Responsabilità dei titolari e soci amministratori di una azienda agricola per aver omesso di fornire al lavoratore le cinture di sicurezza per eseguire lavori a 3,50 metri di altezza dal suolo senza parapetti e protezioni e senza averlo informato previamente dei rischi.
I ricorrenti affermano che non sia possibile addebitare la responsabilità per i prodotti immessi in commercio, da cui scaturisca un danno alla collettività, a chi si sia limitato ad acquistare un bene per il quale sia stata rilasciata una certificazione di conformità alle norme UNI EN ISO 9001.
Questa Corte Suprema ha avuto modo di precisare che le disposizioni che hanno dato attuazione alle cosiddette dell’Unione Europea (d.P.R. 24 luglio 1996, n. 459 ), pur indicando le prescrizioni di sicurezza necessarie per ottenere il certificato di conformità e il marchio CE richiesti per immettere il prodotto nel mercato, non escludono ulteriori profili in cui si possa sostanziare il complessivo dovere di garanzia di coloro che pongono in uso il macchinario nei confronti dei lavoratori, che sono i diretti utilizzatori delle macchine stesse, non potendo costituire motivo di esonero della responsabilità del costruttore quello di aver ottenuto la certificazione e di aver rispettato le prescrizioni a tal fine necessarie. È stato anche chiarito che l’obbligo di aggiornamento previsto a carico del datore di lavoro dall’art.4, comma 5, lett.b) d. lgs. 19 settembre 1994, n.626 (ora art.18, comma 1, lett.z), d.lgs. 9 aprile 2008, n.81) va valutato in relazione al generale obbligo incombente sul datore di lavoro di adottare le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori; quest’ultimo è, infatti, un obbligo assoluto che non consente, anche in considerazione del rigoroso sistema prevenzionistico introdotto dal citato decreto legislativo, la permanenza di macchinari pericolosi per la sicurezza e la salute dei lavoratori.
Presidente: BIANCHI LUISA
Relatore: SERRAO EUGENIA
Data Udienza: 10/05/2016
Fatto
1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Appello di Catania ha confermato la condanna pronunciata dal Tribunale di Ragusa – Sezione Distaccata di Vittoria nei confronti di A.S. e di A.A., imputati del reato previsto dagli artt.113 e 590 cod. pen. per avere cagionato al lavoratore M.S. lesioni personali gravissime consistite in paraplegia in soggetto con esiti di frattura dislocazione D10-D11 giudicati guaribili in più di 172 giorni, in cooperazione colposa tra loro, in qualità di titolari e soci amministratori dell’azienda agricola F.lli A. e S. & A.S.S., per colpa consistita in imprudenza, negligenza, imperizia ed in violazione della normativa per la prevenzione degli infortuni sul lavoro ed in particolare dell’art. 10 d.P.R. 7 gennaio 1956, n.164 e dell’art. 36 quinquies d. Lgs. n.626/94, omettendo di fornire al lavoratore le cinture di sicurezza per eseguire lavori a 3,50 metri di altezza dal suolo senza parapetti e protezioni e senza averlo informato previamente dei rischi.
2. A.S. ed A.A. propongono ricorso per cassazione censurando la sentenza impugnata per i seguenti motivi:
a) travisamento della prova; secondo i ricorrenti, la sentenza impugnata non avrebbe tenuto in considerazione gli esiti della consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero, dalla quale era emerso sia che l’art. 36 quinquies d. lgs. n.626/1994 non potesse trovare applicazione al caso concreto, sia l’impossibilità di utilizzare misure alternative in quanto la assonometria degli impianti serricoli non consente la predisposizione di alcun genere di aggancio;
b) violazione di legge per erronea individuazione del responsabile dell’illecito; i ricorrenti deducono che non sia possibile addebitare la responsabilità per i prodotti immessi in commercio, da cui scaturisca un danno alla collettività, a chi si sia limitato ad acquistare un bene per il quale sia stata rilasciata una certificazione di conformità alle norme UNI EN ISO 9001.
