Cassazione Civile, Ord. Sez. 6, 15 settembre 2015, n. 18110

In tema di lavoro del socio di cooperativa, il combinato disposto del comma 2 dell’art. 5 della l. n. 142 del 2001, come modificato dalla l. n. 30 del 2003, e dell’art. 2533, comma 3, c.c., non solo non consente un’esegesi per cui ogni controversia fra il socio e la società cooperativa di lavoro sia stata sottratta alla competenza del giudice del lavoro, ma anzi ne impone una in senso del tutto restrittivo, cioè che legga le previsioni di competenza espresse a favore del giudice ordinario come eccezionali e comunque riferite al solo rapporto sociale stricto sensu e non alle vicende relative ai rapporti di lavoro che il socio abbia stipulato con la società.


 

Presidente: FINOCCHIARO MARIO
Relatore: FRASCA RAFFAELE
Data pubblicazione: 15/09/2015

Ritenuto quanto segue:
§1. F.B. ha proposto istanza di regolamento di competenza contro il Coro Lirico Marchigiano V. Be., soc. coop. a r.l. avverso la sentenza del 13 maggio 2014, con cui il Tribunale di Ancona in funzione di giudice ordinario ha dichiarato l’improponibilità della domanda da lei proposta contro l’intimata in ragione dell’esistenza sulla controversia della competenza arbitrale rituale alla stregua di una clausola compromissoria esistente nello statuto della società.
§2. La F.B. aveva proposto la sua domanda nel maggio del 2009 dinanzi allo stesso Tribunale di Ancona in funzione di giudice del lavoro e nell’atto introduttivo, assumendo di essere socia-dipendente della società e di essere stata destinataria di una serie di comportamenti della dirigenza della stessa, che a suo dire integravano la fattispecie del cd. mobbing, chiedeva il risarcimento dei danni sofferti in conseguenza.
§2.1. Costituendosi in giudizio, la società convenuta eccepiva in primo luogo la carenza della giurisdizione dell’a.g.o. a beneficio di quella arbitrale secondo la clausola compromissoria contenuta nello statuto sociale e gradatamente la sussistenza della competenza non già del giudice del lavoro, bensì di quello ordinario, in quanto i fatti dannosi inerivano il rapporto societario e non quello di lavoro, che, peraltro, si sarebbe configurato solo in occasione dello svolgimento delle rappresentazioni per le quali la F.B. veniva scritturata.
§2.2. La F.B. replicava che, essendo stata la clausola arbitrale stipulata nel 2005, epoca alla quale risaliva lo statuto, e trovando applicane le modifiche alla disciplina dell’arbitrato apportate dall’art. 20 del d.lgs. n. 40 del 2006 alle sole convenzioni d’arbitrato stipulate dopo l’entrata in vigore del d.lgs., la competenza arbitrale non poteva operare secondo la disciplina previgente, che escludeva l’arbitrabilità delle controversie ex artt. 409 e ss. c.p.c.
Inoltre, assumeva che i fatti dannosi si erano verificati in pendenza delle scritturazioni lavorative.
§3. Con ordinanza del 6 luglio 2010 il Tribunale in funzione di giudice del lavoro, reputava fondata la deduzione della convenuta circa l’esorbitanza della controversia dall’ambito di quelle di lavoro subordinato, nel presupposto che esistesse un permanente rapporto societario e soltanto discontinui rapporti lavorativi, e disponeva il mutamento del rito ed il passaggio della causa alla trattazione con il rito ordinario.
All’esito il processo proseguiva, con assegnazione ad altro magistrato, davanti allo stesso Tribunale di Ancona in funzione di giudice ordinario, dinanzi al quale la ricorrente instava in via preliminare per la revoca dell’ordinanza di mutamento del rito adottata dal giudice del lavoro.
Assegnati i termini di cui all’art. 183 c.p.c, la causa passava successivamente in decisione e con la sentenza impugnata il Tribunale in funzione di giudice ordinario ha reputato la controversia soggetta alla clausola arbitrale.
§4. All’istanza di regolamento di competenza ha resistito con memoria la società intimata.
§5. Essendosi ravvisate le condizioni per la trattazione con il procedimento di cui all’art. 380-ter c.p.c, veniva richiesto al Pubblico Ministero presso la Corte di formulare le sue conclusioni ed all’esito del loro deposito, ne veniva fatta comunicazione agli avvocati delle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’odierna adunanza.
§6. Le parti hanno depositato memorie.
