Repertorio Salute

Cassazione Penale, Sez. 4, 04 luglio 2016, n. 27165

Lavori per la realizzazione del Lotto 13 della variante di valico della autostrada A1 Firenze-Bologna. Infortuni mortali per il cedimento durante la fase di ancoraggio. Ruolo di un CSE.


Presidente: IZZO FAUSTO
Relatore: PEZZELLA VINCENZO
Data Udienza: 24/05/2016

Fatto

1. La Corte d’Appello di Firenze, con sentenza del 29.1.2015, in parziale riforma della sentenza del GUP del Tribunale di Firenze del 9.3.2010, appellata da B.B., concesse all’imputata le circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti all’aggravante ex art. 589 co. 2 cod. pen. contestatale, rideterminava la pena in anni uno e mesi due di reclusione, revocando le statuizioni civili e confermando la sentenza appellata nel resto.
Il G.U.P. fiorentino aveva dichiarato in primo grado, all’esito di giudizio abbreviato, B.B. colpevole del reato di omicidio colposo plurimo a lei ascritto in rubrica e l’aveva condannata, con la diminuente del rito, alla pena di due anni di reclusione, pena della quale aveva disposto la sospensione condizionale. Erano anche state disposte le statuizioni civili, come indicate in sentenza.
L’imputazione vedeva la B.B. rinviata a giudizio per rispondere del delitto di cui agli artt. 113, 41 e 589 I, II, III e IV comma in rel. all’art. 590 III comma C.P., perché, nel corso dei lavori per la realizzazione del lotto 13 della variante di valico della autostrada A1 Firenze-Bologna -Tratto toscano, appaltati dalla società autostrade alla s.p.a. T. Costruzioni generali ed in particolare durante l’esecuzione dei lavori di elevazione della pila n.6 del viadotto Lora nel Cantiere PC 13, più specificamente durante la fase di ancoraggio di una passerella al VI concio della pila con utilizzazione del sistema di ripresa CB240 “P.”, consistente nell’utilizzazione di otto passerelle esterne prive di passerella inferiore atte a sostenere il peso dei lavoratori e delle casseforme necessarie per l’innalzamento delle pareti esterne dei conci della pila e di casseforme non solidali (non collegate direttamente alla struttura delle passerelle), agganciate ciascuna al calcestruzzo della pila mediante due dispositivi di ancoraggio costituiti da una piastra filettata DW15 e da un cono M24/DW15 da fissare sul pannello di rivestimento della cassaforma prima del getto di calcestruzzo tra cassaforma esterna ed interna, da un tirante (o barra) “dyvidag” DW15, di misura predeterminata, da inserire, avvitandolo manualmente e mediante impiego di un tubo distanziale, nel cono – dotato al suo interno di una spina di battuta a contrasto, tale da limitare l’inserimento della barra – e da bloccare manualmente, per collegare, mediante la sua filettatura, piastra e cono, nonché da un rocchetto 15 e da una vite di sostegno M24 per 120 da installare successivamente e da avvitare sul cono per l’ancoraggio della passerella:
– B.B., coordinatrice per l’esecuzione del lavori, in violazione dell’art. 92 I comma lett. a) d.lgs. 81/08, non verificando, durante la realizzazione della pila dei viadotto Lora, con opportune azioni di coordinamento e controllo, l’applicazione, da parte dell’impresa appaltatrice e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni loro pertinenti contenute nel piano di sicurezza e coordinamento di cui all’art. 100 e la corretta applicazione delle procedure di lavoro, in particolare non controllando l’effettiva realizzazione degli obblighi informativi e formativi da parte del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori che componevano la squadra addetta alla costruzione della pila; per colpa, consistita in imprudenza, negligenza ed imperizia nonché nell’inosservanza delle disposizioni di legge per ciascuno richiamate, cagionavano la morte di R.C., G.M. e G.C. che decedevano per gravissimo trauma polifratturativo polidistrettuale dopo essere precipitati nel vuoto da un’altezza di circa 40 metri a seguito dello sganciamento della pedana sulla quale si trovavano, causato dall’errato montaggio del sistema di ancoraggio, effettuato utilizzando, per il serraggio nel cono, una vite di dimensioni inferiori, sia di lunghezza che di diametro, a quelle prescritte e ciò in quanto la barra dyvydag era penetrata per circa 3,5 cm. Oltre la spina di battuta di cui il cono avrebbe dovuto essere provvisto e di cui invece era privo, verosimilmente a causa di usura o di rottura determinata dall’errato impiego di chiavi o di attrezzi analoghi per il serraggio del sistema, tali da esercitare una forza di intensità suP.ore a quella consentita e necessaria e cagionavano altresì a G.LP., che rimaneva in bilico sulla pedana attigua a quella ceduta, lesioni personali consistite in disturbo da stress postraumatico dalle quali derivava una malattia giudicata guaribile in un periodo suP.ore a tre mesi. In Barberino di Mugello il 2 ottobre 2008.
2. L’infortunio per cui è processo si era verificato nel corso dei lavori per la realizzazione del lotto 13 della variante di valico della autostrada A1 Firenze – Bologna, lavori appaltati dalla società Autostrade alla s.p.a. T. Costruzioni Generali. Come esattamente descritto nell’imputazione, nel corso dei lavori di elevazione di una pila del viadotto ’Lora’, si verificava un cedimento durante la fase di ancoraggio di una passerella al sesto concio della pila, ancoraggio effettuato mediante l’utilizzazione del sistema di ripresa CB240 “P.”.
Il ‘sistema di ripresa’ (fornito alla ‘T.’ dall’impresa ‘P.’), consisteva nell’utilizzazione di otto passerelle esterne agganciate ciascuna al calcestruzzo della pila mediante due dispositivi di ancoraggio costituiti da una piastra filettata DW15 e da un cono M24/DW15 da fissare sul pannello di rivestimento della cassaforma prima del getto di calcestruzzo tra cassaforma esterna ed interna, da un tirante (o barra) “dyvidag” DW15, di misura predeterminata, da inserire nel cono – dotato al suo interno di una spina di battuta a contrasto, tale da limitare l’inserimento della barra – e da bloccare manualmente, per collegare, mediante la sua filettatura, piastra e cono, nonché da un rocchetto 15 e da una vite di sostegno M24 per 120 da installare successivamente e da avvitare sul cono per l’ancoraggio della passerella.
Il cedimento di uno dei punti di ancoraggio della passerella sulla quale si trovavano gli operai causava la tragica caduta al suolo ed il decesso di G.M., R.C. e G.C..
I primi due erano dipendenti della T. Costruzioni Generali S.p.A., mentre G.C. era dipendente della M.S. Manutenzione Strade s.r.l. e distaccato presso la A. s.r.l.. Quest’ultima era titolare di un contratto di subappalto con la T. S.p.A..
3. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, B.B.,, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen..
a. Con un primo motivo si deduce nullità della sentenza impugnata e di quella di primo grado per violazione del principio di immutazione del fatto in sede di giudizio abbreviato e del principio di correlazione tra le imputazioni contestate la sentenza (articoli 423,4 141,5 121,522 cod. proc. pen.).
Ci si duole che, al pari del tribunale, anche la corte di appello non si sarebbe limitata ad una diversa qualificazione giuridica del fatto di reato contestato dal pubblico ministero, ma avrebbe operato una vera e propria mutatio libelli, risoltasi nella contestazione di fatti diversi, associati a profili di condotta (e di colpa) omissiva dell’imputata in relazione ai quali non solo la contestazione penale non è mai avvenuta, ma la difesa non ha potuto concretamente ed effettivamente esplicarsi. Non solo la fisionomia della condotta sarebbe il frutto di una alterazione rispetto al perimetro del capo di imputazione, ma gli ulteriori profili di colpa rivelerebbero l’evidente eterogeneità tra i fatti descritti nell’imputazione quelli ritenuti in decisione.
Il difensore ricorrente, ricordato l’insegnamento secondo cui nei procedimenti per reati colposi la sostituzione o l’aggiunta di un particolare profilo di colpa, sia pure specifica, al profilo di colpa originariamente contestato, non vale a realizzare diversità o imputazione del fatto ai fini della disabilità, in carenza di valida contestazione, nel difetto di correlazione tra imputazione in sentenza, lamenta che nel caso di specie la contestazione penale originaria non riguardasse plurimi profili di colpa, ma solo la violazione dell’articolo 92 comma 1 lettera A del decreto legislativo 81/2008.
Si evidenzia -e si allega il provvedimento giudiziario conclusosi con non luogo a procedere per l’estinzione del reato per morte del reo- che una delle condotte diverse rispetto alla contestazione penale elevata all’odierna ricorrente, e precisamente quella di cui all’articolo 92 lett. b) del sopra citato decreto legislativo 81/2008 era stata contestata all’altro imputato (P.L.), quanto meno quella condotta non poteva, dopo il decesso del coimputato, rifluire in quella contestata al B.B..
Ancora, ci si duole che la Corte territoriale abbia ritenuto che l’odierna ricorrente, dal momento del subentro al precedente coordinatore per l’esecuzione P.L., sia con ciò subentrata nella posizione di garanzia di quello (il riferimento è a pag. 18 della sentenza di appello).
Con una serie di richiami alla motivazione del provvedimento impugnato il difensore ricorrente evidenzia come tutta una serie di comportamenti per i quali è intervenuta condanna sarebbero riconducibili alla norma contestata al P.L., poi deceduto, e mai contestata alla B.B..
Ragionando al contrario -ci si domanda in ricorso- se il P.L. non fosse deceduto, come sarebbe stato possibile, in regime di giudizio abbreviato incondizionato, condannare la B.B. per una condotta imputata ad altri, se non modificando l’imputazione originaria alla stessa riferibile, ovvero procedendo ad una contestazione suppletiva?
Il difensore ricorrente lamenta che si incorrerebbe in una fictio iuris se si volesse ritenere che in una materia specialistica come quella prevenzionistica, nella quale di regola il contenuto della colpa è normativamente esplicato dal legislatore secondo la logica della parcellizzazione precettiva delle condotte punibili, si possa far riferimento sempre e comunque al concetto di colpa “globalmente considerata”.
Al contrario, si evidenzia essere frequente l’ipotesi che il mutamento o l’aggiunta di un profilo di colpa influisca significativamente sull’impostazione della difesa, sia avuto riguardo, ad esempio, alla problematica relativa al cosiddetto obbligo di presenza del CSE in cantiere, spesso affrontata dalla giurisprudenza (si richiamano le pronunce di questa sez. 4, 19 gennaio 2005, n. 1238, Storino ed altri e 13 gennaio 2015 n. 1300 Martucci) sia avuto riguardo all’Incidenza della colpa sul decorso del nesso causale e al condizionamento argomentativo che essa implica ai fini dello svolgimento del giudizio controfattuale.