Diritto
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
1.1. Nel capo d’imputazione, la colpa specifica contestata agli imputati è stata correlata, oltre che alla violazione dell’art. 36 quinquies d. Lgs. n.626/94, anche alla norma cautelare dettata dall’art. 10 d.P.R. n. 164/56, a mente della quale ed i giudici di merito hanno accertato che, nel caso concreto, il lavoratore non fosse dotato di alcun dispositivo di sicurezza.
1.2. In replica ad analoga censura sviluppata nell’atto di gravame, la Corte territoriale aveva sottolineato come il consulente tecnico del pubblico ministero avesse confermato la possibilità di adottare opportuni presidi di sicurezza, richiamando le dichiarazioni verbalizzate all’udienza del 5 giugno 2008 ma, lungi dal confrontarsi con tale motivazione, il ricorso è meramente reiterativo delle censure già sottoposte all’esame della Corte di Appello e si limita a richiamare alcune considerazioni del consulente tecnico, asseritamente trascurate dai giudici di merito, senza spiegarne il ruolo dirimente e senza indicare l’atto del processo in cui esse sarebbero rinvenibili.
2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile in quanto la censura riguarda una questione non sottoposta al giudice di appello. E secondo quanto, anche recentemente, affermato da questa Suprema Corte, la regola ricavabile dal combinato disposto degli artt.606, comma 3, e 609, comma 2, cod. proc. pen., dispone che non possano essere dedotte in cassazione questioni non prospettate nei motivi di appello, a meno che si tratti di questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio o di questioni che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello. Si richiamano, sul punto, i principi espressi da (Sez. 5, n.28514 del 23/04/2013, Grazioli Gauthier, Rv. 255577; Sez.4, n.10611 del 4/12/2012, dep. 2013, Bonaffini, Rv.256631; Sez.2, n.40240 del 22/11/2006, Roccetti, Rv.235504; Sez.l, n.2176 del 20/12/1993, dep. 1994, Etzi, Rv.196414).
Giova, in ogni caso, ricordare, in linea di principio, che questa Corte Suprema ha avuto modo di precisare che le disposizioni che hanno dato attuazione alle cosiddette dell’Unione Europea (d.P.R. 24 luglio 1996, n. 459, cosiddetta , che ha disciplinato i presidi antinfortunistici concernenti le macchine e i componenti di sicurezza immessi sul mercato denominata Regolamento per l’attuazione delle direttive 89/392/CEE, 91/368/CEE, 93/44/CEE e 93/68/CEE concernenti il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alle macchine), pur indicando le prescrizioni di sicurezza necessarie per ottenere il certificato di conformità e il marchio CE richiesti per immettere il prodotto nel mercato, non escludono ulteriori profili in cui si possa sostanziare il complessivo dovere di garanzia di coloro che pongono in uso il macchinario nei confronti dei lavoratori, che sono i diretti utilizzatori delle macchine stesse, non potendo costituire motivo di esonero della responsabilità del costruttore quello di aver ottenuto la certificazione e di aver rispettato le prescrizioni a tal fine necessarie. È stato anche chiarito che l’obbligo di aggiornamento previsto a carico del datore di lavoro dall’art.4, comma 5, lett.b) d. lgs. 19 settembre 1994, n.626 (ora art.18, comma 1, lett.z), d.lgs. 9 aprile 2008, n.81) va valutato in relazione al generale obbligo incombente sul datore di lavoro di adottare le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori; quest’ultimo è, infatti, un obbligo assoluto che non consente, anche in considerazione del rigoroso sistema prevenzionistico introdotto dal citato decreto legislativo, la permanenza di macchinari pericolosi per la sicurezza e la salute dei lavoratori (Sez.3, n.47234 del 4/11/2005, Carosella, Rv. 233191).
3. Alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.