhiello?

L’Unione Europea ha definito la Responsabilità Sociale d’Impresa come una azione volontaria, ovvero come:

integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate.

Dai tempi  di  Adam  Smith,  il  tema  dello scopo  e  del ruolo  dell’impresa  all’interno  del sistema  economico  e  sociale è oggetto, come è noto, di costante  dibattito. Oggi, però, a fronte dell’interazione tra “sviluppo economico globale” e  “sfide sociali globali” che ha portato a sensibili mutamenti nelle aspettative della società circa il ruolo e le responsabilità dell’impresa nella società stessa, si rivela come sempre più importante giungere ad una ridefinizione  dello scopo dell’impresa  (Post et al.,  2002), con particolare riferimento all’esame dei mezzi  attraverso i quali i   benefici derivanti dall’attività imprenditoriale dovrebbero essere generati e dei criteri da impiegare per la loro distribuzione.

Il tema non è nuovo e si porta dietro un altro tema quello dell’etica negli affari che pure ha raggiunto oggi una nuova e più forte centralità.

Le ricerche, il dibattito e le azioni si muovono lungo due percorsi segnati da due studiosi quasi omonimi. Da una parte la Teoria degli shareholder che venne elaborata nel 1970 dal Nobel per l’economia Milton Friedman. Un’ approccio economico, quest’ultimo, che individua negli interessi degli azionisti la traccia portante della politica aziendale secondo il famoso detto “business of business is business!”. L’altro portato avanti da Robert Edward Freeman nel suo saggio Strategic Management: a Stakeholder Approach apparso nel 1984 in cui illustra la teoria degli stakeholder. Teoria per la quale l’attività di un’organizzazione aziendale deve garantire un minimum prestazionale a tutti i portatori di interesse (‘stakeholders‘, quali gli azionisti, i clienti, i dipendenti, i fornitori, la comunità entro la quale l’organizzazione interagisce), i quali, in mancanza di detta prestazione minima, abbandonano l’azienda, rendendo di fatto impossibile la continuazione dell’attività. In sostanza la priorità degli interessi degli azionisti contro la priorità degli interessi della collettività (compresi ovviamente gli azionisti).

Indubbiamente, nell’attuale contesto produttivo, la consapevolezza dei produttori e dei consumatori, circa la centralità di tali aspetti nelle dinamiche competitive e la “tracciabilità storica” della catena dei processi, stanno guadagnando interesse. Risulta pertanto evidente come l’impegno “etico” di un’impresa sia entrato direttamente nella cosiddetta catena del valore prospettando così l’utilizzo di nuovi percorsi e leve competitive coerenti con uno “sviluppo sostenibile” per la collettività. Come scriveva già, oltre cinquant’anni fa, l’economista italiano Gino Zappa, all’interno del mercato globale e locale, le imprese non hanno, infatti, un’esistenza a sé stante, ma sono enti che vivono e agiscono in un tessuto sociale che comprende vari soggetti, tra cui spicca sicuramente una società civile molto attenta all’operato imprenditoriale.

Dalle teorie si è passati ai documenti internazionali ed europei, come il già citato documento della UE, e quindi ai passi concreti. Uno di questi, il più noto, è la norma SA 8000 emanata dalla Social Accountability International (SAI), organizzazione internazionale nata nel 1997, con il fine di assicurare nelle aziende condizioni di lavoro che rispettino la responsabilità sociale, un approvvigionamento giusto di risorse ed un processo indipendente di controllo per la tutela dei lavoratori. Lo standard SA 8000 (Social Accountability ovvero Rendiconto Sociale) è oggi lo standard più diffuso a livello mondiale per la responsabilità sociale di un’azienda ed è applicabile ad aziende di qualsiasi settore, per valutare il rispetto da parte delle imprese ai requisiti minimi in termini di diritti umani e sociali. Successivamente si sono fatti altri passi.

Dal 26 al 30 settembre 2005 si svolse a Bangkok la seconda riunione del gruppo ISO sulla Responsabilità sociale delle imprese (Working Group Social Responsibility), nel corso della quale sono stati fatti notevoli progressi verso una nuova norma sulla responsabilità sociale: la ISO 26000, la cui pubblicazione definitiva è avvenuta a novembre del 2010. La futura norma rappresenta anche una risposta all’istanza presentata dal Comitato economico e sociale europeo (CESE) riguardo gli “strumenti di misura e di informazione sulla responsabilità sociale delle imprese in un’economia globalizzata” dove si ribadisce che la responsabilità sociale delle imprese dovrà divenire una forza di impulso nel quadro di una strategia planetaria sullo sviluppo sostenibile.

Nella figura trovate l’illustrazione della struttura della Iso 26000.

iso-26000

Nel 2013 la UNI e la Fondazione Sodalitas hanno progettato e realizzato la ricerca UNI ISO 26000: la responsabilità sociale in concreto, condotta su un campione di aziende ed organizzazioni che hanno a vario titolo adottato la norma per capirne la praticità e le difficoltà incontrate nella sua applicazione. I risultati della ricerca sono stati presentati il 30 gennaio 2014 nel  corso  dell’evento Misurare per migliorare. UNI ISO 26000: approcci ed esperienze a confronto.

L’interesse sollevato ha portato alla formazione di tre gruppi di lavoro e quindi proprio recentemente e cioè il 29 Aprile di quest’anno, alla pubblicazione dell’UNI/PdR 18:2016 che ha come obbiettivo quello di fornire una serie di  elementi a supporto dell’applicazione della UNI ISO 26000, con particolare attenzione agli aspetti della materialità (materiality), della responsabilità di rendere conto (accountability) e del coinvolgimento dei  portatori di interesse  (stakeholder engagement). In essa sono delineate delle soluzioni operative applicabili a diverse tipologie di organizzazioni e sono forniti alcuni esempi pratici relativi alle fasi di applicazione di una governance della responsabilità sociale.

Un’ultima cosa: se si sceglie la strada della strutturazione della propria azienda in funzione del raggiungimento del traguardo della Responsabilità Sociale, lo si faccia convinti dalla necessità e della praticabilità di questa impostazione. Non è infatti un mistero che alcune aziende vengano accusate di agire strumentalmente per compiacere cittadini e stakeholders al fine di riceverne in cambio un buon ritorno di immagine. Queste scelte politiche opportunistiche, come hanno dimostrato diverse esperienze, hanno le gambe corte e alla fine si rischia di rovinare irrimediabilmente quell’immagine che si è cercato di migliorare. Insomma: “astenersi perditempo”.

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