Stante la diversità, l’autonomia e l’alternatività logico concettuale delle condotte previste dall’articolo 92 del decreto legislativo 81/2008, ci si duole che l’imputazione riferibile all’odierna ricorrente avrebbe dovuto contenere l’indicazione della condotta omissiva specifica, intesa come specifica regola che l’imputata avrebbe dovuto seguire e che invece non ha rispettato. Ciò -si afferma- vale a maggior ragione in sede di giudizio abbreviato incondizionato (sul tema si segnala la recente sez. 3, 2 febbraio 2015 n. 4680, Licata). Ciò in quanto, se avesse previsto di doversi difendere anche ai sensi di quanto dispongono le lettere D, E ed F del citato articolo 92, l’imputata forse non avrebbe scelto la via del giudizio abbreviato incondizionato.
b. Con un secondo motivo di ricorso si deduce nullità della sentenza impugnata e di quella di primo grado per violazione del diritto dell’imputata, nell’ambito di un processo equo (fair trial) ad essere informata in ordine alla qualificazione giuridica dell’imputazione e a disporre del tempo necessario delle condizioni per l’esercizio del diritto di difesa. Le norme che si assumono violate sono gli articoli 521 e 522 del codice di procedura penale, nonché gli articoli 24, 111 e 117 della Costituzione e l’art. 6 paragrafi 1 e 3 lett. a) e b) CEDU.
Tale motivo è strettamente connesso a quello precedente, in quanto il difensore ricorrente assume che, anche qualora volesse ritenersi che non vi sia stata violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza nei termini di cui al precedente motivo, nondimeno la diversa qualificazione giuridica del fatto di reato operata dal tribunale e confermata dalla corte di appello apparirebbe contraria ai principi espressi dall’art. 6 paragrafi 1 e 3 lett. a) e b) CEDU (viene richiamato il contenuto di tale norma transnazionale, nonché la pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo nella causa Drassich contro Italia del 2007).
Applicando i principi di tale norma al caso che ci occupa, secondo il ricorrente, pur essendo possibile anche nell’ambito del giudizio abbreviato la possibilità per il giudice di dare una diversa definizione giuridica al fatto di reato originariamente contestato, di ciò doveva essere data informazione in tempo utile all’imputata affinché la stessa potesse disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie alla preparazione della propria difesa.
c. Con un terzo motivo si deduce erronea applicazione di norme di legge in ordine ai contenuto della posizione di garanzia del coordinatore per l’esecuzione posseduta dall’imputata B.B..
Anche in questo caso si deduce che la Corte territoriale avrebbe offerto motivazione non coerenti con il vincolo, gravante su tutti giudici nazionali dei Paesi membri dell’Unione Europea, di interpretare le norme di diritto interno, che siano trasposizione e recepimento del diritto comunitario, secondo il principio dell’interpretazione conforme.
Viene ricordato in proposito come la Corte Costituzionale nel 2010 abbia in più di una occasione ricordato come l’obbligo di procedere un’interpretazione delle norme nazionali conforme al diritto dell’unione europea sussista anche per le norme penali. Si riportano ampi stralci della direttiva 92/57/EE evidenziando quelle che ad avviso del ricorrente sono i punti in cui la sentenza impugnata avrebbe travalicato l’interpretazione che deriva dalla norma europea per quanto riguarda la posizione di garanzia del coordinatore per l’esecuzione.
In particolare, si lamenta che, estendendosi concettualmente la funzione di coordinamento e gli obblighi ad essa correlati ad una fase in cui la stessa Corte di appello ha riconosciuto che era in corso una lavorazione singola, costituirebbe una manifesta violazione del principio di interpretazione delle norme interne in senso conforme al dettato della direttiva comunitaria.
Viene evidenziata la particolarità della posizione del lavoratore G.C., che operava effettivamente alle dirette dipendenze di T. costruzioni S.p.A. sicché, nel contesto operativo in essere al momento dell’infortunio, neppure poteva dirsi sussistente una situazione di pluralità di imprese prevenzionisticamente rilevante. Viene ricordata in proposito la disciplina prevenzionistica del distacco codificata dall’art. 3 co. 6 del decreto legislativo 81/2008.
Ciò consentirebbe di affermare che la squadra di lavoro coinvolta nell’incidente, sebbene fosse formalmente in composizione mista stesse, sul piano prevenzionistico, facesse capo, con riguardo alla specifica lavorazione in atto al momento dell’infortunio, ad un’unica organizzazione di lavoro e ad un solo datore di lavoro prevenzionistico.
Ampio spazio è dedicato poi, nell’atto di impugnazione, alla valutazione di come contrasterebbe con la direttiva 92/57/CEE anche la parte della sentenza impugnata (pag. 16) che si fa riferimento agli obblighi di vigilanza del coordinatore per l’esecuzione dei lavori.
Sul punto, qualora questa Corte fosse di contrario avviso in merito all’interpretazione della normativa interna in rapporto a quella comunitaria, in ricorso viene formulata istanza di rinvio pregiudiziale di tutte le questioni interpretative alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’articolo 267 del trattato sul funzionamento dell’unione europea (TFUE).
d. Con un quarto motivo di ricorso si deduce omessa motivazione, o comunque erronea applicazione di norme, in ordine alla natura cogente del paragrafo 3.1.4.1. del piano di sicurezza e di coordinamento (PSC).
Si contesta, alla luce della documentazione allegata, che le indicazioni del citato paragrafo avessero natura operativa. Si lamenta che, in proposito, la Corte di appello non avrebbe fornito risposta allo specifico motivo, omettendo di interloquire sul come e sul perché si fosse verificata l’insorgenza della posizione di garanzia.
e. Con un quinto motivo si deduce contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione e travisamento della prova, con particolare riferimento a pag. 11 della motivazione del provvedimento impugnato, evidenziandosi che, dall’esame del compendio probatorio, non emergerebbe in alcun modo che il montaggio dei cosiddetti coni fosse fatto servendosi di utensili.
Si richiamano le dichiarazioni testimoniali assunte, da cui si evincerebbe che tale tipo di montaggio avveniva a mano.
Ci si lamenta, perciò, che la motivazione della corte d’appello sul punto si tradurrebbe in un evidente travisamento della prova, decisivo ai fini della formazione del convincimento del giudicante.
f. Ci si duole altresì, con un sesto motivo, della contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in punto di ricostruzione del nesso causale.
Il profilo di doglianza attiene soprattutto alla pag. 12 della sentenza impugnata, laddove la Corte territoriale ha individuato, quale causa iniziale dell’evento, le gravissime carenze organizzative di prevenzione infortuni imputabili all’impresa appaltatrice, attinenti sia alla valutazione del rischio ed all’analisi delle procedure di montaggio, sia alla formazione e informazione professionale dei lavoratori. Si deduce che ciò sarebbe in contraddizione con il fatto che in quel cantiere, nel momento in cui è avvenuto l’infortunio, erano stati montati senza problemi complessivamente oltre 4000 dispositivi di ancoraggio, producendosi quindi un coefficiente statistico cosiddetto di concretizzazione del rischio infortunistico nella misura dello 0,25 x 1000 (un infortunio su un totale di oltre 4000 coni di ancoraggio assemblati).
Non sarebbe, perciò, aderente ad un criterio di congruenza logica non l’affermazione del giudice di appello che “le passerelle a sbalzo del sistema di ripresa avrebbero dovuto essere ancorate alla pila con estrema precisione” bensì quella successiva secondo cui “l’attenzione alle procedure di assemblaggio indicate dal costruttore era, al contrario, macroscopicamente assente”.
Si contestano, poi, gli specifici punti della sentenza in cui è stata attribuita all’odierna ricorrente colpa per la mancata formazione del personale addetto a quella specifica lavorazione ribadendosi la tesi in base al paragrafo 3.24 della Direttiva comunitaria il contenuto dell’obbligo facente capo al CSE sia di natura meramente formale, dovendo egli verificare non che i lavoratori delle imprese siano stati effettivamente informati e formati professionalmente, bensì, più limitatamente che sussista, in allegato a ciascun POS, la documentazione relativa all’assolvimento di quest’obbligo.
Peraltro, sarebbe pacifico che la verifica del POS delle imprese esecutrici presenti sul cantiere non rientrasse tra i compiti dell’imputata B.B., tant’è che la condotta correlata a tali obblighi era stata correttamente contestata al precedente coordinatore e coimputato poi deceduto P.L. il quale aveva ricoperto il ruolo di coordinatore per l’esecuzione dal 28/12/2007 al 21/7/2008.
Ci si duole che la corte di appello non abbia correttamente motivato in punto di causalità della colpa, mancando di enunciare, in termini di inferenza logicodeduttiva, in quali termini l’omessa vigilanza e l’omesso controllo del CSE avessero contribuito alla produzione dell’evento, rifugiandosi comodamente ed impropriamente in una causalità di principio, riproducendo in maniera apodittica il contenuto delle proposizioni assertive già enunciate nella sentenza del tribunale.
Secondo il ricorrente, in altri termini, in secondo grado non sarebbe stato svolto alcun giudizio controfattuale, se non in termini assertivi ma non esplicativi.
L’avere il giudice individuato quale concausa dell’evento “vistose riconoscibili carenze di formazione dei lavoratori e di organizzazione delle procedure di lavoro” non apparirebbe, secondo la tesi sostenuta in ricorso, in sintonia logico argomentativo con il dato statistico.
Viene riprodotta per estratto la testimonianza del lavoratore G.LP., che faceva parte della squadra di lavoro impegnata in quota nel montaggio della passerella che ebbe a cedere.
In altri termini, il profilo di doglianza si fonda sull’affermazione che non sarebbe dato di comprendere in quali termini l’omessa vigilanza e controllo del coordinatore per la sicurezza abbiano potuto concorrere causalmente alla produzione dell’evento.
Si contesta che vi fosse, tra i contenuti dei doveri del coordinatore per la sicurezza, anche il compito di controllare che venissero accantonati i coni privi di spina di battuta, come quello utilizzato e che poi ha dato luogo all’incidente, senza peraltro che il processo sia stato in grado di determinare perché tale utilizzo sia avvenuto.
Oltre che in punto di motivazione sul giudizio controfattuale, in ricorso si contesta, poi, che vi sia una congrua motivazione per quanto attiene alla prevenibilità dell’evento.
Il ricorrente articola una lunga digressione, con corposi richiami alla giurisprudenza di questa Corte di legittimità, deducendo quello che è a suo avviso l’erroneità dell’operato giudizio contro fattuale. In particolare, si sottolinea come l’errore del R. nulla avrebbe vedere con un deficit di formazione professionale. Peraltro, si evidenzia che i lavoratori della squadra percepirono il rischio e interruppero il lavoro, rivolgendosi al preposto F. che quel giorno era presente sul luogo di lavoro; e F., in rappresentanza del datore di lavoro in sostituzione del caposquadra, assente quel giorno, ebbe a consegnare due bulloni sostitutivi di serraggio (rivelatisi non idonei), contestualmente richiedendo la prosecuzione del lavoro in quota.
Se ciò è vero non vi sarebbe allora alcuna efficacia condizionante, in termini di rilievo causale, nella concreta eziologia dell’infortunio, nella condotta colposa omissiva contestata all’odierna ricorrente. In altri termini, il corretto svolgimento del giudizio controfattuale, non potrebbe in ogni caso involgere, neppure quale concausa, la condotta omissiva contestata a B.B., i loro deficit informative e di formazione professionale, i lavoratori neutralizzarono la loro esposizione al rischio di caduta dall’alto, in ragione della sua percezione, scendendo a terra e comunque interrompendo il lavoro, e rivolgendosi alla catena gerarchica funzionale di riferimento. Ed allora, secondo il ricorrente, alla domanda su quale sia la condotta o le condotte causalmente produttive dell’evento infortunistico che se eliminate mentalmente lo avrebbero impedito, non vi sarebbe dubbio che l’unica risposta sia che la vera causa vada individuata nella condotta del F., che consegnò dei bulloni inadeguati.