Considerato quanto segue:
§1. Il Collegio, nell’esercizio dei poteri di statuizione sulla competenza, ritiene fondata l’istanza di regolamento di competenza per motivi che evidenziano l’infondatezza delle difese della resistente e la non condivisione delle conclusioni finali del Pubblico Ministero, che ha chiesto il rigetto dell’istanza.
Queste le ragioni.
§2. In primo luogo si osserva che la pronuncia impugnata – come ha condivisibilmente sostenuto sul punto il Pubblico Ministero – è certamente pronuncia che, essendo stata resa dal giudice ordinario in un giudizio introdotto nel regime della disciplina dell’arbitrato introdotto dal d.lgs. n. 40 del 2006, è soggetta al regime dell’art. 8\9-ter, primo comma, secondo inciso c.p.c.
Invero, il suddetto d.lgs. non dettò alcuna norma transitoria interessante l’art. 819-ter c.p.c. in parte qua con riferimento all’ipotesi in cui, come nella specie, una controversia fosse stata introdotta dinanzi al giudice ordinario con riferimento ad un rapporto sostanziale nella cui disciplina convenzionale fosse stata prevista una clausola arbitrale rituale e mai anteriormente fosse insorta controversia né dinanzi agli arbitri né dinanzi al giudice statuale.
Infatti, il comma 4 dell’art. 27 del d.lgs. si preoccupò, come emerge dalla norma letta sia in positivo, cioè per come è scritta, sia in negativo e, dunque, a contrario (cioè per quanto implica in relazione alla fattispecie opposta a quella regolata), solo di prevedere un regime transitorio con riferimento al caso in cui una controversia fosse stata introdotta davanti ad arbitri sia successivamente sia anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs.: su tale regime si veda Cass. sez. un. n. 19047 del 2010, che ebbe a comporre un contrasto insorto in seno alle sezioni semplici.
Ne segue che, ferma la soggezione – giusta la norma transitoria espressa dell’art. 27, comma 3, citato – della clausola stipulata anteriormente al previgente regime, quanto alle disposizioni di cui agli artt. 806, 807 e 808 c.p.c, a quelle di cui al testo anteriore alla sostituzione di esse operata dall’art. 20 del d.lgs., non è dubbio che una controversia introdotta dopo la data dell’entrata in vigore del d.lgs. dinanzi all’a.g.o. con riferimento a rapporto sostanziale in relazione al quale si fosse invocata una clausola arbitrale stipulata prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 40 del 2006 divenne soggetta al regime dell’art. 819-ter quanto alla disciplina della pronuncia del giudice statuale di affermazione o negazione della competenza arbitrale (si veda, in termini, ora anche Cass. (ord.) n. 10506 del 2015, la quale ha precisato che solo nei giudizi instaurati dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 40 del 2006 l’art. 819-ter resta inapplicabile alle pronunce dell’a.g.o. declinatorie o affermative della competenza arbitrale).
Tanto giustifica l’affermazione di ammissibilità dell’istanza di regolamento di competenza e ciò con assoluta indifferenza (al contrario di quanto ha sostenuto la resistente) rispetto alla qualificazione della sua decisione da parte del Tribunale nel senso della improponibilità, atteso che è già stato statuito che «La sentenza con la quale il tribunale adito, ignorando la qualificazione dei rapporti di competenza tra arbitri e autorità giudiziaria, data dell’art. 819-ter cod. proc. civ., dichiari improponibile la domanda, dev’essere intesa come pronuncia declinatoria della competenza a favore degli arbitri ed è pertanto impugnabile con il regolamento necessario di competenza.» (Cass. (ord.) n. 17019 del 2011).
§3. Ciò premesso, mette conto di rilevare, nell’esercizio dei poteri della Corte di statuizione sulla competenza, che il Tribunale in funzione di giudice ordinario, poteva esaminare la questione della sussistenza della competenza arbitrale, giacché su di essa non si era avuta alcuna decisione per effetto dell’ordinanza emessa dal Tribunale in funzione di giudice del lavoro, con la quale era stato disposto il cambiamento del rito processuale e ravvisato che in seno allo stesso ufficio rappresentato dal Tribunale di Ancona la controversia doveva essere trattata con il rito ordinario.
La mancanza di una simile decisione sulla questione di competenza arbitrale si coglie espressamente nella detta ordinanza, là dove in essa si assume la pregiudizialità della questione di rito riguardo a quella di sussistenza della competenza arbitrale.
