Non è sufficiente una mera presenza sul posto di lavoro di attrezzature idonee per il compimento di alcuni particolari lavori di sicura pericolosità, se i dipendenti non sono stati informati ed istruiti sulla necessità di impiego e sul corretto uso di tali attrezzature.
Relazione dell’obbligo di cui all’art. 35 con quello previsto dall’art. 37 del citato D.Lgs.: interpretazione dinamica della disciplina della prevenzione degli infortuni sul lavoro, al fine di non ritenere che l’adempimento di obblighi meramente formali costituiscano una comoda esimente di responsabilità per il datore di lavoro.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARZANO Francesco – Presidente –
Dott. IACOPINO Silvana Giovann – Consigliere –
Dott. VISCONTI Sergio – Consigliere –
Dott. COLOMBO Gherardo – Consigliere –
Dott. FOTI Giacomo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
Sentenza
sul ricorso proposto da:
1) L.A., N. IL (OMISSIS);
2) R.M., N. IL (OMISSIS);
avverso SENTENZA del 11/07/2005 CORTE APPELLO di VENEZIA;
visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott.
VISCONTI SERGIO;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. GALASSO Aurelio
che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.
Udito il difensore Avv. CIGLIANO Francesco, in sostituzione dell’Avv.
NOVELIO FURIN, che ha concluso per l’accoglimento dei ricorsi.
Fatto
In data 16/12/1998, C.G., dipendente della CALP s.r.l., riportava la frattura biossea della gamba sinistra a seguito dello schiacciamento derivato dalla caduta di un carrello elevatore da lui movimentato e sbilanciatosi nell’effettuare una curva. Sia il Tribunale di Vicenza, in primo grado, che la Corte di Appello di Venezia, quest’ultima con sentenza dell’11/07/2005, dichiaravano la responsabilità di L.A., amministratore unico della CALP s.r.l., e di R.M., responsabile di stabilimento, in ordine al reato di lesioni colpose (art. 590 c.p.), e questi ultimi venivano condannati, in secondo grado, valutato l’avvenuto risarcimento del danno, alle pene rispettivamente di mesi uno e giorni quindici di reclusione, e di mesi due e giorni quindici di reclusione, sostituendosi le pene detentive con la multa di Euro 1.710,00 per il L., e di Euro 2.850,00 per il R..
La Corte territoriale ha ritenuto che la responsabilità degli imputati risultava certa valorizzandosi solo i profili di colpa contestati nel capo di imputazione, e ad essi unicamente faceva riferimento nella motivazione, considerando che quello non contestato, ma al quale aveva fatto riferimento il giudice di prime cure, e cioè l’uso contemporaneo di due muletti per il trasporto di una trave, e che il Tribunale aveva ritenuto utilizzabile, in quanto gli imputati si erano potuti difendere sul punto, avrebbe al più limitato la nullità ex art. 522 c.p.p., comma 2, solo a quella parte della sentenza che aveva pronunciato sul fatto ulteriore.
Per ciò che concerne la posizione del L. la Corte di merito ha posto in evidenza che dall’istruttoria dibattimentale era risultato che nessun corso specifico sull’uso dei carrelli e/o altre simili attrezzature era stato mai svolto all’interno dell’azienda, in violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 37 e 89, comma 2, lett. b).
In ordine poi alla responsabilità di entrambi, ma soprattutto del R., lo stesso giudice ha rilevato che l’operazione di movimentazione della trave era stata eseguita in modo altamente imprudente ed inosservante di specifiche disposizioni a tutela della sicurezza dei lavoratori (D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 168 e 389, lett. c)), essendo inidonei sia il sistema di spostamento che l’impiego di macchinari dimostratisi totalmente inadatti allo scopo.
In concreto la trave, lunga circa cinque metri e di peso superiore a 20 quintali, era stata trasportata a mezzo di due carrelli elevatori, non tenendosi conto delle difficoltà della movimentazione, tanto che uno dei due carrelli, in una curva, si sbilanciava e cadeva sulla gamba sinistra del C., procurandogli le gravi lesioni personali.