Ci si duole che su questo specifico aspetto, insito nella peculiarità della concreta vicenda infortunistica, la corte di appello avrebbe dovuto confrontarsi controfattualmente, essendo evidente, che, a valle dell’errore di assemblaggio del R. (conseguente all’assenza della spina di battuta nel cono) e dell’insufficiente valutazione del rischio relativo alla procedura di montaggio dell’attrezzatura di lavoro nel POS di T. Costruzioni S.p.A., vi sarebbe la condotta materiale del F. a riacutizzarsi il pericolo di caduta dall’alto.
La Corte territoriale, invece, avrebbe omesso di considerare che la causa prossima dell’infortunio di cui all’imputazione non era stata la condotta di omessa verifica da parte dell’imputata dell’effettiva formazione delle maestranze impiegate nel cantiere, in quanto tale condotta omissiva, era al più idonea a produrre una mera situazione di pericolo, situazione di pericolo che in ogni caso i lavoratori ebbero a neutralizzare pervenendo immediatamente al risultato del processo informativo di loro formazione professionale: la percezione del rischio, con conseguente discesa a terra immediata e report con interazione dell’accaduto al loro suP.ore diretto, il preposto F..
Peraltro, viene ribadito che, fine al giorno dell’infortunio, all’interno del cantiere non erano emerse condizioni di macroscopica deficienza professionale dei lavoratori impiegati nella costruzione delle pile, percepibili dal CSE, la quale situazione, come rilevato e rilevabile, avrebbe imposto la sospensione immediata della lavorazione.
Fino a quel momento era, invece, risultato l’esatto contrario, e cioè di tutti gli ancoraggi del cantiere solo quello per cui è processo fu posto in opera con la scelta di posizionamento di materiali incompatibili ad assicurare la funzionalità dell’attrezzatura di lavoro.
Ribadite pertanto le proprie doglianze in ordine all’immutazione del capo di imputazione, tenuto conto del decorso causale emergente dalle risultanze processuali, si deve, secondo il ricorrente, in ultima analisi ritenere che, quand’anche B.B. avesse tenuto la condotta omessa, enunciata e contestata al capo di imputazione (“controllare l’effettiva realizzazione degli obblighi informativi e formativi da parte del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori che componevano la squadra addetta alla costruzione della pila”), essa non avrebbe avuto alcun rilievo causale della concreta eziologia dell’infortunio.
Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata con ogni consequenziale provvedimento.

Diritto

1. Il denunciato vizio motivazionale della sentenza impugnata è fondato, nei limiti che si andranno a specificare, e, pertanto, la stessa va annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Firenze per un nuovo esame.
2. La peculiarità della vicenda impone alla Corte di dare conto di come i giudici di merito abbiano ricostruito i fatti per cui è processo.
Secondo quanto si legge nelle sentenze di primo e secondo grado, l’infortunio si era verificato nel corso dei lavori per la realizzazione del Lotto 13 della variante di valico della autostrada A1 Firenze – Bologna, lavori appaltati dalla società Autostrade alla s.p.a. “T. Costruzioni Generali’.
Come analiticamente riportato nella ricordata imputazione, nel corso dei lavori di elevazione di una pila del viadotto ‘Lora’, si verificava un cedimento durante la fase di ancoraggio di una passerella al sesto concio della pila, ancoraggio effettuato mediante l’utilizzazione del sistema di ripresa CB240 “P.”.
Il ‘sistema di ripresa’ (fornito alla ‘T.’ dall’impresa ‘P.’), consisteva nell’utilizzazione di otto passerelle esterne agganciate ciascuna al calcestruzzo della pila mediante due dispositivi di ancoraggio costituiti da una piastra filettata DW15 e da un cono M24/DW15 da fissare sul pannello di rivestimento della cassaforma prima del getto di calcestruzzo tra cassaforma esterna ed interna, da un tirante (o barra) “dyvidag” DW15, di misura predeterminata, da inserire nel cono – dotato al suo interno di una spina di battuta a contrasto, tale da limitare l’inserimento della barra – e da bloccare manualmente, per collegare, mediante la sua filettatura, piastra e cono, nonché da un rocchetto 15 e da una vite di sostegno M24 per 120 da installare successivamente e da avvitare sul cono per l’ancoraggio della passerella.
Il cedimento di uno dei punti di ancoraggio della passerella sulla quale si trovavano gli operai causava la tragica caduta al suolo ed il decesso di G.M., R.C. e G.C..
I primi due erano dipendenti della T. Costruzioni Generali S.p.A., mentre G.C. era dipendente della M.S. Manutenzione Strade s.r.l. e distaccato presso la A. s.r.l.. Quest’ultima era titolare di un contratto di subappalto con la T. S.p.A. Le indagini, svolte attraverso l’acquisizione di sommarie informazioni e documenti nonché tramite una inchiesta della ASL ed una consulenza disposta dal Pubblico Ministero ex art. 360 c.p.p., affidata agli ing. Omissis di Firenze, evidenziavano come la causa tecnica del cedimento fosse da attribuire all’errato fissaggio della passerella.
La squadra degli operai quel giorno aveva provveduto alle operazioni di distacco delle passerelle dalla pila per riposizionarle al concio suP.ore, più alto di circa sei metri; tutto si era svolto regolarmente fino all’ultima passerella, quando il R.C. si rendeva conto che il sistema di ancoraggio non si avvitava completamente nell’apposita sede, ma rimaneva fuori di 2-3 centimetri, quindi non serrandosi come avrebbe dovuto.
A quel punto veniva chiamato in aiuto F.D., geometra, assistente di cantiere. Nel corso del pomeriggio il F. ed un altro lavoratore, R. F., si recavano al magazzino per prendere un rocchetto e poi in officina per cercare una vite adatta a serrare il rocchetto al cono sulla pila. Successivamente, dopo alcune prove svolte a terra, il R.C. saliva sulla pila elevata nel frattempo con una gru al livello del sesto concio, ed avvitava sistema di ancoraggio, con una chiave diversa da quella abituale (utile per viti di mm. 22, anziché mm. 24 come di consueto), ma con un serraggio che appariva riuscito e stavolta aderente al profilo della pila. Verso le 17.20, sulla passerella cosi fissata, si trovavano il G.M., il R.C. ed il G.C., mentre il G.LP. si era attardato nella passerella accanto per coprire le fessure tra le due passerelle: all’improvviso il punto d’ancoraggio cedeva ed i tre operai precipitavano.
La consulenza tecnica permetteva di accertare che il cono in cui era inserita la barra era privo di fermo (c.d. battuta di arresto) e per questo motivo la barra aveva potuto penetrare 3,5 centimetri oltre il dovuto; questo aveva comportato un accorciamento del sistema di ancoraggio (21,5 cm. anziché 25 cm.); pertanto la vite da inserire dal lato opposto alla barra non era entrata ed era stata reP.ta una vite con un gambo più corto e, sfortunatamente, anche di minor diametro (22 millimetri anziché 24).
La Corte territoriale ricorda che dalla relazione dei consulenti tecnici si evinceva che: “La causa del cedimento della pedana è da individuare nello scorretto montaggio del sistema di ancoraggio e nell’Impiego di pezzi aventi caratteristiche diverse nonché nell’utilizzo di materiale mancante di alcuni elementi (battuta di arresto) previsti nei progetto.”
L’assenza del fermo all’interno del cono aveva permesso alla barra di penetrare in maggiore profondità nello stesso, accorciando il sistema di ancoraggio, a sua volta indebolito dall’utilizzo di una vite di più corta e più piccola (pur di soli 2 millimetri di diametro) di quella appropriata, con la conseguenza che il sistema di ancoraggio aveva ceduto al raggiungimento di 400 chilogrammi di peso, molto al di sotto del peso che avrebbe dovuto sopportare.
Nella sentenza impugnata di primo grado si osservava che: “nessuno si era accorto che il cono non era completo, nessuno si era reso conto dei perché la vite inizialmente utilizzata non andava bene, nessuno si era reso conto che la vite effettivamente poi inserita era inadatta per lunghezza e grandezza, né il geometra F., né gli operai; come è emerso dalle dichiarazioni dell’unico superstite (G.LP.), nessuno dei componenti la squadra di lavoro, almeno quelli presenti, aveva una vera cognizione tecnica per il montaggio delle passerelle, avendolo fatto nelle giornate precedenti sotto la guida del caposquadra C., ma non avendo fatto alcun specifico corso”.
L’istruttoria compiuta permetteva di appurare che nessuno dei lavoratori che componevano quel giorno la squadra e neppure gli altri lavoratori impegnati nelle operazioni (R. F., il caposquadra C., peraltro quel giorno assente) aveva seguito corsi di formazione che fossero attinenti al montaggio e all’uso delle pedane a sbalzo per la costruzione dei piloni. In sostanza nessuno aveva specifica esP.enza e competenza, necessaria in un’attività così rischiosa, trattandosi di lavorare a circa 40 m. di altezza.
3. All’odierna ricorrente, Architetto  B.B., coordinatrice per l’esecuzione dei lavori del lotto 13, designato dal committente Autostrade, si contestava, come visto, di non aver verificato, in violazione dell’art. 92 primo comma lett. a) D.L.vo n.81/08, con opportune azioni di coordinamento e controllo, l’applicazione, da parte dell’impresa appaltatrice e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni loro pertinenti contenute nel piano di sicurezza e coordinamento e la corretta applicazione delle procedure di lavoro, in particolare non controllando l’effettiva realizzazione degli obblighi informativi e formativi da parte del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori che componevano la squadra addetta alla costruzione della pila.
Il giudice di primo grado riteneva la penale responsabilità dell’imputata, confutando i rilievi difensivi che si erano incentrati:
1. Sull’insussistenza di responsabilità della B.B., non esistendo, nel caso specifico, rischi interferenziali di cantiere e non essendo, dunque, prospettabile l’obbligo di esercitare il coordinamento previsto dall’art. 92. Secondo tale argomentazione difensiva, poi riproposta con l’appello ed oggi con il ricorso in Cassazione, si trattava di una fase di lavoro svolta in autonomia funzionale da una squadra di lavoratori, senza che sussistessero “interferenze” tra lavorazioni diverse; pertanto sussisterebbe soltanto una responsabilità intraaziendale, che ricadeva sui datori di lavoro. La responsabilità del CSE atterrebbe invece ai soli casi in cui più imprese e diverse attività interferiscono tra loro ed occorre un controllo unitario dei rischi che si vengono a creare nel cantiere.
2. Sull’assenza di responsabilità della B.B. per infondatezza della contestazione. Si era evidenziato, in particolare, che nel testo definitivo dell’art. 5 d.lgs. 494/96, in materia di cantieri mobili, precursore dell’attuale art. 92 decreto legislativo 81/2008, era stato indicato l’obbligo del coordinatore di “verificare” l’applicazione, da parte delle imprese esecutrici, delle disposizioni loro pertinenti contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento, sostituendo la dizione “assicurare”, che figurava nel testo normativo originario. La modifica letterale indicava, secondo la difesa, che sul coordinatore per l’esecuzione grava un’obbligazione di mezzi e non di risultato.
