Capire il “rischio”

Nelle politiche di prevenzione aziendali uno dei punti cardine rimane la capacità di comunicare la presenza dei rischi rendendo tutti i collaboratori, dai dirigenti ai lavoratori, ugualmente consapevoli dell’attenzione e delle misure che richiedono.

Gli approcci sono diversi. Si parte naturalmente dalla convinzione del datore di lavoro che questa consapevolezza sia necessaria, anzi di più, imprescindibile per l’attività aziendale. Se mancasse questa convinzione basilare il discorso neanche si pone, come non si pone se la convinzione si limita alla mera applicazione formale delle norme. Al contrario per l’imprenditore cosciente della necessità della partecipazione di tutti all’obiettivo della massima sicurezza possibile e del benessere progressivo il punto si pone eccome. Si torna quindi alla domanda: quale metodo è più efficace per raggiungere il traguardo?

Una politica diffusa è quella di porre attenzione ai comportamenti dei lavoratori. Per alcuni motivata dal fatto che “gliel’ho detto, ma non lo fanno” e da altri “non riesco a tenerli concentrati su questi aspetti del lavoro”.

In una intervista apparsa qualche anno fa in relazione all’applicazione della teorie della BBS (Behavior-Based Safety) si notava:

Quando noi esaminiamo due aziende e vi troviamo gli stessi DPI e le stesse macchine utensili, come mai in una osserviamo 100 incidenti e in un’altra 10? Questa differenza è dovuta esclusivamente ai comportamenti rischiosi e sicuri nei due diversi siti. Come ottenere questi risultati? Definendo i comportamenti virtuosi, misurandoli e poi modificando le conseguenze che il lavoratore riceve immediatamente a valle di quei comportamenti, o come dicono gli analisti del comportamento, sottoponendoli a schemi di “rinforzo”.

Aggiungendo:

in realtà queste persone trascurano i comportamenti di sicurezza non perché non li conoscono – sanno infatti benissimo se e quando usare il casco e come allacciarlo -, ma semplicemente perché non vogliono: esattamente come ognuno di noi sa che in città dovrebbe guidare sotto i 50 km/h eppure in Corso Sempione a Milano viaggiamo tutti, ma proprio tutti, a 70-80 km/h.

Il principio di fondo è che i lavoratori, come tutti noi, trascurano gli elementi di sicurezza e che solo lo sforzo costante (attuando “schemi di rinforzo”) per farglieli assumere li spinge ad acquisirli e a ripeterli.

In realtà le teorie basate sull’attenzione al comportamento umano si sono dimostrate inefficaci per il semplice motivo che la sicurezza, o l’insicurezza, sono il risultato della interazione di un vasto complesso di fattori dei quali il comportamento individuale è solo uno, e nemmeno il più importante. Quello del lavoratore poi è il meno determinante di tutti, perché il lavoratore è l’ultimo anello della catena, l’ultimo ingranaggio del complesso meccanismo la cui “main spring” cioè la molla principale, sta nel datore di lavoro e nel management.

Si è provato quindi ad alzare l’osservazione dal singolo al contesto. Una delle teorie sviluppate è quella della “finestra rotta”. Teoria utilizzata anche al di fuori delle aziende come nel caso della politica di “tolleranza zero” perseguita dal sindaco di New York Rudolph Giuliani negli anni tra il 1994 e il 2001.

Sviluppata da James q. Wilson e George Kelling la Broken Windows Theory, nacque appunto per comprendere meglio i comportamenti criminali. Essa si basa sul principio che l’incuria e il disordine vadano inevitabilmente a intaccare i valori delle persone, conducendole a comportamenti negligenti.

Se si rompe un vetro in una finestra di un edificio e non viene riparato, saranno presto rotti tutti gli altri. Se una comunità presenta segni di deterioramento e questo è qualcosa che sembra non interessare  a nessuno, allora lì si genererà la criminalità. Se sono tollerati piccoli reati come parcheggio in luogo vietato, superamento del limite di velocità o passare col semaforo rosso, se questi piccoli “difetti” o errori non sono puniti, si svilupperanno “difetti maggiori” e poi i crimini più gravi.