La Corte di Venezia, infine, ha escluso altresì qualsiasi concorso di responsabilità della persona offesa e dell’altro carrellista che avevano eseguito la manovra, effettuata con la costante presenza del R., le cui direttive venivano seguite dai due operai.
Sia il L. che il R., a mezzo del loro comune difensore, hanno proposto ricorso per Cassazione, chiedendo l’annullamento della citata sentenza di appello.
Il L. e il R. hanno formulato quattro motivi di impugnazione comuni, che così si possono riassumere:
1) Inosservanza degli artt. 521 e 522 c.p.p., anche in relazione agli artt. 516 e 519 c.p.p., e mancanza di motivazione. I ricorrenti hanno assunto che la circostanza, non contestata nei capi di imputazione, dell’uso contemporaneo di due muletti, era stata determinante per la declaratoria di condanna da parte del giudice di primo grado, per cui non si trattava di una mera valutazione integrativa delle risultanze istruttorie. Inoltre, i ricorrenti hanno assunto che il giudice di prime cure aveva ritenuto che il divieto di uso dei due muletti si trovava certamente nei libretti di istruzione, che quindi si dovevano acquisire ai sensi dell’art. 507 c.p.p.;
2) Violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 37 e difetto di motivazione per avere il giudice di appello dato rilevanza alla circostanza che nessun corso di formazione per l’uso dei carrelli era stato tenuto, là dove era molto più rilevante l’addestramento tecnico e pratico impartito nell’ambito dell’azienda dagli addetti più anziani, e non essendovi sul punto prova contraria;
3) Manifesta illogicità della motivazione ed ulteriore violazione dell’art. 522 c.p.p. in relazione agli artt. 516, 519 e 521 c.p.p. per avere il giudice di appello ritenuto che il datore di lavoro e il direttore di stabilimento devono osservare le norme antinfortunistiche per evitare infortuni ai lavoratori, ed escluso condotte disfunzionali della parte offesa, là dove nella specie era logico un affidamento su un comportamento dei lavoratori conforme all’addestramento ricevuto, utilizzando le attrezzature presenti nell’azienda; nè ci si poteva attendere dal R. una vigilanza costante (“minuto per minuto”) sull’operato dei lavoratori;
4) Difetto di motivazione sulla qualifica e sulle funzioni professionali e sulla condotta in relazione anche a quella del coimputato R.. In sintesi, i ricorrenti hanno assunto che non erano cumulabili i due diversi profili di colpa addebitati agli imputati, e cioè al L. l’omessa informazione, e al R. la mancata vigilanza sul rispetto delle disposizioni impartite, reiterando la messa a disposizione dei mezzi idonei all’operazione di spostamento della trave. E’ da ritenersi – secondo i ricorrenti – quindi del tutto illogica la condanna di entrambi gli imputati.
Il L. ha poi proposto altri due motivi di impugnazione non estensibili al R.:
1) Violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 35, comma 1, e difetto di motivazione per essere stata ritenuta l’assenza di apparecchiature idonee sul posto di lavoro, là dove invece esse esistevano ed una più corta imbracatura, arrotolata sulle forche avrebbe evitato l’evento; secondo il ricorrente, il giudice di appello non si è pronunciato sul punto;
2) Difetto di motivazione in ordine all’Erogazione della pena perchè superiore al minimo edittale, non avendo la Corte tenuto adeguato conto del risarcimento del danno, nonchè della condotta imprudente dai lavoratori addetti all’operazione dalla quale erano derivate le lesioni.
R.M., a sua volta, oltre ai motivi di ricorso comuni a quelli prospettati dal L., e già citati, ha proposto altri due motivi di impugnazione:
1) Violazione del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 168 e omessa motivazione sulla inidoneità del sistema di spostamento, non essendo sufficiente il mero richiamo al verificarsi dell’incidente per ritenere dimostrata la responsabilità del ricorrente;
2) Omessa e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla irrogazione della pena trattandosi di un semplice preposto, senza alcun potere di spesa, spettante invece al L., nè comprendendosi la differenza di pena di un mese di reclusione tra i due condannati.