3. Sul fatto che la B.B. non avesse redatto il piano di sicurezza e coordinamento né avesse partecipato alla sua integrazione, operata dal precedente coordinatore ing. P.L., al quale la B.B. era subentrata dal 21 luglio 2008 (come risulta in modo univoco dagli atti e segnatamente da quanto comunicato del committente Autostrade).
In merito a questi aspetti, nella sentenza di primo grado si osservava, in primo luogo, che la distinzione tra rischi intra-aziendali e rischi da lavorazioni interferenti era assai labile in una situazione quale quella in esame, nella quale più imprese erano contemporaneamente operative nel cantiere e sottoposte ai controlli del coordinatore. Era da tenere presente, infatti, che la squadra di operai coinvolta nel sinistro era composta non soltanto da lavoratori della T.’, ma anche da un componente dipendente della ’A.’. Non poteva dunque ritenersi la sussistenza di una responsabilità (esclusivamente) intra-aziendale e non vi erano dubbi che il coordinatore per l’esecuzione dovesse verificare, con opportune azioni di coordinamento e controllo, come recita l’art. 92 lett. a), l’applicazione delle disposizioni del PSC da parte delle varie imprese esecutrici.
Nel caso concreto – si legge ancora nella motivazione del provvedimento impugnato- il PSC prevedeva (al paragrafo 3.1.4.1.), che il personale delle imprese ricevesse le informazioni sui rischi specifici ai sensi dell’art. 21 decreto legislativo 626/94 nonché la formazione in materia di sicurezza di cui all’art. 22 stesso decreto (oggi, artt. 36 e 37 d.lgs. 81/2008).
Vi erano dunque obblighi precisi, ribaditi anche attraverso il richiamo delle disposizioni normative. Obblighi che non erano stati adempiuti. E secondo il giudice di primo grado il compito di verifica che faceva capo al coordinatore implicava necessariamente l’accertamento del rispetto di tali obblighi. Si doveva, perciò, ritenere che la B.B. non avesse effettuato alcuna verifica in merito all’aspetto sopra indicato, o comunque che avesse condotto una verifica così superficiale da non rendersi conto che gli operai impegnati in lavorazioni cosi delicate e pericolose erano totalmente privi di adeguata formazione.
Sin dal primo grado la difesa dell’imputata si era incentrata anche sulla prova del nesso di causalità, che si assumeva non essere ricavabile dai fatti.
Tuttavia, nella sentenza di primo grado si osservava sul punto che, se avesse verificato l’effettiva applicazione del piano di sicurezza, come era suo dovere, la B.B. si sarebbe resa conto della totale assenza di formazione dei lavoratori e avrebbe dovuto attivare i poteri di segnalazione (e addirittura di sospensione delle lavorazioni gravemente pericolose) che l’art. 92 le conferiva. In tal modo interrompendo la catena di condotte colpose, poste in essere anche da altri, che avevano portato poi all’infortunio
4. In appello veniva riproposta, in primis, la questione dell’assenza di rischi interferenziali di cantiere e dunque dell’obbligo dell’esercizio del coordinamento. Veniva ricordato dai difensori che presupposto necessario ai fini dell’esercizio delle funzioni di cui all’art. 92 lettera a) D.lgv. 81/08 é la sussistenza di “lavorazioni interferenti”. L’appellante criticava l’argomentazione della sentenza di primo grado che faceva riferimento all’esistenza di una squadra “mista” di lavoratori dipendenti da due imprese diverse; la natura mista della squadra non comportava, di per sé, la sussistenza di lavorazioni diverse che interferissero tra di loro. La lavorazione era ‘singola’ – come riconosciuto dal Tribunale – anche se complessa, e non comportava alcun possibile rischio da interferenza.
Si sosteneva, dunque, trattarsi di un rischio di natura intra-aziendale, proprio delle due imprese (la ‘T. s.p.a.’ e la ‘A. s.p.a.’) coinvolte nell’unica lavorazione in atto; rischio rispetto al quale non sussisteva una posizione di garanzia della B.B..
Si ribadiva che la posizione di garanzia della B.B. era limitata alle “prescrizioni operative” del PSC, attinenti alla gestione dei rischi da interferenza tra lavorazioni diverse. E si obiettava che l’obbligo di verifica non poteva, invece, essere ancorato, come si pretendeva nella sentenza di primo grado, a un paragrafo del PSC inerente alla informazione e formazione del personale, paragrafo attinente a rischi tipicamente intra-aziendali e, per di più, meramente riproduttivo di norme cogenti di legge. Da dò derivava che risultava snaturato l’ambito operativo della norma, in violazione dei principi di tassatività e tipicità della contestazione.
Inoltre, secondo la difesa il giudice aveva male interpretato il rapporto tra l’azione del coordinatore e l’assolvimento dell’obbligo di informazione e formazione professionale dei lavoratori. Ciò in quanto dal dettato normativo emergerebbe che il coordinatore per l’esecuzione riceve da ciascuna impresa affidataria il POS, che deve contenere la documentazione in merito all’informazione e alla formazione fornite ai lavoratori occupati in cantiere. Ne deriva che l’obbligo facente capo al coordinatore sarebbe di natura meramente formale; si tratterebbe di verifica documentale (c.d. verifica “rappresentativa”), mentre non graverebbe sul coordinatore l’obbligo di verificare l'”effettiva realizzazione” degli obblighi informativi e formativi da parte del datore di lavoro.
Ulteriori motivi, in secondo grado, si incentrano sulla dedotta insussistenza, in capo alla B.B., sia dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, sia del profilo soggettivo del reato, rappresentato dalla colpa.
Quanto a quest’ultima, si rilevava che la stessa deve necessariamente collegarsi ad una condotta di inerzia colpevole, e postulare, in ogni caso, l’esistenza dell’obbligo giuridico di attivazione a fini impeditivi dell’evento, nonché la conoscenza o la conoscibilità della situazione antigiuridica). Che, tuttavia, si sosteneva che non era nella specie ipotizzabile tenendo presente: a) che la radice causale del rischio al quale furono esposti lavoratori non fu certamente il deficit di informazione e formazione professionale; b) che elementi determinanti furono invece una inefficienza strutturale dell’attrezzatura di lavoro, dipendente da un vizio progettuale (scarsa resistenza meccanica della c.d. “battuta di arresto” del cono entro il quale andava inserita la barra) e/o da insufficienti istruzioni da parte del produttore “P.”; c) che vi fu un’insufficiente valutazione del rischio relativo alla procedura di montaggio dell’attrezzatura di lavoro da parte dell’impresa appaltatrice (T. s.p.a.); d) l’errore umano del dipendente di T. Costruzioni F. R. che alcuni giorni prima dell’infortunio montò, a terra, uno dei due tiranti del sistema di ancoraggio sulla cassaforma utilizzata per la costruzione del sesto concio avvitando la “barra” all’interno del cono oltre il limite previsto, facendo sì che il tirante andasse ad invadere di 30-35 mm. lo spazio destinato alla vite di serraggio.
A questi aspetti – si rimarcava- rimaneva estranea la condotta dell’imputata B.B., che non aveva alcun obbligo di verifica e/o di valutazione circa l’idoneità delle attrezzature di lavoro utilizzate per il montaggio del sistema di ripresa, né tantomeno aveva l’obbligo giuridico di ingerirsi nell’organizzazione di lavoro delle imprese esecutrici, con riguardo al corretto montaggio delle opere provvisionali contro il rischio di caduta dall’alto. A carico della B.B. non era dunque configurabile alcuna colpa.
La difesa aggiungeva, in punto di diritto, che la giurisprudenza di questa Corte legittimità aveva recentemente precisato, con più decisioni, che la funzione di vigilanza del coordinatore per l’esecuzione è “alta” e non si confonde con quella operativa, demandata al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti.
Veniva poi anche in secondo grado dedotta l’irrilevanza della condotta del coordinatore, come contestata, in termini di efficienza causale rispetto all’evento che si è verificato (“irrilevanza causale della contestazione”). Secondo quanto argomentato, la sentenza di primo grado sarebbe stata gravemente carente sul punto del c.d. giudizio controfattuale che si rende necessario per accertare in concreto il rapporto di causalità tra l’omesso controllo addebitato alla B.B. e l’infortunio, in quanto il primo giudice si era limitato a identificare sic et sempliciter la condotta giuridicamente doverosa nella mera osservanza del precetto contravvenzionale, mentre si doveva valutare se, realizzatasi la condotta doverosa da parte della B.B. ciò avrebbe impedito l’errato montaggio del sistema di ancoraggio e, di conseguenza, l’evento dannoso.
Secondo la tesi difensiva, quand’anche l’imputata avesse tenuto la condotta omessa, come da capo di imputazione, non era verificabile in termini controfattuali che l’evento infortunistico non si sarebbe verificato.
La tesi era che la condotta omissiva contestata non avesse assunto alcun rilievo causale. In primo luogo perché, nonostante l’asserito deficit informativo e formativo, gli altri punti di ancoraggio del sistema di ripresa al pilone, diversi da quello responsabile della caduta, erano risultati regolari. Sussisteva invece un difetto strutturale, consistente nella debolezza della cosiddetta ‘spina di battuta’, del quale il coordinatore non poteva avere alcuna percezione.
Si rilevava anche che il CSE era – al più – limitatamente tenuto ad una verifica di apparente idoneità della procedura per la messa in opera dell’apprestamento, verifica non estendibile né ai vizi strutturali del ‘sistema di ripresa’ né ai deficit organizzativo-procedurali di T. Costruzioni s.p.a.
E, ancora, si sosteneva che anche l’evitabilità dell’errore umano nel montaggio della barra dywidag dentro al cono nulla aveva a che fare con il deficit di formazione professionale in ordine al quale la B.B. avrebbe dovuto intervenire: si trattava di un errore non avvenuto per deficit formativo bensì per generica negligenza.
Peraltro – si faceva notare- al momento del primo tentativo di montaggio della vite i lavoratori della squadra – segnatamente R.C. – si erano resi conto che vi era un problema, tanto che era stato deciso di “calare la passerella a terra”; dunque avevano percepito il rischio e per risolvere il problema avevano contattato il preposto F. D., che tuttavia aveva procurato due viti inadatte. Osservava l’appellante che semmai era alla condotta negligente del preposto, il F., che si poteva attribuire incidenza causale nel successivo verificarsi dell’evento.
In sostanza l’omessa verifica, addebitata alla B.B., in ordine alla informazione e formazione dei lavoratori della squadra, sarebbe stata causalmente irrilevante e al più idonea a produrre una mera situazione di pericolo, non incidente sull’evento dannoso, che si era determinato in virtù di altri fattori causali.
Anche in appello veniva dedotta la violazione del principio di correlazione fra imputazione di sentenza, osservando che il Giudice aveva fondato la sua decisione in ordine alla responsabilità della B.B. anche su condotte omissive non descritte nel capo di imputazione, e segnatamente l’omesso controllo circa l’attuazione del POS da parte delle imprese, aspetto esterno al perimetro fattuale dell’imputazione, che riguardava solo la violazione dell’art. 92 comma 1 lett. a) del d.lgs. 81/2008.