E, peraltro, tale valutazione appare anche legittima, poiché nel regime -emergente dall’art. 819-ter, primo comma, secondo inciso c.p.c. – della qualificazione dinanzi all’a.g.o. della questione di devoluzione della controversia agli arbitri come questione di competenza, ove la controversia, se non sussistesse la clausola arbitrale, risulti regolata da un criterio di competenza per materia, accompagnato dalla previsione di un rito diverso da quello di introduzione del processo, la questione relativa alla competenza arbitrale, proposta unitamente a quella di competenza e di rito, deve essere decisa dal giudice cui spetti la competenza per materia e con il rito applicabile alla controversia in quanto riconducibile ad essa. Ne segue che, quando, come nella specie, una controversia sia stata introdotta dinanzi ad un ufficio giudiziario sulla base dell’invocazione di un criterio di competenza per materia ed il giudice adito ravvisi che tale competenza non sussista e la causa debba essere trattata con un rito diverso da quello correlato all’invocata competenza per materia dallo stesso ufficio giudiziario adito e non da altro ufficio, così configurandosi solo una questione di rito, l’adozione del provvedimento di cambiamento del rito si configura come preliminare rispetto alla questione, prospettata dal convenuto, di riconducibilità della controversia ad una competenza arbitrale, atteso che l’esame della questione della sussistenza di tale competenza compete al giudice statuale secondo il rito applicabile alla controversia.
Viceversa, nell’ipotesi in cui la controversia, in mancanza della clausola arbitrale, spetterebbe per materia o per valore ad un ufficio giudiziario diverso da quello adito, l’esame della questione di competenza arbitrale compete al giudice adito, in quanto, se è vero che egli, per negare la propria competenza per materia o per valore e ravvisare quella di altro ufficio deve esaminare solo le norme che regolano la competenza dinanzi all’a.g.o., tuttavia, dovendo individuare il giudice cui rimettere la controversia non può prescindere dall’esame della questione della competenza arbitrale, atteso che ne risulta investito.
§3.1. Dalle considerazioni svolte emerge che il Tribunale di Ancona in sede ordinaria, a seguito del cambiamento del rito, doveva e poteva esaminare la questione di sussistenza della competenza arbitrale quale giudice del disposto mutamento del rito dinanzi allo stesso ufficio giudiziario adito originariamente in funzione di giudice del lavoro.
In questa sede, peraltro, la Corte nello scrutinare la sussistenza o meno della competenza arbitrale non può prescindere dall’individuazione della natura della controversia e dal suo atteggiarsi di fronte alla clausola compromissoria. Ne segue che la Corte non è in alcun modo vincolata alla qualificazione di quella natura espressa dal provvedimento di cambiamento del rito e, dunque, deve individuare tale natura in via autonoma, sebbene ai fini della sola decisione sulla sussistenza della competenza dell’a.g.o. oppure degli arbitri. E ciò, ancorché, come nella specie, il provvedimento di cambiamento del rito sia stato adottato dal giudice nella composizione originariamente adita, quella di giudice del lavoro, nel presupposto che la controversia avesse una certa natura, la quale, se fosse stato competente per territorio altro ufficio, avrebbe giustificato una declinatoria di competenza.
§4. Ciò premesso, si rileva che, l’assunto con cui il Pubblico Ministero ha sostenuto che sarebbe questione di fatto non scrutinabile in sede di regolamento di competenza quella di stabilire se la controversia di danni da mobbing si possa o non si possa reputare compresa nell’ambito delle controversie cui si riferisce la clausola arbitrale che nella specie risulta invocata, non è in alcun modo condivisibile.
Si tratta viceversa di questione che, concernendo l’individuazione della riconducibilità della domanda secondo il suo tenore all’ambito della clausola arbitrale, appartiene alla questione di competenza, dato che tale questione, riguardando il se una certa domanda, per come proposta, sia riconducibile ad una certa competenza, quella arbitrale, suppone necessariamente la valutazione circa la sussumibilità della domanda in concreto proposta nell’ambito del tenore della clausola compromissoria e, dunque, un’attività di esegesi della stessa per comprendere se detto tenore si presti o non si presti a comprendere la controversia per come proposta. Esegesi che in sede di regolamento di competenza è, naturalmente pienamente dovuta, in quanto funzionale alla statuizione sulla competenza.