Diritto
Il primo motivo di impugnazione è identico in entrambi i ricorsi. Il L. e il R. hanno censurato la sentenza impugnata per violazione del principio di correlazione tra contestazione e sentenza, con conseguente nullità a norma degli artt. 521 e 522 c.p.p.. In particolare, i ricorrenti hanno dedotto che la sentenza di primo grado ha basato il giudizio di responsabilità sull’uso contemporaneo di due muletti, circostanza che non si evince dai capi di imputazione, e, considerato che tale pericolo sarebbe risultato dai libretti di istruzione, questi avrebbero dovuto essere acquisiti agli atti del dibattimento ex art. 507 c.p.p..
Il motivo di ricorso è infondato per quattro ragioni. La prima è che la sentenza di primo grado non fonda affatto il giudizio di responsabilità solo sull’uso dei due muletti, ma principalmente sulla mancanza di istruzioni idonee agli operai, e soprattutto sullo scorretto sistema di imbracamento del materiale trasportato (pag. 6), trattandosi di una trave lunga circa cinque metri e del peso di oltre venti quintali. Nella motivazione della sentenza del Tribunale è specificato che la trave era stata legata con cinghie, e le forche erano state sollevate solo di quel poco sufficiente per impedire che la trave strisciasse per terra. Il giudice di prime cure ha poi fatto espresso riferimento alle dichiarazioni dello stesso consulente della difesa, il quale ha rilevato la “situazione di notevole instabilità”, in quanto si erano determinate delle oscillazioni che hanno causato la caduta della trave, ed ha precisato che la manovra poteva essere eseguita più correttamente e in modo meno pericoloso anche con l’uso contemporaneo di due muletti. Da tali fatti il giudice di primo grado ha dedotto la responsabilità del datore di lavoro ( L.) per non avere istruito i dipendenti, e quella del direttore di stabilimento ( R.), presente sul posto, per avere consentito che il trasporto fosse effettuato in maniera così imprudente. Solo a completamento di queste valutazioni, il Tribunale ha ritenuto ravvisarsi un ulteriore profilo di colpa riguardante il contemporaneo uso di due muletti, che sarebbe vietato, in primo luogo, dal “comune buon senso”, e poi dal contenuto dei libretti di istruzione (pag. 8). Come ha quindi esattamente ritenuto la Corte di Appello, la valutazione del giudice di primo grado non costituisce e non esaurisce i tipi di colpa specifica addebitabili agli imputati, ma al più integra gli altri già individuati e chiaramente descritti nei capi di imputazione.
La seconda ragione per la quale il motivo di ricorso è comunque infondato è che trattasi – come riconosciuto dagli stessi ricorrenti – di censura alla sentenza di primo grado, mentre il giudice di appello ha ritenuto di potere anche prescindere da tale profilo di colpa specifica, essendo determinante la scelta del sistema di spostamento con mezzi assolutamente inidonei alla particolarità del trasporto.
La terza ragione è che tale contestazione, pur valutata dallo stesso giudice di merito come non contenuta nei capi di imputazione, è invece presente, ascrivendosi al L. di non avere fornito ai lavoratori le informazioni e le istruzioni necessarie per l’uso dei carrelli elevatori, e per essere stato addebitato al R., di essersi servito “contemporaneamente di due carrelli elevatori inadatti e non rispondenti alle caratteristiche necessarie per eseguire l’opera in sicurezza”.
La quarta ed ultima ragione che induce a non accogliere il motivo di ricorso è che il Tribunale ha dato atto che “la difesa ha avuto modo di interloquire su tale punto”, e, dalla lettura della sentenza di primo grado, ciò appare evidente, in quanto l’argomento inerente all’opportunità o meno dell’uso dei due muletti è ripreso dallo stesso consulente tecnico della difesa nel corso del giudizio di primo grado, per cui non risulta esservi stata alcuna violazione delle garanzie difensive.
La giurisprudenza di legittimità è costante nel ritenere che “con riferimento al principio di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione” (Cass. sezioni unite 19/06/1996 n. 16;conformi Cass. 07/06/2000 n. 7929; Cass. 05/07/2000 n. 10525; Cass. 20/02/2003 n. 34051; Cass. 22/01/2005 n. 27355; Cass. 23/11/2005 n. 46242).