5. Ebbene, la Corte territoriale, a fronte di motivi di gravame assai articolati -in gran parte oggi riproposti in questa sede- e che richiedevano una puntuale risposta in ordine al ruolo del coordinatore per l’esecuzione, in generale e rispetto al caso specifico, fornisce una risposta invero assai insoddisfacente.
In punto di fatto viene confermata la dinamica del giudice di primo grado, aggiungendosi, in merito alla causale dell’incidente, il rilievo che non vi fosse alcun dubbio che l’assemblaggio del sistema di ancoraggio fu effettuato in modo radicalmente errato. Il blocco costituito dalla vite M24xl20, dal rocchetto e dal cono non si avvitava completamente perché, in fase di montaggio sulla cassaforma, la barra Dywidag era penetrata per 35 mm. oltre il punto previsto; dò in quanto non era presente la spina di battura che avrebbe dovuto impedire il superamento del limite prefissato. Era così avvenuto che la barra Dywidag aveva invaso per un ampio tratto la sede del bullone da inserire per completare il montaggio, lasciando per quest’ultimo uno spazio utile molto inferiore a quanto previsto.
I giudici del gravame del merito ricordano che l’assistente di cantiere F. e i componenti della squadra avevano ritenuto di poter superare questo problema, in modo del tutto estemporaneo, utilizzando una vite diversa (secondo quanto riferito dal G.LP. procurata ai montatori dal F.). Si trattava però di una vite M22x90, vale a dire non soltanto molto più corta (90 mm. anziché 120 mm.) ma anche di diametro inferiore rispetto a quella prevista dai disegni tecnici del fabbricante P. (22 mm. anziché 24). Ciò determinava, anche per l’incompatibilità tra la filettatura della vite e quella del cono, una grave instabilità e mancanza di resistenza del sistema di ancoraggio.
La Corte territoriale rileva che di ciò, evidentemente gli operai addetti al montaggio non si sono da subito resi conto perché, come si osserva anche nella relazione della ASL del 24.4.2009, la vite sembrava essersi serrata correttamente all’interno del cono. Peraltro viene ricordato nella motivazione del provvedimento impugnato come nella stessa relazione si evidenzi – in modo condivisibile – che “il personale della squadra non aveva ricevuto nessuna Informazione, formazione ed addestramento di cui agli arti. 36-37 del d.lgs. 81/2008 sia sugli aspetti generali e su quelli specifici connessi alle lavorazioni da eseguire per l’elevazione delle pile del viadotto realizzate con i sistemi di ripresa CB 240 P.”. Sia il F. sia i montatori della squadra non avevano “neanche le conoscenze per distinguere la non corretta scelta della vite di 22 mm anziché di 24 mm che poteva essere rilevata confrontando le teste delle rispettive viti o semplicemente chiave meccanica di 36 mm usata per la vite M24 entrava correttamente nella testa della vite M22”.
I giudici del gravame del merito danno anche atto che, nella relazione dei consulenti tecnici ing. Omissis, che avevano eseguito l’accertamento tecnico irripetibile disposto dal p.m., si osservava che “la presenza della battuta di arresto avrebbe in assoluto evitato l’evento; anche un accurato controllo della lunghezza del cono (3,5 cm. minore del previsto) durante il montaggio avrebbe potuto in subordine ovviare al difetto di montaggio denunciando il non corretto assetto del cono di ancoraggio..”. “L’accertamento della lunghezza non sarebbe stato comunque responso certo di regolarità di montaggio in quanto residui e sporcizia presenti nella impanatura della piastra filettata di ancoraggio avrebbero potuto determinare una lunghezza del cono montato di 25 cm. [cioè corrispondente a quanto previsto nel progetto pur non essendo la barra Dywidag nella posizione prevista. In sostanza la presenza della battuta di arresto è il solo provvedimento capace di assicurare il corretto assetto dell’ancoraggio”. Nella stessa relazione si aggiungeva, tuttavia, che di fatto la battuta di arresto, come si è appena detto indispensabile ai fini di un corretto montaggio, era “assente addirittura in 14 su 15 dei coni rilevati sulla sommità della pila” allo stesso livello di quello che ha determinato l’infortunio, e si precisava poi che dei 16 ancoraggi montati a quel livello altri due presentavano un avanzamento della barra Divwidag oltre il fine corsa, anche se nei limiti ammessi dalle tolleranze del sistema, cosicché era stato possibile serrare le viti in modo sufficiente, sebbene non conforme a quanto previsto dalle istruzioni P..
Nella motivazione del provvedimento impugnato si dà anche atto che, dagli atti risulta, ancora, che dei 15 ancoraggi ‘residui’ (dopo l’incidente) un altro era stato realizzato (come quello che ha ceduto) con una vite più corta: una vite M24xl00 anziché M24xl20, come previsto dal progetto e dal manuale di istruzione P. (il riferimento è alla pag. 18 della relazione ASL del 24.4.2009). In questo caso, evidentemente, rilevano i giudici fiorentini, la fortuna aveva voluto che fosse stata scelta una vite diversa da quella prevista, ma pur sempre del diametro esatto (24 mm), e la resistenza della passerella era stata comunque assicurata.
Ancora, in sentenza si evidenzia che nel cantiere, pressoché sistematicamente, venivano utilizzati coni privi di battura di arresto perché nessuno degli operai montatori era stato istruito a prestare attenzione alla presenza della battuta di arresto e ad effettuare l’avvitatura della barra Diwidag a mano, controllando poi – per ulteriore cautela – la profondità di innesto (“h”) del tirante anteriore al fine di evitare errori.
A questo proposito i giudici di appello evidenziano come il c.t. ing. M., nominato dal P.M. dopo la consulenza tecnica Omissis (con la finalità, tra l’altro, di stabilire quali fossero, secondo le istruzioni del fabbricante P., le corrette modalità di montaggio dell’attrezzatura), avesse evidenziato che il montaggio andava fatto esclusivamente a mano e non (come pare avvenisse, secondo i giudici di appello, che su tale punto non offrono specifici riferimenti istruttori) con chiavi in grado di produrre una forza eccessiva, tale da determinare la rottura della spina di battuta presente all’interno del cono.
Il consulente M. -viene ricordato in sentenza- aveva anche precisato che non vi è dubbio che le istruzioni ed in genere il materiale presente nel manuale di utilizzazione P. fossero perfettamente adeguati a informare i soggetti che dovevano mettere in opera gli ancoraggi e coloro che dovevano sorvegliare queste operazioni (si vedano le conclusioni della relazione M. in data 15.1.2010).
La conclusione è che le istruzioni del fabbricante (che prevedevano, tra l’altro, la verifica periodica dell’idoneità e l’eventuale eliminazione dei pezzi non conformi, come i coni privi di spina di battuta, che invece venivano conservati e riutilizzati) venissero completamente ignorate e disattese, anche perché i lavoratori che componevano la squadra non possedevano sufficienti conoscenze né avevano ricevuto un addestramento per eseguire in sicurezza le fasi di lavoro in quota attraverso i sistemi di ripresa P..
Viene ancora una volta richiamata la relazione del 24.4.2009 della ASL, ove si legge che nessuno dei lavoratori aveva fatto uno specifico corso di addestramento e che il percorso formativo dei lavoratori prevedeva soltanto limitatissimi incontri informativi sui rischi generali di cantiere e/o un addestramento all’uso di d.p.i. anticaduta; soltanto il G.M. risultava aver frequentato un corso per il montaggio e l’utilizzo di ponteggi.
Dunque, per la Corte territoriale l’incidente era collegato, sotto il profilo causale, non ad un singolo errore umano ovvero ad una sequenza di errori “eccezionali” (o di minima incidenza statistica, come eccepito già in quella sede dalla difesa), né, tantomeno, ad una inefficienza strutturale di parti del sistema di ancoraggio, dipendente da un vizio progettuale o da insufficienti istruzioni da parte del produttore P..
La causa ‘iniziale’ dell’infortunio andava invece individuata nelle gravissime carenze organizzative e di prevenzione degli infortuni imputabili all’impresa appaltatrice: carenze attinenti sia alla valutazione del rischio ed all’analisi delle procedure di montaggio, sia alla formazione e informazione professionale dei lavoratori.
Tali carenze avrebbero determinato – secondo quanto si legge in sentenza – una pressoché sistematica inosservanza delle corrette modalità di montaggio previste dal produttore dei sistemi di ancoraggio. E’ vero – viene ancora ricordato – che gli altri punti di ancoraggio esaminati dai consulenti Omissis sono stati definiti “regolari”, ma ciò sarebbe avvenuto perché, pur rilevandosi anomalie gravi e numerose, i ‘margini di tolleranza’ individuati dai consulenti erano risultati rispettati, e non certo perché fossero state puntualmente osservate le corrette procedure di montaggio.
6. Di fronte a tale argomentare, tuttavia, il punto della sentenza impugnata che non convince, in termini di logicità della motivazione, è proprio quello che attiene alla responsabilità del coordinatore per l’esecuzione. E, conseguentemente, dell’affermazione di penale responsabilità dell’odierna imputata.
La corte territoriale, ricordata la giurisprudenza di questa Corte di legittimità relativa a tale figura, opera due affermazioni (cfr. pag. 14 della sentenza impugnata) che non paiono fare buon governo della stessa.
La prima è che “il coordinatore per l’esecuzione dei lavori è dunque tenuto a verificare, attraverso un’attenta e costante opera di vigilanza, l’eventuale sussistenza di obiettive situazioni di pericolo nei cantiere in relazione a ciascuna fase dello sviluppo dei lavori in corso di esecuzione”.
La seconda è che “rimane irrilevante che non si sia in presenza di una interferenza tra lavorazioni diverse, affidate a diverse imprese, bensì di una fase nella quale era in corso una lavorazione ‘singola’: l’organizzazione della cooperazione ed il coordinamento delle attività è solo uno dei compiti del coordinatore per la sicurezza e non esaurisce l’ambito della sua attività e della relativa posizione di garanzia”.
Come si avrà modo, infatti, di meglio precisare di qui a poco, il coordinatore per l’esecuzione è colui che gestisce il rischio interferenziale e la sua posizione di garanzia non va confusa con quella del datore di lavoro.
L’unica eccezione -e anche su questa ci si soffermerà in avanti- è costituita dalla previsione di cui all’art. 92 lett. f) d.lgs 81/08 secondo cui) egli è tenuto a sospendere, in caso di pericolo grave e imminente, direttamente riscontrato, le singole lavorazioni fino alla verifica degli avvenuti adeguamenti effettuati dalle imprese interessate.
Dalle ricordate affermazioni che opera la Corte territoriale a pag. 14 della sentenza impugnata sembrerebbe dunque evincersi che viene accettato il rilievo difensivo che non si fosse in presenza di una interferenza tra lavorazioni diverse. Ed allora, evidentemente, si tratta di capire se l’avvenuto montaggio in difformità di cui si è detto fosse una situazione tale da dovere e potere cadere nella sfera di controllo del CSE.
La Corte territoriale fornisce sul punto una risposta positiva sul presupposto (cfr. pag. 15 della sentenza impugnata) dell’evidente necessità che il controllo del coordinatore per l’esecuzione sia effettivo, tale da consentire una verifica reale e sufficientemente penetrante dell’adeguatezza delle procedure di lavoro, della formazione del personale e degli strumenti operativi utilizzati dai lavoratori in ogni singola fase dell’attività. Altrimenti – rilevano i giudici del gravame del merito- i principi sopra esposti resterebbero del tutto privi di significato e risulterebbe vanificata anche la funzione di “generale vigilanza” che la legge demanda al committente, dal quale il coordinatore è designato.
