L’art. 28 del D.Lgs. 81/2008 dice:
La valutazione di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a) (la valutazione dei rischi n.d.r.) …, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’Accordo Europeo dell’8 ottobre 2004…
Leggendo la norma ci si accorge di due singolarità. La prima che lo stress viene compreso tra i “rischi particolari”, che riguardano “gruppi di lavoratori esposti”, come fosse un rischio non universale e per di più ristretto a piccoli numeri di persone. Mentre il citato Accordo dell’8 Ottobre del 2004 dice sin dalle prime battute che
lo stress può potenzialmente colpire qualsiasi posto di lavoro e qualunque lavoratore, indipendentemente dalla grandezza dell’impresa, dal settore di attività o dal tipo di relazione contrattuale o di lavoro.
E i documenti europei lo confermano, dando il numero di milioni di lavoratori colpiti.
La seconda particolarità deriva invece da una domanda, che molti si saranno fatti, circa il motivo della evidenziazione tra i diversi rischi psico sociali del solo rischio stress.
Queste due peculiarità hanno prodotto nelle aziende che ci si concentrasse unicamente su questo rischio, e allo stesso tempo che venisse trasformato in un rischio psicosociale facilmente accertabile e risolvibile, sostanzialmente inesistente. È bastato utilizzare la prima parte delle linee guida dell’Inail, che consiste in una mera elencazione di dati, cosiddetti oggettivi, per sentirsi totalmente rassicurati. In Italia non esisterebbe dunque nessuna azienda con uno stress di livello tale da necessitare interventi importanti.
Insomma, i rischi psicosociali si riducono principalmente allo stress, e questo è fermamente sotto controllo. Tutto bene… salvo che stiamo parlando di un mondo che non c’è.
È evidente che dalla stesura della norma alla realtà il processo non ha funzionato a dovere. La norma doveva essere scritta meglio e riferirsi all’insieme dei rischi psicosociali e mentali, e non solo allo stress. Poi, probabilmente, si sarebbe dovuto fare di più non per ridimensionare e rassicurare le aziende e i medici competenti (non i lavoratori), ma per fornire visioni più concrete del tema e degli strumenti utili a prevenirlo e fronteggiarlo.
È probabile che dietro a tutto questo ci sia un ritardo di tipo culturale. L’Italia è il secondo Paese manufatturiero in Europa. La nostra cultura è ancora legata al lavoro come fatica fisica, e la fatica mentale e psicologica è vista come un derivato di quella, una conseguenza e non un rischio a se stante.
Il primo paradosso è che furono proprio due italiani a svelare l’esistenza di questo disagio. I primi studi sulla fatica “nervosa” nel lavoro degli scrivani risalgono a Bernardino Ramazzini (siamo nel XVII sec.), e fu poi Antonio Gramsci nel suo Americanismo e fordismo, studio critico sull’organizzazione tayloristica del lavoro, a denunciare l’affaticamento nervoso dei lavoratori. Per anni è stato proprio l’approccio tayloristico come mezzo “scientifico” alla determinazione di una organizzazione tecnica e razionale del lavoro a relegare la nascente psicologia del lavoro fuori dall’azienda, concentrata soprattutto sulla ricerca dei migliori test attitudinali. Le prime indagini e teorizzazioni fecero la loro comparsa solo negli anni ’30 in America e nel dopoguerra in Europa, ma con limitati successi in entrambi i continenti.
Quest’ultimo aspetto ci conduce a un secondo paradosso: quello che ignora quanto da quei primi studi a oggi si è imparato, e cioè il legame profondo tra i rischi psicosociali e la struttura organizzativa intesa non solo in senso meccanico, ma anche relazionale e sociale. Nel 1986 l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), ben prima l’emanazione del D.Lgs. 81/2008, definì i rischi psicosociali in termini di interazioni tra contenuto del lavoro, gestione e organizzazione del lavoro, condizioni ambientali e le esigenze e competenze dei lavoratori, scrivendo che:
quegli aspetti di progettazione del lavoro e di organizzazione e gestione del lavoro, e i loro contesti ambientali e sociali, possono potenzialmente dar luogo a danni di natura psicologica, sociale o fisica.
Questo legame si tende a edulcorarlo, se non a rimuoverlo, per evitare di dover guardare alla prevenzione, preferendo puntare alla meno compromettente assistenza a quei lavoratori che mostrino segni di stress.
In un Paese manufatturiero e fatto di piccole aziende, l’organizzazione è un nervo scoperto. Modificarla, ridisegnarla sulla base dell’analisi della condizione reale della vita aziendale, anche per migliorare qualitativamente il processo e aumentare il benessere lavorativo appare un compito faticoso che richiede troppi cambiamenti nella cultura imprenditoriale e manageriale, in quella organizzativa e relazionale, in quella comunicativa e collaborativa. Questo vale tanto per gli imprenditori che per le organizzazioni dei lavoratori. Lo stesso concetto di benessere lavorativo è stato introdotto in tempi recentissimi e ha incontrato forti resistenze a essere adottato nella quotidianità aziendale.
E qui incontriamo un terzo elemento che riguarda l’obbiettivo finale di tutta la normativa sulla salute e sicurezza del lavoro. Stiamo parlando del traguardo del benessere organizzativo indicato dalla Carta di Ottawa redatta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, casualmente sempre nel 1986 come la definizione dell’ILO. E lo incrociamo sul piano di una vera prevenzione ai rischi psicosociali tra cui lo stress correlato al lavoro.
In conclusione lo stress non è il solo rischio di natura psicologica presente nelle aziende e tantomeno è un rischio “particolare”, nell’accezione di eccezionale o ristretto a limitati gruppi di lavoratori. Lo stress è uno dei diversi rischi psicosociali che sono legati alla complessa configurazione sia procedurale che relazionale nel modo di organizzare i processi produttivi e sociali interni.
L’impostazione che finora è stata data al tema del benessere sul lavoro è stata ampiamente riduttiva e insoddisfacente. Ha staccato gli aspetti organizzativi dalle loro conseguenze in termini di benessere sociale, facendo del disagio che esiste nei luoghi di lavoro un rischio di tipo sanitario da colmare, nei rarissimi casi in cui viene registrato, con interventi mirati solo agli individui e non al complesso della vita aziendale. O nei casi migliori a piccoli ritocchi organizzativo.
Questo comportamento fa a pugni non solo con le esigenze di una moderna azienda aperta alla competizione internazionale, ma anche con i consolidati indirizzi mondiali e europei presenti nei vari Documenti strategici sulla salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro della Commissione europea succedutisi dal 2002 fino all’attuale 2014-2020. Da questo ring è ora che si scenda. Tra l’altro, tutto questo riguarda anche le aziende pubbliche dove la circolare del Ministero della Funzione Pubblica del 24 Marzo 2004 indicava nel benessere organizzativo l’obbiettivo da assumere in tutte le Direzioni delle strutture pubbliche.