§5. Si deve ancora ricordare, sempre in funzione dello scrutinio cui deve procedersi, che è stato già affermato da questa Corte nella già citata ord. n. 17019 del 2011, quanto segue: «nell’economia del nuovo art. 819-fór c.p.c, essendo stabilito dall’ultimo comma della norma che soltanto in pendenza del procedimento arbitrale (nel qual caso compete al giudice arbitrale la valutazione della validità ed efficacia della convenzione, potendo la relativa domanda essere introdotta soltanto davanti ad esso e potendo, deve ritenersi, essere introdotta la relativa questione anche in via di eccezione, come esige la garanzia del diritto di difesa, se la domanda arbitrale sia stata proposta dalla parte che sostiene la validità ed efficace della convenzione) non possono proporsi all’autorità giudiziaria domande aventi ad oggetto l’invalidità o inefficacia della convenzione d’arbitrato, deve ritenersi, per converso ed anzi in forza di un argumentum a contrario, che una domanda intesa ad ottenere la declaratoria della invalidità o dell’inefficacia della convenzione possa invece essere introdotta davanti all’autorità giudiziaria quando non sia stata introdotta una controversia davanti agli arbitri sulla base della convenzione. Tale domanda bene può essere proposta o di per se sola, cioè come domanda di accertamento, certamente assistita dal requisito dell’interesse ad agire (per evitare che eventuali controversie possano essere introdotte davanti agli arbitri), o unitamente alla domanda relativa al rapporto cui la clausola compromissoria potenzialmente troverebbe applicazione. Sempre per esigenza di parità delle armi, a tutela del diritto di difesa, deve ritenersi che, allorquando la parte introduca una domanda cui la clausola si applicherebbe o, come nel caso di specie, addirittura una domanda tesa a far dichiarare l’invalidità del contratto cui accede la clausola compromissoria, e sia la parte convenuta ad eccepire l’esistenza della clausola invocando la competenza arbitrale, la parte attrice è legittimata in via di controeccezione ad invocare l’invalidità o l’inefficacia della clausola, con la conseguenza che l’autorità giudiziaria deve procedere alla valutazione di tale controeccezione in funzione della decisione sull’eccezione di sussistenza della competenza arbitrale. Il relativo giudizio dev’essere condotto sulla base delle norme degli artt. 806 e 808 c.p.c. e particolarmente tenendo conto del criterio di cui al secondo comma di quest’ultima norma. Ove avverso la decisione del giudice di merito affermativa o negativa della competenza arbitrale venga proposto regolamento di competenza, detto giudizio compete alla Corte di cassazione, nell’ambito dei poteri di statuizione sulla competenza».
Ne segue che questa Corte deve interrogarsi anche sul se la clausola compromissoria invocata nella specie, ove si presentasse idonea a comprendere nel suo àmbito la controversia, risulti o meno valida ed efficacc.
§6. A questo punto si deve individuare il quadro normativo rilevante ai fini della decisione.
§6.1. Fermo che nella specie non è dubbio che il rapporto fra le parti si iscrive nella figura della società cooperativa di lavoro ai sensi del n. 2 dell’art. 2512 cc. viene innanzitutto in rilievo la 1. 3 aprile 2001, n. 142.
Essa, nell’art. 1, comma 3, primo periodo stabiliva, com’è noto, che “Il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo un ulteriore e distinto rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata non occasionale, con cui contribuisce comunque al raggiungimento degli scopi sociali”.
All’art. 5, comma 2, disponeva, poi, quanto segue: “Le controversie relative ai rapporti di lavoro in qualsiasi forma di cui all’art. 1, comma 3, rientrano nella competenza funzionale del giudice del lavoro; per il procedimento, si applicano le disposizioni di cui all’art. 409 c.p.c. e segg. In caso di controversie sui rapporti di lavoro tra i soci lavoratori e le cooperative, si applicano le procedure di conciliazione e arbitrato irrituale previste dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, e successive modificazioni, e D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387. Restano di competenza del giudice civile ordinario le controversie tra soci e cooperative inerenti al rapporto associativo”.
E’ noto, pure che 1. 14 febbraio 2003, n. 30 ha modificato le due norme citate, con l’art. 9, il quale, per quanto interessa, così dispose: «1. Alla L. 3 aprile 2001, n. 142, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’art. 1, comma 3, primo periodo, le parole: “e distinto” sono soppresse; (…) d) all’art. 5, il comma 2 è sostituito dal seguente: “2. Il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli artt. 2526 e 2527 cc. Le controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica sono di competenza del tribunale ordinario”.
La controversia di cui è causa si colloca nella vigenza delle disposizioni della 1. n. 142 del 2001 come novellate dalla legge del 2003, dato che è stata introdotta nel 2009.
Ora, è noto che, nonostante la scomparsa del riferimento nel nuovo comma 2 dell’art. 5 del riferimento ala competenza del giudice del lavoro e la previsione nel terzo comma dell’art. 2533 del codice civile, siccome modificato dalla coeva riforma del diritto societario, della competenza del tribunale, da intendersi nelle sue funzioni ordinarie, sulla controversie di esclusione del socio, la giurisprudenza della Sezione Lavoro di questa Corte ha continuato a ritenere che sulla controversia fra socio lavoratore e cooperativa involgente la prestazione lavorativa sia rimasta sussistente la competenza del giudice del lavoro.
