Nel caso di lavoratori esposti al rischio di rapina, l’osservanza del generico obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c., impone al datore di lavoro l’adozione delle correlative misure di sicurezza cd. “innominate”, sicché incombe sullo stesso, ai fini della prova liberatoria correlata alla quantificazione della diligenza ritenuta esigibile nella predisposizione delle suindicate misure, l’onere di far risultare l’adozione di comportamenti specifici che, pur non dettati dalla legge o altra fonte equiparata, siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli “standards” di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe (Cass. n. 34 del 2016, v. pure 15082 del 2014, n. 8855 del 2013). L’art. 2087 c.c. rende necessario l’apprestamento di adeguati mezzi di tutela dell’integrità psicofisica dei lavoratori nei confronti dell’attività criminosa di terzi nei casi in cui la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia di attività esercitata, in ragione della movimentazione, anche contenuta, di somme di denaro, nonché delle plurime reiterazioni di rapine in un determinato arco temporale (v. Cass. n. 3424 del 2016, nonché Cass. n. 23793 del 2015 e n. 7405 del 2015).
Presidente Macioce
Relatore Blasutto
Fatto
1. La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 1423/2014, accogliendo l’appello proposto da M.P., annullava il licenziamento intimato dalla ASL datrice di lavoro per superamento del periodo di comporto e ordinava la reintegrazione dell’appellante nel posto di lavoro; condannava la ASL al risarcimento del danno pari alla retribuzione globale di fatto dal licenziamento alla reintegra, oltre al risarcimento dei danni non patrimoniali, liquidati in Euro 93.001,99, oltre interessi legali.
2. A differenza del primo Giudice, la Corte di appello riteneva che le assenze dal lavoro verificatesi fino al 4.3.02 fossero ascrivibili a colpa del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. e dunque non computabili ai fini del periodo di comporto. Ciò in quanto era documentato in atti che il ricorrente aveva subito un’aggressione all’interno dell’ospedale ad opera di due individui mascherati che lo avevano assalito e malmenato nottetempo nel luogo di lavoro senza difficoltà, avendo potuto utilizzare uno dei quattro possibili accessi, tutti incustoditi e privi anche di normali misure atte a garantire l’impenetrabilità di estranei all’interno, in un contesto poco illuminato e non presidiato. Erano stati altresì provati in giudizio la notorietà dell’insufficiente sicurezza dell’Ospedale, la particolare pericolosità del reparto di radiologia (ubicato nel seminterrato), la verificazione di furti e minacce. Alla stregua di tale ricostruzione fattuale, la Corte di appello riteneva comprovata la nocività dell’ambiente di lavoro e la mancata adozione da parte della ASL delle più elementari misure di sicurezza, quale la predisposizione di ordinari sistemi di sbarramento atti a prevenire l’ingresso, soprattutto di notte, all’interno del reparto di radiologia per ragioni estranee alle esigenze di cura.
3. Dall’evento traumatico, oltre alle assenze per malattia, erano derivati postumi permanenti. L’accertamento peritale aveva evidenziato un danno biologico pari al 27%, superiore a quello riconosciuto dal Tribunale. Applicate le tabelle elaborate dal Tribunale di Roma – anno 2013 applicate in primo grado e considerata l’età del ricorrente all’epoca dell’evento (42 anni), la Corte di appello riconosceva un risarcimento pari ad Euro 77.001,99, oltre Euro 20.000,00 per risarcimento di ulteriori danni non patrimoniali, come quantificato in primo grado secondo una tecnica di computo che non aveva formato oggetto di specifiche censure.
4. Per la cassazione di tale sentenza la ASL (…) propone ricorso affidato ad un motivo.
Resiste il dott. M. con controricorso, seguito da memoria ex art. 378 c.p.c..
Diritto
1. Con unico motivo di ricorso l’Azienda sanitaria ricorrente denuncia erronea motivazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. per avere la Corte territoriale ricondotto a causa di servizio un’aggressione posta in essere da terzi, per motivi estranei all’attività lavorativa del dipendente. Si era trattato di un evento imprevisto, che non poteva essere ricondotto alla mancata adozione di misure di sicurezza, ma era ascrivibile ad una condotta criminale tenuta da terzi estranei al rapporto di lavoro per finalità estorsive. La portata dell’art. 2087 c.c. non può essere ampliata tanto da oggettivizzare la portata della norma.