In conclusione, si osserva che ognuna delle quattro ragioni esposte sarebbe di per sè sola sufficiente per dichiarare infondato il primo motivo di ricorso.
Con il secondo motivo di gravame, i ricorrenti hanno dedotto la violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 37 e il difetto di motivazione per avere il giudice di appello dato rilevanza alla circostanza che nessun corso di formazione per l’uso dei carrelli era stato tenuto, là dove era molto più rilevante l’addestramento tecnico e pratico impartito nell’ambito dell’azienda dagli addetti più anziani, e non essendovi sul punto prova contraria.
L’art. 37 citato dispone che il datore di lavoro fornisca ai dipendenti ogni informazione preventiva e ogni istruzione di uso “necessaria in rapporto alla sicurezza”, con riferimento anche “alle situazioni anormali prevedibili”, fermo restando l’obbligo di vigilanza.
L’addestramento tecnico, invocato dai ricorrenti, è senz’altro utile per completare il quadro informativo preventivo (e non a caso l’art. 37 è intitolato “informazione”), ma non può direttamente sostituirlo, tanto più quando si tratta di compiere operazioni sicuramente rischiose, come quella in esame. Per questo motivo il legislatore da priorità alla “informazione”, che implicitamente i ricorrenti ammettono di non avere fornito alla parte offesa C., configurando così la palese violazione di una norma prudenziale inerente alla sicurezza dei lavoratori.
Come è stato condivisibilmente ritenuto, “in materia di infortuni sul lavoro, il D.Lgs. n. 626 del 1994, se da un lato prevede anche un obbligo di diligenza del lavoratore, configurando addirittura una previsione sanzionatoria a suo carico, non esime il datore di lavoro, e le altre figure ivi istituzionalizzate, ed, in mancanza, il soggetto preposto alla responsabilità ed al controllo della fase lavorativa specifica, dal debito di sicurezza nei confronti dei subordinati. Questo consiste, oltre che in un dovere generico di formazione e di informazione, anche in forme di controllo idonee a prevenire i rischi della lavorazione che tali soggetti, in quanto più esperti e tecnicamente competenti e capaci, debbono adoperare al fine di prevenire i rischi, ponendo in essere la necessaria diligenza, perizia e prudenza, anche in considerazione della disposizione generale di cui all’art. 2087 cod. civ., norma “di chiusura” del sistema, da ritenersi operante nella parte in cui non è espressamente derogata da specifiche norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro” (Cass. 29/10/2003 n. 49492).
Il terzo motivo di impugnazione, comune ad entrambi i ricorrenti, pur intitolato “manifesta illogicità della motivazione ed ulteriore violazione dell’art. 522 c.p.p., in relazione agli artt. 516, 519 e 521 c.p.p.” si sostanzia in una censura alla sentenza impugnata per non avere valorizzato il comportamento colpevole dei carrellisti, tra cui il C., che avevano eseguito la manovra in modo imprudente, pur trattandosi di loro specifiche funzioni lavorative.
Sul punto la Corte territoriale si è soffermata, e, pur dando atto di un comportamento senz’altro imprudente dei carrellisti, ha ritenuto che la presenza del direttore di stabilimento sul posto (nella sentenza di primo grado è anche precisato che fu il R. a disporre l’operazione di trasporto, come dichiarato dalla parte offesa), e la circostanza che le condotte dei dipendenti non fossero assolutamente imprevedibili, e cioè “non eccentriche e disfunzionali rispetto alla prestazione lavorativa loro affidata”, costituivano fatti idonei a ritenere che non vi sia stata interruzione del nesso di causalità tra le condotte colpose degli imputati e l’evento.
Tale motivazione è del tutto logica e corretta. Questa Corte, pur recentemente ampliando l’incidenza della condotta colposa sopravvenuta, tale da interrompere il nesso di causalità, ha comunque ritenuto che “ai fini dell’apprezzamento dell’eventuale interruzione del nesso causale tra la condotta e l’evento (articolo 41 c.p., comma 2), il concetto di causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento non si riferisce solo al caso di un processo causale del tutto autonomo, giacchè, allora, la disposizione sarebbe pressochè inutile, in quanto all’esclusione del rapporto causale si perverrebbe comunque sulla base del principio condizionalistico o dell’equivalenza delle cause di cui all’articolo 41 c.p., comma 1. La norma, invece, si applica anche nel caso di un processo non completamente avulso dall’antecedente, ma caratterizzato da un percorso causale completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale, ossia di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta” (Cass. 26/10/2005 n. 1214).
