Un bell’articolo, piuttosto lungo e articolato, è apparso sulla rivista Ambiente e Lavoro a firma di Michele Montresor, un tecnico della prevenzione lombarda. Il testo ci spinge a riflettere su due temi importanti: l’esperienza come elemento di prevenzione e il tema della colpa e della responsabilità.
Strettamente connessi tra loro, per l’importanza che rivestono questi argomenti valgono però approfondimenti distinti, ed è per questo che dedicheremo loro due diversi articoli della nostra rubrica Angolo Acuto.
Partiamo dal primo: l’esperienza. È inevitabile citare l’art. 2087 del Codice Civile, il quale afferma che
l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
L’autore si sofferma sul sostantivo “esperienza”, che insieme alla particolarità del lavoro e alla tecnica orienta il comportamento del datore di lavoro.
È evidente che il legislatore, al momento della redazione dell’art.2087, non si riferisse esclusivamente all’esperienza personale dell’imprenditore quanto piuttosto all’esperienza collettiva di una comunità scientifica che condivide un «sapere» utile all’obiettivo di tutela dei lavoratori stessi.
L’imprenditore è tenuto allora a informarsi (o a coinvolgere chi è più informato di lui) sulle migliori condizioni tecniche ed organizzative di lavoro, per il raggiungimento dell’obiettivo di salute insito nel 2087 e adottare, conseguentemente, le migliori soluzioni conosciute.
Le scelte tecniche, organizzative e procedurali, dovranno coniugare il binomio tecnologicamente fattibile (art. 18 comma 1 lett. Z del D.Lgs 81/08 ) e concretamente attuabile (Corte cost. 25 luglio 1996 n.312). Quest’ultimo concetto ricordato dalla Corte indica quelle misure che appartengono
ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti sicché penalmente censurata sia soltanto la deviazione dei comportamenti dell’imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive.
Il riferimento della norma alle conoscenze tecniche, secondo il parere giuridico consolidato e sostenuto dalla citata sentenza, non è di carattere astratto e poggiante su un generico scibile planetario, ma un concreto mezzo o procedura “generalmente applicata” nel mondo produttivo, nazionale o internazionale (per esempio da aziende concorrenti), relativo allo specifica mansione o processo operante in azienda. L’obiettivo finale che ogni azienda ha non è solo quello di intervenire sulla base delle proprie o altrui esperienze già svolte, ma anche di agire per migliorarsi nel tempo e quindi intraprendere e programmare nuove azioni, anche in forma sperimentale.
Questo secondo elemento è legato non solo all’iniziativa del datore di lavoro, ma a quella dell’intera comunità aziendale, che si muove consapevolmente con tutta l’attenzione necessaria verso una costante riduzione o eliminazione (laddove come abbiamo visto sia tecnicamente realizzabile) dei rischi a cui sono esposti i lavoratori.
Il miglioramento parte inevitabilmente dall’osservazione di ciò che si fa quotidianamente, cercando i punti deboli, i limiti, cosa è perfettibile. Per esempio accorgendosi immediatamente e preventivamente di movimenti, comportamenti, atteggiamenti, procedure organizzative che potrebbero favorire la comparsa di un evento dannoso. Un modo di procedere che ricorda molto quello che viene insegnato nelle scuole manageriali di Qualità totale.
I risultati dell’osservazione vanno confrontati, per diventare poi oggetto di specifici interventi che una volta monitorati e verificati nella loro validità portano alle modifiche necessarie per raggiungere l’auspicato miglioramento.
Fanno parte del monitoraggio la formazione dell’intera comunità aziendale all’attenzione, l’abitudine di annotare la dinamica degli eventi importanti secondo criteri prestabiliti, come nel caso dei cosiddetti mancati infortuni o degli infortuni veri e propri i quali vanno ricostruiti, anche internamente, con procedure definite e puntuali.
L’insieme di questi elementi può rivelarsi prezioso fattore di conoscenza e di prevenzione.
La domanda che si può porre è: come si può fare e chi può farlo?
È evidente che non può essere il singolo imprenditore a improvvisare e non è sufficiente che egli proceda unicamente in splendida solitudine. Una modalità globale d’intervento non può che derivare dall’azione convergente di associazioni delle parti sociali, degli organismi paritetici, e infine di settori pubblici. Dall’Inail, ai Comitati di Coordinamento regionali, ai Servizi di prevenzione delle Asl.
Ci sono già esperienze in questo senso. L’autore dell’articolo cita l’esperienza del settore areonautico. Un comparto che da anni in modo altamente organizzato e proceduralizzato, ricerca, quasi spasmodicamente, di non perdere nemmeno la più piccola informazione utile a migliorarsi. A questa attività dobbiamo la sicurezza con cui viaggiamo. Nel trasporto aereo si sono già stabilite delle modalità di raccolta delle informazioni che provengono dalle singole compagnie aeree o dagli stessi viaggiatori e s’indirizzano verso la struttura pubblica di controllo.
Anche nel settore della salute e sicurezza qualche iniziativa è stata già avviata. Così l’Inail con l’iniziativa Sbagliando si impara e il sistema infor.MO, oppure l’esperienza di DORS.
Sono attività in larga parte in divenire e che mostrano sicuramente delle lacune, anche d’impostazione, ma rappresentano la volontà di imboccare con decisione una strada che non può che portare nel tempo a significativi miglioramenti.