Ritiene, tuttavia, il Collegio, che non sia così.
7. Va detto, a questo punto che appare infondato il primo motivo dell’odierno ricorso, con cui si lamenta che l’imputata sarebbe stata condannata per un fatto diverso da quello imputatole. In particolare, secondo la tesi difensiva oggi riproposta, vi sarebbe stata la violazione del principio di correlazione fra imputazione di sentenza, avendo i giudici del merito fondato la loro decisione in ordine alla responsabilità della B.B. anche su condotte omissive non descritte nel capo di imputazione, e segnatamente sull’omesso controllo circa l’attuazione del POS da parte delle imprese, aspetto esterno al perimetro fattuale dell’imputazione, che riguardava solo la violazione dell’art. 92 comma 1 lett. a) del Dlgs. 81/2008.
La lettura del capo di imputazione consente di verificare che alla stessa è stata contestata, in fatto, anche la violazione di cui all’art. 92 lett. b), essendo la stessa subentrata, nel periodo di competenza – durante il quale si è verificato il sinistro mortale di cui all’imputazione- nella posizione di garanzia del precedente coordinatore per l’esecuzione ing. P.L..
Corretta, in tal senso, appare la risposta che la Corte territoriale fornisce sul punto, ricordando (cfr. pag. 17 della sentenza impugnata) la consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità, secondo cui sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza soltanto se il fatto contestato sia mutato nei suoi elementi essenziali, cosi da provocare una situazione di incertezza e di cambiamento sostanziale della fisionomia dell’ipotesi accusatoria, capace di impedire o menomare il diritto di difesa. Conferente appare il richiamo ai precedenti di questa Corte, che il Collegio condivide (sez. 4 n. 38818 del 4.5.2005; sez. 4, n. 31968 del 19.5.2009) ove si è precisato che, nei procedimenti per reati colposi, la sostituzione o l’aggiunta di un particolare profilo di colpa, sia pure specifica, al profilo di colpa originariamente contestato, non vale a realizzare diversità o immutazione del fatto ai fini dell’obbligo di contestazione suppletiva di cui all’art. 516 c.p.p. e dell’eventuale ravvisabilità, in carenza di valida contestazione, del difetto di correlazione tra imputazione e sentenza ai sensi dell’art. 521 c.p.p..
Questo principio correttamente è stato ritenuto applicabile anche al caso di specie, non potendosi giungere a conclusioni opposte per il solo fatto della scelta del giudizio abbreviato, regolato – quanto ai principi in punto di contestazione – dalle medesime norme.
Peraltro, come detto, condivisibilmente, la Corte fiorentina evidenzia che, nel caso in esame, la contestazione è ampia anche che nel suo tenore testuale, in quanto alla B.B. si addebita una responsabilità colposa per imprudenza, diligenza ed imperizia nonché inosservanza delle disposizioni di legge, facendo riferimento esplicito all’obbligo del coordinatore di verificare l’applicazione, da parte dell’impresa appaltatrice, delle “disposizioni … contenute nel piano di sicurezza e coordinamento” e “la corretta applicazione delle procedure di lavoro”.
Va qui aggiunto che questa Corte ha recentemente precisato – e, pertanto, deve ritenersi infondato anche il secondo motivo di ricorso- che, in tema di correlazione tra accusa e sentenza, non è configurabile la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen. qualora la diversa qualificazione giuridica del fatto appaia conformemente all’art. 111 Cost. e all’art. 6 CEDU come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, in relazione al quale l’imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine al contenuto dell’Imputazione, anche attraverso l’ordinario rimedio dell’impugnazione (sez. 2, n. 46786 del 24.10.2014, Borile, rv. 261052, fattispecie in cui il fatto contestato come molestie, per aver impedito l’uscita delle persone offese attraverso un comune passo carraio, è stato legittimamente riqualificato in violenza privata in primo grado ed erroneamente derubricato nel reato di molestie in appello).
8. Non pare suscettibile di accoglimento, inoltre, l’invocata richiesta a questa Corte, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea per contrasto dell’art. 92 d.lgs. 81/08 con la direttiva 92/57/CE (terzo motivo di ricorso) relativamente ai limiti della responsabilità ascrivibile al CSE.
Si dirà di qui a poco di come le doglianze proposte in ricorso non siano del tutto infondate, Tuttavia va detto che, anche se il Collegio avesse ritenuto di avallare in T. la motivazione della Corte territoriale, la richiesta difensiva non sarebbe stata accoglibile.
Va ricordato che il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE alla Corte di Giustizia viene provocato con ordinanza del giudice nazionale (ivi compresa la Corte Costituzionale), con la quale si solleva una questione interpretativa su una norma comunitaria.
Il giudice nazionale, infatti, è tenuto ad interpretare ed applicare la norma comunitaria, che è fonte del diritto e, qualora sorgano questioni di conflitto con una norma interna, a disapplicare la norma interna. Se poi vi fossero dubbi sull’interpretazione della norma comunitaria può risolverli interpretando la norma comunitaria (mai disapplicandola) o può sollevare la questione pregiudiziale sull’Interpretazione della stessa davanti alla Corte di Giustizia.
In sostanza si tratta di una ulteriore applicazione del principio del primato del diritto comunitario per il quale la giurisprudenza comunitaria ha costantemente affermato che il giudice nazionale ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di dare al singolo la tutela che quel diritto gli attribuisce, disapplicando di conseguenza la norma interna confliggente, sia anteriore che successiva a quella comunitaria.
Nel caso in cui il giudice in questione sia un giudice di ultima istanza, come nel caso che ci occupa, salvo casi particolari, la facoltà di rinvio pregiudiziale sembrerebbe essere disegnata come un obbligo, volto ad evitare un consolidamento nella giurisprudenza di una interpretazione che, non passata al vaglio della Corte di Giustizia, sia erronea.
Tuttavia, questa Corte di legittimità ha avuto modo di precisare che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea non costituisce un rimedio giuridico esP.bile automaticamente a sola richiesta delle parti, spettando solo al giudice stabilirne la necessità (Sez. Un. Civ., ord. 20701 del 10.9.2013 Savoldelli contro Proc. Generale c/o Sezione Giurisdizionale Conti in un caso il ricorrente aveva chiesto il rinvio alla Corte di Giustizia con riguardo alle disposizioni del Trattato aventi ad oggetto la materia del recupero dei contributi comunitari e la possibilità per gli Stati membri di perseguire la tutela di pregiudizi dell’erario europeo; le S.U. hanno disatteso l’istanza evidenziando, tra l’altro, che la suddetta richiesta concretizzava una anomala sollecitazione alla Corte di Giustizia a riconsiderare la propria consolidata giurisprudenza; cfr. anche Corte giust. 21 luglio 2011, Kelly, in 004/10; 22 giugno 2010, Melki in CI 88 e 189/10).
Il rinvio pregiudiziale, infatti, ha la funzione di verificare la legittimità di una legge nazionale rispetto al diritto dell’Unione Europea e se la normativa interna sia pienamente rispettosa dei diritti fondamentali della persona, quali risultanti dall’evoluzione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo e recepiti dal Trattato sull’Unione Europea; sicché il giudice, effettuato tale riscontro, non è obbligato a disporre il rinvio solo perché proveniente da istanza di parte (cfr. sez. 3 civ. n. 13603 del 21.6.2011, Guidi contro Ass. Generali Spa, rv. 618393).
D’altra parte, come sottolineato dalle Sezioni Uniti Civili di questa Corte (Sez. Un. Civ. n. 16886 del 5.7.2013, Wind Telecomunicazioni Spa contro Telecom Italia Spa, rv. 626853) la Corte di Giustizia Europea, nell’esercizio del potere di interpretazione di cui all’art. 234 del Trattato istitutivo della Comunità economica europea, non opera come giudice del caso concreto, bensì come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale, in capo al quale permane in via esclusiva la funzione giurisdizionale.
Pertanto, il giudice nazionale di ultima istanza non è soggetto all’obbligo di rimettere alla Corte di giustizia delle Comunità europee la questione di interpretazione di una norma comunitaria quando non la ritenga rilevante ai fini della decisione o quando ritenga di essere in presenza di un “acte claire” che, in ragione dell’esistenza di precedenti pronunce della Corte ovvero dell’evidenza dell’interpretazione, rende inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale (ex multis Sez. Un. Civ., 24 maggio 2007, n. 12067, Victoria Vericherung Ag. contro Beruffi, rv. 597142 ; sez. 1 civ., ord. 22 ottobre 2007, n. 22103, Agenzia Erogazioni Agricoltura contro Cons. Agrario Ravenna Scari, rv. 599710 ; sez. 1 civ., 26 marzo 2012, n. 4776, Gaz contro Rai Spa ed altri, rv. 621620).
Occorre operare, in altri termini, una delibazione di fondatezza della questione proposta.
Ebbene, ritiene il Collegio che, nel caso che ci occupa, non sussista tale necessario fumus. Ed invero, la direttiva comunitaria invocata, riguardante la normativa a tutela antinfortunistica dei lavoratori, individua evidentemente il minimum di tutela che gli Stati membri devono approntare a tutela degli stessi.
Pertanto, se anche l’art. 92 del D.lgs. 81/08 andasse interpretato nei termini di cui in ricorso -e come si vedrà, così non è- vorrebbe dire che il legislatore italiano ha inteso predisporre una tutela maggiore al lavoratore. Il che, evidentemente, non gli era inibito.
9. I profili di fondatezza del proposto ricorso, riguardanti i restanti motivi. attengono, invece, alle evidenti carenze motivazionali da cui è affetto il provvedimento impugnato in relazione: a) a compiti e oneri del coordinatore per l’esecuzione; b) alla prova della natura interferenziale del rischio concretizzatosi nel caso che ci occupa; c) all’individuazione del soggetto su cui gravi il controllo dell’avvenuta formazione ed informazione dei lavoratori; d) alla valutazione del rapporto che assume in sede di giudizio controfattuale, da un lato rispetto all’incidente prodottosi e dall’altro rispetto ad eventuali omissioni colpose ascrivibili alla B.B., l’intervento del facente veci di capocantiere F..
Ritiene il Collegio che vada nuovamente specificato quello che è il ruolo del coordinatore per l’esecuzione, cui fa carico, fatto eccezione che per il caso limite di cui alla lettera f) dell’art. 92 d.lgs. 81/08, la sola gestione del rischio interferenziale.
Questa Corte di legittimità, con una serie di sentenze concordanti (17631/2009, 38002/2008, 24010/2004, 39869/2004) ha stabilito una responsabilità del coordinatore per l’esecuzione in quanto garante della sicurezza dei lavoratori nel cantiere ed ha specificato che si tratta di una posizione di garanzia che si affianca, in modo autonomo e indipendente, a quella del datore di lavoro e dei committente. Tuttavia, va qui ulteriormente precisato che il coordinatore per l’esecuzione non è il controllore del datore di lavoro, ma il gestore del rischio interferenziale.