Nella specie, non solo le condotte dei carrellisti non sono così imprevedibili, tali da elidere l’omissione dell’obbligo di informazione da parte del datore di lavoro L. e l’imprudente direttiva di esecuzione del direttore di stabilimento R., ma si è anche verificato che le stesse sono state attuate in presenza di un responsabile della sicurezza, il quale – senza necessità di soffermarsi su quanto assunto dai ricorrenti, e cioè che al R. non spettava l’obbligo di vigilare “minuto per minuto” – ha comunque disposto (secondo l’accertamento dei giudici di merito) che il trasporto avvenisse in modo imprudente, tale da cagionare il rovesciamento di un carrello e le gravi lesioni prodotte al C..
Palesemente infondato è poi il quarto motivo di ricorso, proposto da entrambi gli imputati, e secondo il quale le condotte colpose de datore di lavoro e del direttore di stabilimento non erano cumulabili, sicchè i giudici di merito avrebbero dovuto scegliere se condannare l’uno o l’altro. Tale censura è fondata sulle rispettive qualifiche e funzioni professionali, oltre che sulla reiterazione delle condotte colpose da parte dei dipendenti.
Come è noto, nei reati colposi possono ben verificarsi entrambe le situazioni codificate di cooperazione nel reato colposo (art. 113 c.p.) e di concorso di cause colpose indipendenti (art. 41 c.p.), distinte dal dato psicologico, in quanto nella cooperazione ciascuno dei compartecipi deve essere consapevole della convergenza della propria condotta con quella altrui, senza però che tale consapevolezza investa l’evento richiesto per l’esistenza del reato, mentre nel concorso di cause colpose indipendenti più soggetti contribuiscono colposamente a cagionare l’evento, senza tuttavia la consapevolezza di contribuire alla condotta altrui (Cass. 30/03/2004 n. 45069).
In particolare, nei reati riguardanti violazioni delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, spetta al datore di lavoro il principale complesso di obblighi in materia di sicurezza del lavoro e l’inosservanza di tali obblighi si pone quale presupposto fondamentale perchè l’evento possa verificarsi, ancorchè nella serie causale possano inserirsi altre condotte colpose.
In realtà solo quando il datore di lavoro ha adempiuto a tutti i suoi obblighi e nulla ha trascurato perchè la sicurezza del lavoro fosse garantita, egli potrà essere esonerato da ogni responsabilità. Negli altri casi si verifica un concorso di cause nella produzione dell’evento, non già un’esclusione della responsabilità del datore di lavoro.
Ad analoghe conclusioni si deve pervenire per altra persona che ricopra una “posizione di garanzia” o anche eventualmente per un terzo che si immetta con negligenza o imprudenza nella causazione dell’evento o infine per la condotta colposa dello stesso lavoratore- parte offesa.
Nella specie, si individua il concorso di cause colpose indipendenti, trattandosi di condotte non collegate sotto il profilo psicologico, ed essendo in particolare l’omissione del datore di lavoro L., di essere venuto meno al dovere di informazione, non convergente con l’imprudenza del R..
Con altro motivo di impugnazione, il L. ha censurato la sentenza impugnata per violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 35 e difetto di motivazione, per non avere risposto al motivo di appello attinente alla circostanza che sul posto le attrezzature idonee esistevano, e che non erano state adoperate.
Invece, la motivazione della sentenza impugnata è congrua e logica sul punto (pag. 2), ritenendo che “l’osservazione non coglie nel segno una volta che si consideri che non di una generica disponibilità di idonee attrezzature si tratta in questa sede quanto piuttosto del fatto che per quella singola determinata trave da trasportare era stato adottato, con il sostanziale consenso del R. che aveva ordinato il trasporto, un sistema di spostamento e dei macchinari che si erano dimostrati totalmente inidonei allo scopo”.