Quali sono i punti principali di questa teoria?

  • L’incuria porta alla progressiva perdita di valore
  • La mancanza di autorità favorisce comportamenti criminali
  • Se vengono tollerati piccoli crimini si alimentano crimini più grandi.

Spostando questa metodologia all’interno dei posti di lavoro si hanno alcuni comportamenti da assumere per favorire la creazione di un clima della Sicurezza:

  • Riprendere con fermezza i comportamenti negligenti per quanto poco significanti
  • Mantenere le zone di rifornimento DPI o i luoghi, le stanze, dove si lavora in bello stato, pulite e che trasmettano interesse e cura da parte dell’azienda
  • Creare momenti di condivisione e scambio sul tema della Sicurezza, coinvolgendo tutti i lavoratori.

A questo si affianca uno stile di leadership che punta  alla Safety coaching e cioè a:

fornire strumenti pratici per coinvolgere attivamente le persone e le organizzazioni nell’attuazione delle procedure di sicurezza e prevenzione. Grazie ai più moderni processi di Coaching e Comunicazione riuscire a incrementare la capacità di guida e leadership, ottenendo risultati pratici e cambiamenti duraturi in tutte le realtà in cui vi troverete a operare.
(tratto dal risvolto di copertina del libro Safety Coaching di M. Fiocco).

Il limite di questa metodologia è ancora una volta nell’impatto della conoscenza sulla pratica quotidiana e il gradi di relazione che si instaura tra il “leader” e la sua comunità lavorativa.

Un passo avanti può essere fatto guardando a COX. (Cox S, Jones B, Rycraft H., Behavioural approaches to safety management within UK reactor plants. Safety Science 2004; 42: 825-839).

Secondo Cox  il successo dell’approccio alla sicurezza appare essere dipendente da una varietà di fattori quali l’engagement organizzativo (employee engagement) e la leadership alla sicurezza (safety leadership).

L’engagement organizzativo può essere definito come l’impegno cognitivo ed emotivo che un lavoratore adotta nel portare a termine i propri compiti . Da evidenze empiriche, si attesta che le imprese con lavoratori meno impegnati hanno un numero maggiore di incidenti sul lavoro. Mentre la leadership è tra i principali fattori che determinano la complessiva cultura organizzativa dell’azienda verso la sicurezza. I valori e gli atteggiamenti dei manager verso la sicurezza vengono veicolati ai lavoratori; si può intervenire direttamente sui comportamenti insicuri riducendoli o eliminandoli, oppure indirettamente, attraverso norme di comportamenti e pratiche standardizzate. Ancora però incontriamo il limite dell’accantonamento del tema decisivo della consapevolezza e del coinvolgimento collettivo in una parola della partecipazione.

Si è fatta avanti in questi anni l’idea della “comunità pratica lavorativa” che pone in evidenza il gruppo lavorativo e le sue interrelazioni piuttosto che i singoli e le interazioni gerarchiche.

Facendo emergere che  l’apprendimento sia un’attività sociale e partecipativa piuttosto che cognitiva e individuale. Tale prospettiva considera gli individui come membri di una data comunità che li ha formati in un certo modo e ispira le loro azioni indicando gli scopi da perseguire, le regole da rispettare e i modi giusti di fare le cose.

Ecco quindi che l’approccio corretto ai fini della consapevolezza del rischio non risiede in una maggiore attenzione data al rispetto formale, né ai controlli gerarchici, oppure a una leadership autorevole o solo da una condivisione dei compiti e dal grado di impegno cognitivo che richiedono, ma da un insieme di elementi al cui centro c’è la “comunità lavorativa” con una gerarchia piatta, un coinvolgimento cognitivo e di auto apprendimento informale e collettivo, basato su relazioni piuttosto che su ore in aula o sulla “esemplarità” dei leader aziendali. Su un obbiettivo di miglioramento continuo fondato su uno scambio reciproco di idee, buone pratiche, confronto.

Appare questa una impostazione più completa e molto vicina allo spirito della normativa corrente.

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