Importante snodo, ad avviso del Collegio, è tuttavia la sentenza n. 18149 del 21.4.2010, Celli e altro, rv. 247536, pur se relativa ad un fatto commesso prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 81 del 2008 e del d.lgs. n. 106 del 2009, ove si ribadiva che il coordinatore per l’esecuzione dei lavori, oltre ai compiti che gli sono affidati dall’art. 5 d.lgs. n. 494 del 1996, ha una autonoma funzione di alta vigilanza che riguarda la generale configurazione delle lavorazioni che comportino rischio interferenziale, e non anche il puntuale controllo, momento per momento, delle singole attività lavorative, che è demandato ad altre figure operative (datore di lavoro, dirigente, preposto).
Una riprova verrebbe -secondo il condivisibile dictum di quella sentenza- dal fatto che il coordinatore proceda per atti formali: contestazione scritta alle imprese delle irregolarità riscontrate e segnalazione al committente di dette irregolarità. Solo in caso di imminente e grave pericolo direttamente riscontrato gli è consentito di sospendere immediatamente i lavori.
Pertanto il coordinatore ha solo un ruolo di vigilanza in merito allo svolgimento generale delle lavorazioni e non è obbligato ad effettuare quella stringente vigilanza, momento per momento, che compete al datore di lavoro e ai suoi collaboratori. Solo qualora l’infortunio sia riconducibile a carenze organizzative generali di immediata percettibilità sarà dunque configurabile anche la responsabilità del coordinatore; la conseguenza è che non è richiesta la sua continua presenza nel cantiere con ruolo di controllo.
Il caso della sentenza 18149/2010 riguardava un lavoratore che era caduto nel vuoto. Questa Corte ha rilevato come il rischio di caduta implicasse l’uso delle cinture di sicurezza, ma l’obbligo di vigilanza da parte del coordinatore comportava solo il controllo sulla esistenza in cantiere delle cinture di sicurezza e sulla previsione della loro utilizzazione in quella lavorazione. E non sul fatto che il singolo lavoratore se ne servisse realmente in quella specifica situazione.
10. Per la sentenza oggi impugnata si deve addivenire ad un’affermazione di responsabilità dell’odierna ricorrente per avere omesso la verifica del piano operativo di sicurezza, che rispetto al PSC costituisce piano complementare di dettaglio e che individua le corrette procedure di lavoro e presuppone la valutazione dei rischi.
La Corte fiorentina ritiene che la B.B., subentrata nel mese di luglio 2008 al precedente coordinatore per l’esecuzione ing. P.L., la cui posizione è stata definita con separato giudizio, non potesse semplicemente fare affidamento sull’attività del precedente coordinatore, omettendo ogni personale verifica in ordine all’idoneità del piano operativo di sicurezza in rapporto alle lavorazioni che nell’autunno 2008 erano in corso per la realizzazione delle pile.
La circostanza che l’arch. B.B. abbia assunto l’incarico di coordinatore nel momento in cui quei lavori erano in corso di realizzazione – secondo i giudici del gravame del merito- condivisibilmente implicava il subentro, a tutti gli effetti, nella posizione di garanzia, con la conseguente necessità di verificare la regolarità delle procedure che l’impresa appaltatrice T. stava utilizzando per mettere in opera gli apprestamenti di sicurezza necessari per le lavorazioni in quota, dei quali i sistemi di ancoraggio delle passerelle erano parte primaria ed essenziale.
Meno condivisibile appare il passaggio successivo, che pone tra i compiti di controllo del (nuovo) coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione anche, necessariamente, la verifica della corretta attuazione delle procedure di montaggio, che non potevano essere difformi – come invece si assume essere di fatto avvenuto – da ciò che era previsto nelle istruzioni del fabbricante P..
La sentenza amplia oltremodo il ruolo e le funzioni del CSE affermando che questo controllo rientrava senza dubbio nel compito di “generale vigilanza sulla configurazione delle lavorazioni” che è affidata al coordinatore e non implicava affatto attività che non sono proprie di questa figura, come il rapporto diretto con le maestranze ovvero una minuziosa ingerenza nella gestione giornaliera del cantiere. Si trattava invece, secondo la Corte fiorentina, di focalizzare una (doverosa) attenzione su aspetti che ex post sono risultati di macroscopica evidenza: 1. la valutazione del rischio assolutamente insufficiente da parte dell’impresa appaltatrice; 2. la mancata individuazione e attuazione, da parte della T., delle corrette procedure di lavoro, in particolare l’assenza di documenti di progettazione esecutiva che individuassero con chiarezza le esatte modalità di montaggio (e consentissero di trasferire in modo puntuale tali informazioni ai lavoratori).
La Corte territoriale addirittura pone a carico del CSE la responsabilità per “una organizzazione di cantiere nella quale, come rilevato dalla ASL nella più volte citata relazione del 24.4.2009, si registravano carenze anche nel controllo delle maestranze da parte dei preposti” (cfr. pag. 17 della sentenza impugnata).
11. Ebbene, la norma di riferimento circa il ruolo e i compiti del CSE è l’art. 92 del d.lgs 81/08 e succ. modif. (Obblighi del coordinatore per l’esecuzione dei lavori) secondo cui: “1. Durante la realizzazione dell’opera, il coordinatore per l’esecuzione dei lavori: a) verifica, con opportune azioni di coordinamento e controllo, l’applicazione, da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni loro pertinenti contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento di cui all’articolo 100 e la corretta applicazione delle relative procedure di lavoro; b) verifica l’idoneità dei piano operativo di sicurezza, da considerare come piano complementare di dettaglio del piano di sicurezza e coordinamento di cui all’articolo 100, assicurandone la coerenza con quest’ultimo, adegua il piano di sicurezza e di coordinamento di cui all’articolo 100 e il fascicolo di cui all’articolo 91, comma 1, lettera b), in relazione all’evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, valutando le proposte delle imprese esecutrici dirette a migliorare la sicurezza in cantiere, verifica che le imprese esecutrici adeguino, se necessario, i rispettivi piani operativi di sicurezza; c) organizza tra i datori di lavoro, ivi compresi i lavoratori autonomi; la cooperazione ed il coordinamento delle attività nonché la loro reciproca informazione; d) verifica l’attuazione di quanto previsto negli accordi tra le parti sociali al fine di realizzare il coordinamento tra i rappresentanti della sicurezza finalizzato ai miglioramento della sicurezza in cantiere; e) segnala al committente e al responsabile dei lavori, previa contestazione scritta alle imprese e ai lavoratori autonomi interessati, le inosservanze alle disposizioni degli articoli 94, 95 e 96 e alle prescrizioni dei piano di cui all’articolo 100, e propone la sospensione dei lavori, l’allontanamento delle imprese o dei lavoratori autonomi dal cantiere, o la risoluzione del contratto. Nel caso in cui il committente o il responsabile dei lavori non adotti alcun provvedimento in merito alla segnalazione, senza fornire idonea motivazione, il coordinatore per l’esecuzione dà comunicazione dell’inadempienza alla azienda unità sanitaria locale e alla direzione provinciale del lavoro territorialmente competenti; f) sospende, in caso di pericolo grave e imminente, direttamente riscontrato, le singole lavorazioni fino aita verifica degli avvenuti adeguamenti effettuati dalle imprese interessate. 2. Nei casi di cui all’articolo 90, comma 5, il coordinatore per l’esecuzione, oltre a svolgere i compiti di cui al comma 1, redige il piano di sicurezza e di coordinamento e predispone il fascicolo, di cui all’articolo 91, comma 1, lettere a) e b).
Dunque, con riferimento alle attività lavorative svolte in un cantiere edile, il coordinatore per l’esecuzione dei lavori è titolare di una posizione di garanzia che si affianca a quella degli altri soggetti destinatari della normativa antinfortunistica, in quanto gli spettano compiti di “alta vigilanza”, consistenti: a) nel controllo sulla corretta osservanza, da parte delle imprese, delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento nonché sulla scrupolosa applicazione delle procedure di lavoro a garanzia dell’incolumità dei lavoratori; b) nella verifica dell’idoneità del piano operativo di sicurezza (POS) e nell’assicurazione della sua coerenza rispetto al piano di sicurezza e coordinamento; c) nell’adeguamento dei piani in relazione all’evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, verificando, altresì, che le imprese esecutrici adeguino i rispettivi POS. (così sez. 4, n. 44977 del 12.6.2013, Lorenzi ed altro, rv. 257167).
In particolare – si è condivisibilmente sottolineato (nella recente sez. 4, n. 37597 del 5.6.2015, Giambertone, non mass.) che il controllo sul rispetto delle previsioni del piano non può essere meramente formale, ma va svolto in concreto, secondo modalità che derivano dalla conformazione delle lavorazioni.
Essenziale è che alla previsione della cautela segua un’attività di verifica della sua attuazione, che compete alle imprese esecutrici. Attività di verifica che tuttavia non può significare presenza quotidiana nel cantiere ma, appunto, presenza nei momenti delle lavorazioni topici rispetto alla funzione di controllo.
L’alta vigilanza della quale fa menzione la giurisprudenza di questa Corte, lungi dal poter essere interpretata come una sorta di contrazione della posizione di garanzia indica piuttosto il modo in cui vanno adempiuti i doveri tipici. Mentre le figure operative sono prossime al posto di lavoro ed hanno quindi poteri-doveri di intervento diretto ed immediato, il coordinatore opera attraverso procedure; tanto è vero che un potere-dovere di intervento diretto lo ha solo quando constati direttamente gravi pericoli (art. 92, co. 1 lett. f) digs. n.81/2008).
L’obbligo di cui alla lettera f) è particolarmente importante, perché è norma di chiusura che, eccezionalmente, individua la posizione di garanzia del CSE nel potere-dovere di intervenire direttamente sulle singole lavorazioni pericolose, il che implica anche la necessità legale di frequentare il cantiere con una periodicità compatibile con la possibilità di rilevare le eventuali lavorazioni pericolose.
Per il resto, il coordinatore per l’esecuzione, identifica momenti topici delle lavorazioni e predispone attività che assicurino rispetto ad esse l’attuazione dei piani attraverso la mediazione dei datori esecutori’. Certo non può esimersi dal prevedere momenti di verifica della effettiva attuazione di quanto esplicato e previsto; ma anche queste azioni di verifica non possono essere quotidiane ed hanno una periodicità significativa e non burocratica (cioè dettate dalle necessità che risultino idonee allo scopo e non routinarie). Parallelamente, l’accertamento giudiziale non dovrà ricercare i segni di una presenza diuturna, ma le tracce di azioni di coordinamento, di informazione, di verifica, e la loro adeguatezza sostanziale.
Il problema interpretativo è ancora una volta quello di comprendere se la verifica del corretto montaggio – e soprattutto dell’utilizzo di bullonature idonee – potesse essere controllo esigibile dalla B.B..
Peraltro, la sentenza impugnata è meramente asserita in ordine alle gravi e generalizzate carenze del cantiere.
C’è poi da tenere conto della peculiarità del caso concreto, che ha visto l’ottenimento, da parte degli operai che le richiedevano, di bulloni non idonei.
