La presunzione legale di derivazione prof. di una malattia vale solo per lavorazioni tabellate, essendo altrimenti onere del lavoratore provare la riconducibilità della malattia all’attività.
Presidente: MAMMONE GIOVANNI
Relatore: CAVALLARO LUIGI
Data pubblicazione: 21/07/2016
Fatto
Con sentenza depositata il 16.10.2010, la Corte d’appello di Bari, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda di E.S. volta a conseguire la rendita o l’indennizzo rivendicati in conseguenza della malattia asbesto-correlata dalla quale era affetto, ritenendo che egli non avesse dato idonea prova dell’esposizione a rischio tutelato.
Avverso questa sentenza ricorre E.S., formulando tre motivi di censura. Resiste l’INAIL con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Diritto
Con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 436, 416, 132 n. 4, 434 n. 1, 437 e 112 c.p.c., 111 Cost. , 13, comma 8, l. n. 257/1992, 47, d.l. n. 269/2003 (conv. con l. n. 326/2003), e 47, d.P.R. n. 639/1970, per avere la Corte territoriale dato ingresso nel giudizio di appello a motivi non specifici e per di più concernenti eccezioni formulate dall’Istituto solo in fase di gravame e relative alla carenza di prova circa la sua pregressa esposizione a rischio professionale.
Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato. E’ infondato nella parte relativa alla presunta genericità dei motivi d’appello, che viceversa, per come trascritti nel ricorso per cassazione, risultano affatto specifici, contestandosi precisamente dall’Istituto la sussistenza di prove certe relative del fatto che l’attività di verifica, raspatura e vulcanizzazione dei pneumatici avesse comportato l’esposizione dell’odierno ricorrente a rischio amianto. E’ invece inammissibile nella parte relativa alla presunta novità dell’anzidetta eccezione, che parte ricorrente assume essere formulata per la prima volta in sede di gravame: in disparte il rilievo per cui quella in esame costituisce eccezione solo in senso improprio, trattandosi a rigore di contestazione relativa alla sussistenza del fatto costitutivo del diritto alla prestazione previdenziale che è onere dell’attore provare, onde potrebbe essere sollevata per la prima volta anche in appello (cfr. tra le tante Cass. n. 2543 del 1999), salva la preclusione derivante dalla sua pregressa non contestazione (Cass. n. 16201 del 2009), è decisivo in specie rilevare che parte ricorrente non ha né trascritto né indicato in quale luogo del fascicolo processuale e/o di parte sarebbe reperibile la memoria di costituzione dell’INAIL nel giudizio di primo grado; e poiché l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato – come nella specie – un error in procedendo, presuppone che la parte, nel rispetto del principio di autosufficienza, riporti, nel ricorso stesso, gli elementi ed i riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio processuale, onde consentire a questa Corte di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi dell’iter processuale (cfr. da ult. Cass. n. 19410 del 2015), il motivo in parte qua deve ritenersi inammissibile.
Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 74 e 78 ss., T.U. n. 1124/1965, 13, comma 2, d.lgs. n. 38/2000, nonché omessa motivazione e violazione degli artt. 111 Cost. e 132 n. 4 c.p.c., per avere la Corte escluso il suo diritto alla rendita o almeno all’indennizzo, nonostante che la malattia denunciata fosse asbesto-correlata.
Il motivo è inammissibile. La sentenza impugnata, infatti, non ha escluso la possibile correlazione tra la malattia da cui è affetto il ricorrente e la sua pregressa esposizione ad amianto, ma piuttosto, muovendo dal fatto che l’attività lavorativa alla quale egli era stato addetto non apparteneva al novero di quelle c.d. tabellate, ha ritenuto che né la prova testimoniale né quella documentale avessero dato validi riscontri circa la presenza di amianto, con ciò conformandosi al principio secondo cui la presunzione legale di derivazione professionale dì una malattia vale solo rispetto alle lavorazioni tabellate, essendo altrimenti onere del lavoratore provare la riconducibilità della propria malattia all’attività svolta (cfr. fra le tante Cass. n. 4927 del 2004). E appuntandosi il motivo di doglianza su questioni estranee alla ratio decidendi della sentenza gravata, non può che darsi continuità al principio secondo cui la proposizione con il ricorso per cassazione di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del motivo di ricorso, non potendo quest’ultimo essere configurato quale impugnazione rispettosa del canone di cui all’art. 366 n. 4 c.p.c. (v. in tal senso Cass. n. 17125 del 2007).
Da ultimo, con il terzo motivo, il ricorrente si duole di violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 437, 442 e 445 c.p.c., nonché di violazione e falsa applicazione degli artt. 74 e 78 ss., T.U. n. 1124/1965, 13, comma 2, d.lgs. n. 38/2000, ed altresì di omessa motivazione e violazione degli artt. 111 Cost., e 132 n. 4 c.p.c., per non avere la Corte provveduto ad esercitare i suoi poteri officiosi per integrare la prova relativa all’esposizione all’amianto.
Anche tale motivo è inammissibile. E’ sufficiente sul punto ricordare che il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 c.p.c. è censurabile per cassazione solo qualora la parte abbia preventivamente investito il giudice di una specifica richiesta in tal senso (cfr. da ult. Cass. n. 22534 del 2014) e rilevare che, nel caso di specie, parte ricorrente non ha indicato quando e come avrebbe sollecitato in tal senso la Corte di merito, così violando il canone di specificità dei motivi di ricorso per come ora prescritto dall’art. 366 nn. 4 e 6 c.p.c..
Il ricorso, pertanto, va conclusivamente rigettato. Le spese del giudizio dì legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi € 2.100,00, di cui € 2.000,00 per compensi, oltre il 15% per spese generali e accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 21.4.2016.