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Aumentare le pene è utile?

Tra le notizie di oggi (13.03.2017, ndr) troverete quella di una proposta presentata al Senato lo scorso 9 febbraio 2017, che intende introdurre una nuova fattispecie di reato, quello di omicidio sul lavoro, e aggravare le pene per le lesioni gravi o gravissime verificatesi negli ambienti di lavoro.
L’introduzione di un reato specifico mira, oltre che a perseguire lo stesso con maggiore precisione, ad aggravarne la pena.

La proposta parlamentare parte da una analisi dell’attuale situazione che il primo firmatario, il Sen. Barozzino di Sinistra Italiana, sintetizza in una recente intervista. Alla domanda se non sia preferibile dare maggiore attenzione alla prevenzione piuttosto che all’inasprimento delle pene, risponde:

Ma oggi il mondo del lavoro è talmente cambiato, in peggio, tanto che sembra quasi impossibile parlare di prevenzione. Il mondo del lavoro è stato devastato da una precarietà senza precedenti: retribuzioni effettuate attraverso voucher o buoni pasti, lavoro sottopagato, partite iva, siamo di fronte a lavori di poche ore, di pochi giorni, sottopagato e senza diritti. La domanda che dobbiamo porci è come si può fare prevenzione con un’organizzazione del lavoro così discontinua e, soprattutto, come può il lavoratore pretendere sicurezza sul lavoro a fronte della sua debolezza contrattuale, sapendo che magari dal giorno dopo potrebbe essere mandato tranquillamente a casa per aver osato rivendicare i suoi diritti?.

Quindi, alla domanda sul motivo della proposta aggiunge:

Innanzitutto con questo testo intendiamo dare più forza a chi non ce l’ha, ovvero ai lavoratori. Inoltre vogliamo dare un segnale ai datori di lavoro, che finora hanno goduto di troppa impunità, e far intendere che gli omicidi sul lavoro non possono più essere considerati alla stregua di reati minori, che per la maggior parte non vengono sanzionati, approfittando anche della prescrizione.

Un’affermazione che meriterebbe forse qualche valutazione in più, che non facciamo per brevità e per concentraci sul merito della proposta. Ci limitiamo qui a proporre due spunti di riflessione.

Il primo riguarda il legame tra l’inasprimento delle pene e l’obiettivo della diminuzione dei reati, mentre il secondo riguarda il nesso tra prevenzione e diminuzione degli infortuni mortali.

Sulla relazione tra inasprimento delle pene e significativa diminuzione dei reati è da tempo noto che non ci sono relazioni evidenti né a livello statistico, né empirico.

Nella relazione di Giorgio Santacroce, primo presidente della Cassazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario troviamo la seguente considerazione:

La gravità della sanzione non assicura un effetto di deterrenza, sicché appare criticabile la tendenza del legislatore a inasprire continuamente le pene detentive. L’esempio più lampante è che per esempio la Fini-Giovanardi non ha prodotto alcuna contrazione dei reati in materia di droghe.

I reati dipendono da una serie di variabili relativamente indipendenti dalla pesantezza della pena. E la pesantezza incide molto meno di quanto si creda sulla prevenzione del reato. Per fare un esempio, riteniamo molto più importante rivedere come la magistratura imposta le indagini e poi i processi su questo tipo di reati.

L’ex Pm di importanti processi riguardanti la salute e la sicurezza dei lavoratori, Raffaele Guariniello, ha dimostrato ampiamente che se l’imputato viene perseguito per omicidio volontario le pene sono più che commisurate al delitto. Il magistrato torinese ha anche aggiunto, in numerosi interventi, che larga parte della magistratura affronta con una preparazione insufficiente i processi per i reati legati alla sicurezza dei lavoratori. E ha proposto la nascita di una Procura Nazionale proprio per rendere professionalmente più preparati i magistrati, affinare le tecniche e le prassi giuridiche e infine per rendere omogenei gli interventi sul piano nazionale. Qualsiasi giudizio si possa avere su quest’ultima proposta (spesso osteggiata) non accantona la realtà della relativa impreparazione degli apparati pubblici nell’indagare e giudicare i reati relativi a questi temi propri del mondo del lavoro.

Precisiamo che non si discute sulla necessità, per dare forza alle norma, di sanzioni e apparati di controllo. Ciò che è in discussione sono la misura e le priorità.

Per comprendere meglio cosa sia preferibile guardiamo sempre ai dati reali. L’introduzione di omicidio stradale (a cui s’ispira dichiaratamente la proposta) nei primi sei mesi ha diminuito poco più del 3%  gli incidenti stradali, di meno del 5% i morti e poco meno del 4% i feriti; nei primi cinque mesi, invece, la novità della patente a punti fece diminuire del 18% gli incidenti e il numero dei morti e dei feriti diminuirono rispettivamente del 20 e del 23%.

Altro esempio. Numerosi studi svolti in Italia, in alcuni Paesi europei e negli Stati Uniti portano alla conclusione che risultano più efficaci e duraturi, ai fini della riduzione della criminalità diffusa nei quartieri, misure quali l’aumento dell’illuminazione stradale o la cura dell’arredo urbano, più di quanto non abbiano effetto la presenza delle forze dell’ordine o l’inasprimento delle pene detentive.

Da questi esempi è facile capire che la prevenzione non è affatto un intervento da applicare quando tutto va bene. La prevenzione è piuttosto la strada maestra per prosciugare l’acqua dove nuotano i reati. Insomma è il “comune sentire” dell’importanza della salute e della sicurezza, vissuto in qualsiasi ambiente di lavoro e persino in casa, nei lavori domestici.

Facciamo un altro esempio: il fumo. Il tabagismo non è diminuito con la semplice introduzione del divieto di fumare nei locali e delle multe risultanti. È fortemente diminuito da quando l’opinione pubblica si è gradualmente convinta della nocività di questa pratica. Quando sul tema si è registrata una convergenza da parte di istituzioni, medici, giornali e mezzi di comunicazione che fino allora avevano esaltato la figura accattivante e “maschia” o emancipatrice per le donne, del fumatore.
Insomma, va considerato se non sia molto più incisivo affermare il “disvalore” sociale del lavorare in condizioni pericolose. In sostanza puntare su uno “stigma” sociale diffuso.

Infine una considerazione sull’efficacia. La maggioranza degli infortuni mortali avvengono in tre settori: l’agricoltura, l’edilizia, i trasporti.
Molti infortuni mortali che avvengono in agricoltura e nei trasporti coinvolgono non solo lavoratori dipendenti, ma il più delle volte lavoratori autonomi o nel caso del settore agricolo pensionati. In questi casi il “dare un segnale al datore di lavoro” è un obiettivo sbagliato.

Si ha l’impressione a volte che ci si faccia condurre da una visione riduttiva o ideologicamente astratta del mondo del lavoro, che non aiuta l’individuazione delle misure necessarie a contrastare il grave fenomeno degli infortuni. Il dibattito è aperto. Sarà interessante sapere le opinioni dei nostri lettori.

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