In altre parole il giudice di merito ha ritenuto, correttamente interpretando l’art. 35 che disciplina gli obblighi del datore di lavoro in materia di sicurezza, che non è sufficiente una mera presenza sul posto di lavoro di attrezzature idonee per il compimento di alcuni particolari lavori di sicura pericolosità, se i dipendenti non sono stati informati ed istruiti sulla necessità di impiego e sul corretto uso di tali attrezzature. Si è quindi posto in relazione l’obbligo di cui all’art. 35 con quello previsto dall’art. 37 del citato D.Lgs., dandosi un’interpretazione dinamica alla disciplina della prevenzione degli infortuni sul lavoro, al fine di non ritenere che l’adempimento di obblighi meramente formali costituiscano una comoda esimente di responsabilità per il datore di lavoro.
Infondato è anche il motivo di ricorso formulato dal R., ed indicato come violazione dell’art. 168 (per un mero lapsus del ricorrente è scritto 568) D.P.R. n. 547 del 1955, e difetto di motivazione, con cui si censura la sentenza impugnata per avere ritenuto la responsabilità del ricorrente in base al solo verificarsi dell’evento, e non soffermandosi sulla pericolosità delle modalità di trasporto della trave.
Si osserva che la sentenza di appello conferma in tutte le sue parti la motivazione della sentenza di primo grado in tema di responsabilità degli imputati, pervenendo poi alle sole distinzioni inerenti alla declaratoria di prescrizione della contravvenzioni ed alla quantificazione delle pene.
Come è stato ineccepibilmente ritenuto, allorchè le sentenza di primo e secondo grado concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo (Cass. 26/06/2000 n. 8868, conformemente a quanto ritenuto da Cass. Sezioni unite 04/02/1992 n. 6682).
Nella specie, il Tribunale aveva esaurientemente motivato in ordine all’imprudente imbracamento della trave, fatto con sole cinghie, e ponendo la trave quasi a ridosso del terreno, malgrado la lunghezza e il notevole peso, richiamando le testimonianze e gli accertamenti tecnici acquisiti. La sentenza di appello, pur non ripetendo tali puntuali osservazioni, conferma il giudizio di pericolosità dell’operazione di trasporto e la sua motivazione non può ritenersi lacunosa per non essere stata una mera reiterazione di argomenti espressi dal giudice di prime cure e condivisi. Diversamente, in caso di riforma della sentenza di primo grado, la motivazione avrebbe dovuta essere rigorosa, e spiegare le ragioni del diverso convincimento e di confutazione della motivazione del giudice di primo grado. Nella specie, la piena sintonia tra le sue decisioni in ordine alla responsabilità degli imputati legittima l’integrazione reciproca tra le due sentenze.
Infine, entrambi i ricorrenti, pur con argomentazioni diverse, hanno censurato il trattamento sanzionatorio. Premesso che la sentenza di appello ha ridotto le pene originarie di quindici giorni di reclusione per ciascun imputato, ha sostituito le pene detentive con quelle pecuniarie L. n. 689 del 1981, ex art. 53, ed ha revocato di conseguenza il beneficio della sospensione condizionale della pena, costituendo quindi trattamenti sanzionatori ben più favorevoli rispetto alle disposizioni del primo giudice, va altresì rilevato che ciè è stato operato proprio in base all’avvenuto risarcimento del danno, e tenendo quindi conto di uno degli argomenti difensivi a sostegno del ricorso del L., mentre i motivi del R. sono palesemente infondati, in quanto l’assenza del potere di spesa non ha alcuna relazione con la condotta imprudente attribuitagli.
Va, infine, ricordato che, come è stato costantemente ritenuto dal giudice di legittimità, “la determinazione della misura della pena è compito esclusivamente affidato alla prudente valutazione del giudice di merito e non è necessaria una specifica motivazione tutte le volte in cui la scelta del giudice risulta contenuta in una fascia medio bassa rispetto al minimo edittale” (tra le più recenti pubblicate Cass. 09/06/2003 n. 31762).
In conclusione, per i motivi esposti, i ricorsi vanno rigettati, con conseguente condanna in solido dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali ex art. 616 c.p.p..
P.Q.M.
La Corte rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 16 maggio 2006.
Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2006