La motivazione del giudice del rinvio dovrà confrontarsi, sul punto, con la recente giurisprudenza di questa Corte di legittimità secondo cui la funzione di alta vigilanza, che grava sul coordinatore per la sicurezza dei lavori, ha ad oggetto quegli eventi riconducibili alla configurazione complessiva, di base, della lavorazione e non anche gli eventi contingenti, scaturiti estemporaneamente dallo sviluppo dei lavori medesimi e, come tali, affidati al controllo del datore di lavoro e del suo preposto (sez. 4, n. 46991 del 12.11.2015, Porterà ed altri, rv. 265661, fattispecie nella quale è stata ritenuta la responsabilità del coordinatore per la sicurezza in relazione al crollo di un’impalcatura).
12. Tuttavia la gestione di tali rischi – va ribadito- non va confusa con quelli che sono propri e specifici del committente e del datore di lavoro, che non sono e non possono essere gestiti dal coordinatore per l’esecuzione dei lavori, fatte salve quelle violazioni così macroscopiche che vadano a ricadere nella ipotesi sub f) del citato art. 92 d.lgs 81/08.
In altri termini, in tutti gli altri casi estranei a tale ultima previsione normativa, da considerarsi di chiusura, l’alta vigilanza del coordinatore per l’esecuzione viene in rilievo laddove si sia in presenza di un rischio interferenziale, sia cioè in atto una lavorazione che vede contemporaneamente al lavoro più imprese, con un aumentato rischio antinfortunistico reciproco.
Egli assume la funzione più generale di garante sulle situazioni di pericolo nel cantiere, indipendentemente dalle lavorazioni in corso, solo nei casi di macroscopiche carenze organizzative o di attuazione della normativa antinfortunistica, direttamente riscontrate, che, ai sensi dell’art. 92 lett. f) determinino una situazione di pericolo grave ed imminente, che gli impone di sospendere le singole lavorazioni fino alla verifica degli avvenuti adeguamenti effettuati dalle imprese interessate
Occorre avere riferimento ai contenuti minimi del piano di sicurezza e di coordinamento, il cui controllo è demandato a figure professionali quale l’odierna ricorrente, previsti dall’allegato XV del D.gs. 81/2008 (in particolare al punto 2.3. ove, in relazione ai contenuti minimi del PSC in riferimento alle interferenze tra le lavorazioni ed al loro coordinamento si legge: “2.3.3. Durante i periodi di maggior rischio dovuto ad interferenze di lavoro, il coordinatore per l’esecuzione verifica periodicamente, previa consultazione della direzione dei lavori, delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi interessati, la compatibilità della relativa parte di
PSC con l’andamento dei lavori, aggiornando il piano ed in particolare il cronoprogramma dei lavori, se necessario. 2.3.4. Le misure di coordinamento relative all’uso comune di apprestamenti, attrezzature, infrastrutture, mezzi e servizi di protezione collettiva, sono definite analizzando il loro uso comune da parte di più imprese e lavoratori autonomi. 2.3.5. Il coordinatore per l’esecuzione dei lavori integra il PSC con i nominativi delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi tenuti ad attivare quanto previsto al punto 2.2.4 ed al punto 2.3.4 e, previa consultazione delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi interessati, indica la relativa cronologia di attuazione e le modalità di verifica).
Pare evidente, ad avviso del Collegio, che la norma in questione delimiti l’area “ordinaria” di garanzia del coordinatore per l’esecuzione alle fasi in cui si concretizzi un rischio interferenziale.
Fatto salvo che -e in questo la motivazione è carente, per cui su tale aspetto dovrà tornare il giudice del rinvio- non ci si trovasse di fronte ad una situazione di quelle, come più volte detto, riconducibili alla lettera f dell’art. 92 d.lgs 81/08.
13. Chiariti i limiti dell’agire del coordinatore per l’esecuzione, va detto che è possibile restringere il campo della verifica circa la formazione ed informazione dei lavoratori delle varie aziende ad un aspetto prevalentemente formale.
Il coordinatore per l’esecuzione, in altri termini, è chiamato a verificare documentalmente che tali obblighi siano stati assolti dai datori di lavoro delle aziende coinvolte nelle lavorazioni simultanee.
Sul punto la motivazione della sentenza impugnata appare fortemente contradittoria. Ed invero, da un lato i giudici fiorentini (cfr. pag. 16 della sentenza impugnata) affermano che la vigilanza circa il puntuale assolvimento degli obblighi di formazione e informazione si collega strettamente al compito del coordinatore di verificare l’attuazione del PSC e la corretta applicazione delle procedure di lavoro (come indicato dall’art. 92 comma 1 lett. a) d.lgs. 81/2008), in quanto l’applicazione corretta delle procedure di lavoro presuppone, su un piano logico, che i lavoratori siano adeguatamente formati. E affermano di non condividere l’affermazione che questo obbligo di vigilanza debba essere svolto su un piano puramente ed esclusivamente “documentale”, ritenendo tale conclusione in evidente contrasto con il carattere di effettività della vigilanza del coordinatore e con il dovere di puntuale informazione sui possibili rischi connessi alle varie fasi dell’attività lavorativa che su di esso grava.
Poi, però, la Corte territoriale sembrano rendersi conto che sul punto si creerebbe una figura di garanzia speculare e sovrapponibile rispetto a quella del datore di lavoro. Ed allora si legge in motivazione che questa circostanza si poteva ricavare agevolmente anche dalla documentazione a disposizione del coordinatore per l’esecuzione dei lavori. E, a pag. 19 della sentenza impugnata, si legge che “si trattava di carenze facilmente accertabili effettuando un puntuale controllo sulla base della documentazione (che tra l’altro già di per sé rendeva evidente, come sopra detto, che nessuno dei lavoratori aveva ricevuto un addestramento riguardo il montaggio dei sistemi di ripresa P.) e tutt’al più acquisendo informazioni in merito alla generale prassi di cantiere: rimanendo dunque nell’ambito di vigilanza che, secondo la comune impostazione giurisprudenziale, compete al coordinatore per l’esecuzione dei lavori”.
Alla fine, dunque, la Corte territoriale, pur affermando come petizione di principio il contrario, sembra abituarsi, man mano che procede nella motivazione, all’idea che il controllo del CSE sul punto formazione-informazione debba essere prevalentemente documentale.
La motivazione della risultanza di tale riscontro negativo emergente dagli atti in possesso del CSE rimane, tuttavia, allo stadio di mera enunciazione.
Va allora ribadito che il CSE ha il compito di verificare documentalmente che vi sia stata un’attività di formazione ed informazione dei lavoratori, ma colui su cui grava l’onere di verificare -e la responsabilità- che tale formazione sia effettiva è il datore di lavoro ai sensi dell’art. 37 d.lgs 81/08.
Va aggiunto che nel caso che ci occupa la Corte distrettuale non motiva in maniera adeguata sulla natura del rischio concretizzatosi.
In particolare i giudici fiorentini paiono esaltare in motivazione l’aspetto soggettivo, ma non danno conto adeguatamente se, in ragione della lavorazione che si andava compiendo, fosse oggettivamente in atto un lavoro contestuale da parte di operai di varie imprese, e quindi legittimamente potesse parlarsi della sussistenza di un rischio interferenziale.
14. In ultimo, fondato va ritenuto il denunciato vizio motivazionale afferente il giudizio controfattuale.
Non pare rilevante la questione proposta con il quinto motivo di ricorso circa il fatto che il montaggio dei coni avvenisse a mano ovvero con degli utensili da cantiere.
Viceversa, la motivazione della sentenza impugnata appare fortemente carente in relazione al ruolo del F..
I giudici di merito paiono considerare F. come un operaio pari agli altri.
La sentenza della Corte territoriale lo indica, tuttavia, quale “geometra…assistente di cantiere”.
La funzione che appare evincersi anche dalla lettura della sentenza di primo grado è quella di capo cantiere di fatto, in assenza del soggetto a ciò normalmente preposto. E – va ricordato- in tema di prevenzione degli infortuni, il capo cantiere, la cui posizione è assimilabile a quella del preposto, assume la qualità di garante dell’obbligo di assicurare la sicurezza del lavoro, in quanto sovraintende alle attività, impartisce istruzioni, dirige gli operai, attua le direttive ricevute e ne controlla l’esecuzione sicché egli risponde delle lesioni occorse ai dipendenti (sez. 4, n. 9491 del 10.1.2013, Ridenti, rv. 254403).
Orbene, corretta appare la doglianza per cui, una volta scrutinata l’esistenza del rischio interferenziale, il giudice del rinvio dovrà valutare il ruolo che abbia svolto l’intervento del F. rispetto all’evento prodottosi.
Se l’addebito principale mosso alla B.B. è, infatti, quello di non avere vigilato sulla corretta formazione ed informazione dei lavoratori in ordine allo specifico rischio corso, appare evidente che i lavoratori in questione, come lamenta il ricorrente, ad un determinato punto ebbero ad accorgersi del rischio che correvano. E si rivolessero perciò a colui che consideravano essere il capo-cantiere, che fornì loro due bulloni di montaggio non idonei.
Il problema da valutare, in altri termini, è anche quello dell’evitabilità dell’evento alla luce del recente dictum di questa Corte di legittimità costituito dalla sentenza sez. 4 n. 4987 del 15.1.2016, ANAS s.p.a., allo stato non mass.
15. Il giudice del rinvio, dunque, dovrà attenersi al principio di diritto secondo cui il coordinatore per l’esecuzione ha una posizione di garanzia non va confusa con quella del datore di lavoro. Egli ha una autonoma funzione di alta vigilanza che riguarda la generale configurazione delle lavorazioni che comportino rischio interferenziale, e non anche il puntuale controllo, momento per momento, delle singole attività lavorative, che è demandato ad altre figure operative (datore di lavoro, dirigente, preposto). L’unica eccezione è costituita dalla previsione di cui all’art. 92 lett. f D.lgs 81/08 secondo cui) egli, in caso di pericolo grave e imminente, direttamente riscontrato, ed evidentemente immediatamente percettibile, è tenuto a sospendere le singole lavorazioni fino alla verifica degli avvenuti adeguamenti effettuati dalle imprese interessate. Il coordinatore per l’esecuzione, in altri termini, non è il controllore del datore di lavoro, ma il gestore del rischio interferenziale.
Una volta correttamente inquadrata la figura della B.B. in tale ruolo, il giudice del rinvio, unico a poter rivalutare gli elementi di fatto del caso concreto, dovrà fornire con motivazione congrua e logica, il che nel provvedimento oggi impugnato non è avvenuto, una risposta a vari quesiti.
Doveva e poteva essere B.B., nella qualità ricoperta, competendole una mera “alta vigilanza” sul rischio interferenziale, controllare lo stato di ancoraggio delle passerelle? Era il pericolo costituito dal loro inidoneo montaggio immediatamente percettibile ed in quanto tale riconducibile alla previsione di cui all’art. 92 lett f) d.lgs. 81/08? Aveva la B.B. il dovere e anche la possibilità di accertare un’evenienza come quella dell’avvenuta fornitura di supporti inidonei? E, soprattutto, a fronte di un rischio percepito dai lavoratori (cfr. art. 36 del d.lgs 81/08) faceva parte il F. di quella catena organizzativa dirigenziale cui ex art. 37 d.lgs 81/08 competeva la valutazione del rischio? E, se la risposta a tale ultimo quesito fosse positiva, c’è stata nel caso che ci occupa un’effettiva rivalutazione del rischio? Ed era stato il facente funzioni del preposto al cantiere a rimandare gli operai in quota?

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Firenze per nuovo esame.
Così deciso in Roma il 24 maggio 2016

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