1.1. La Corte aveva pure errato nel computo nelle assenze in quanto l’evento morboso era iniziato il 24.2.2002 per cui da tale data occorreva calcolare a ritroso le assenze per malattia verificatesi nel triennio precedente, per un totale di 380 giorni. Inoltre, l’evento morboso era durato ininterrottamente dal 25.2.2002 al 20.5.2004, per ulteriori giorni 816, sì che dal 24.2.1999 al 20.5.2004 il dipendente aveva accumulato un totale di gg. 1196 di assenza, superiore al limite di 36 mesi, previsto dalla norma contrattuale quale limite massimo di conservazione del posto di lavoro, sommando le assenze per malattia e il periodo massimo di aspettativa, di cui il M. aveva fruito.
2. Il ricorso è inammissibile.
3. Nel caso di lavoratori esposti al rischio di rapina, l’osservanza del generico obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c., impone al datore di lavoro l’adozione delle correlative misure di sicurezza cd. “innominate”, sicché incombe sullo stesso, ai fini della prova liberatoria correlata alla quantificazione della diligenza ritenuta esigibile nella predisposizione delle suindicate misure, l’onere di far risultare l’adozione di comportamenti specifici che, pur non dettati dalla legge o altra fonte equiparata, siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli “standards” di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe (Cass. n. 34 del 2016, v. pure 15082 del 2014, n. 8855 del 2013). L’art. 2087 c.c. rende necessario l’apprestamento di adeguati mezzi di tutela dell’integrità psicofisica dei lavoratori nei confronti dell’attività criminosa di terzi nei casi in cui la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia di attività esercitata, in ragione della movimentazione, anche contenuta, di somme di denaro, nonché delle plurime reiterazioni di rapine in un determinato arco temporale (v. Cass. n. 3424 del 2016, nonché Cass. n. 23793 del 2015 e n. 7405 del 2015).
3.1. La Corte di appello ha evidenziato, con accertamento di fatto incensurabile in questa sede, che erano stati comprovati in giudizio la notorietà dell’insufficiente sicurezza dell’Ospedale, la particolare pericolosità del reparto di radiologia (ubicato nel seminterrato) e soprattutto il fatto che già in precedenza si erano verificati furti e rapine. Ha dunque formulato il proprio giudizio muovendo dalla considerazione che al datore di lavoro fosse nota la pericolosità dei locali e la facilità di accesso da parte di terzi estranei e ciò nonostante nessuna misura idonea a scongiurare il ripetersi di fatti criminosi fosse stata adottata dalla ASL per assicurare l’incolumità del personale in servizio, soprattutto in orario notturno. Parte ricorrente non si confronta con tale specifica motivazione, limitandosi ad opporre, in modo del tutto generico, che l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, laddove la sentenza aveva ben evidenziato la sussistenza di colpevoli omissioni.
4. In merito al presunto errore di computo delle assenze, del pari il ricorso è avulso da qualsiasi riferimento alla soluzione adottata dalla Corte di appello. Questa ha premesso che l’art. 24, comma 1, del CCNL garantisce la conservazione del posto “per un periodo di 18 mesi” e che “ai fini della maturazione del predetto periodo si sommano le assenze per malattia intervenute nei tre anni precedenti l’ultimo episodio morboso in corso”; a tale periodo si era poi aggiunto l’ulteriore periodo di aspettativa di 18 mesi, di cui pure il ricorrente aveva fruito. Ha poi evidenziato che l’ultimo episodio morboso era iniziato il 29.5.2004 e che, pertanto il triennio di riferimento del calcolo era quello anteriore a tale data, per cui una volta escluse le assenze anteriori al 4.3.02, il periodo di conservazione del posto di lavoro non era stato superato.
4.1. L’odierna ricorrente prescinde tanto dalla disamina della disciplina contrattuale, quanto dalla ricostruzione delle assenze operata dal giudice di appello, per assumere a riferimento senza spiegarne i motivi e senza denunciare alcuna erronea interpretazione del contratto collettivo – il triennio anteriore alla prima assenza (24.2.2002) successiva al verificarsi dell’evento traumatico.
5. Il ricorso è dunque inammissibile. Consegue la condanna della ASL ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
6. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, inammissibilità del ricorso) per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013).
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 100,00 per esborsi e in Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13 comma 1-quater del d.P.R. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis, dello stesso articolo 13.