Espressioni di tale indirizzo sono numerose decisioni, le quali si sono occupate soprattutto del problema della connessione fra domanda soggetta alla competenza del giudice del lavoro e domanda soggetta alla competenza del giudice ordinario con riferimento rispettivamente alla congiunta cessazione del rapporto di lavoro e di quello associativo: si vedano: Cass. n. 850 del 2005; più di recente Cass. n. 24917 del 2014; n. 25237 del 2014. Del tutto isolata è, invece, rimasta in senso contrario e favorevole invece ad un’interpretazione del nuovo inciso del comma 2 dell’art. 5 citato escludente la competenza del giudice del lavoro ed a favore Cass. (ord.) n. 24692 del 2010.
L’orientamento consolidato sopra richiamato ha come presupposto (si vedano soprattutto le recenti Cass. n. 24917 e 25237 del 2014) il rilievo che, se è vero che la 1. n. 30 del 2003, nel modificare l’art. 1, comma 3 della 1. n. 142 del 2001 vi ha soppresso l’aggettivo “distinto”, che figurava nel testo precedente, tuttavia vi ha mantenuto l’aggettivo “ulteriore”, il che implica una chiara indicazione ermeneutica nel senso della coesistenza secondo il legislatore, in capo al socio lavoratore, di una pluralità di cause contrattuali e quindi di una conseguente coesistenza di una pluralità di tutele. Ne segue che deve ritenersi che «il legislatore del 2003, pur evidenziando la necessità di un più stretto collegamento genetico e funzionale del rapporto di scambio mutualistico con quello associativo, ha confermato il tratto essenziale della riforma, e cioè la sicura coesistenza, nella cooperazione di lavoro, di una pluralità di rapporti contrattuali e la conseguente irriducibilità del lavoro cooperativo ad una dimensione puramente societaria, con la connessa coesistenza di una pluralità di tutele, coerenti con la pluralità di cause contrattuali che descrivono, solo nel loro insieme, la posizione giuridica del socio lavoratore» (così Cass. n. 14741 del 2011, evocata dalle dette decisioni).
La formulazione introdotta dalla 1. n. 30 del 2003 nel senso della previsione della competenza del giudice ordinario limitatamente alle “controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica” è stata spiegata in senso restrittivo sottolineandosi che i soci della cooperativa sono, difatti, portatori di uno specifico interesse a che l’attività d’impresa sia orientata al soddisfacimento delle loro richieste di prestazioni (mutualistiche) ed alle condizioni più favorevoli consentite dalle esigenze di economicità nella condotta dell’impresa sociale, e, quindi, rilevandosi che tale interesse è realizzabile dal socio azionando i mezzi di tutela predisposti dal diritto societario, qualora la gestione dell’impresa sociale non sia improntata al rispetto dello scopo mutualistico o abbia leso diritti del socio. Dall’altro lato, nel contemplare il contenuto del terzo comma dell’art. 2533 cc. in punto di esclusione del socio, la considerazione che esso include – tra le diverse ipotesi – le gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge, dal contratto sociale, dal regolamento o dal rapporto mutualistico, ha portato a riferire la previsione della competenza del giudice ordinario come circoscritta alle controversie aventi un oggetto riconducibile nell’alveo della prestazione mutualistica così definita.
§6.2. Lo stato della giurisprudenza della Corte, formatosi soprattutto, come s’è detto, a proposito di controversie sulla cessazione tanto del rapporto lavorativo quanto di quello sociale dunque nel senso che il combinato disposto del comma 2 dell’art. 5 della 1. n. 142 del 2001, come modificato dalla 1. n. 30 del 2003 e del’art. 2533, terzo comma, che non solo non consente un’esegesi per cui ogni controversia fra il socio e la società cooperativa di lavoro sia stata sottratta alla competenza del giudice del lavoro, ma anzi ne impone una in senso del tutto restrittivo, cioè che legga le previsioni di competenza espresse a favore del giudice ordinario come eccezionali e comunque riferite al solo rapporto sociale strido sensu e non alle vicende relative ai rapporti di lavoro che il socio abbia stipulato con la società.
Il Collegio ritiene debba darsi continuità a tale orientamento, che, dunque, dev’essere condiviso.
§7. Tanto rilevato si osserva che il tenore della domanda proposta dalla ricorrente faceva discendere il preteso danno sofferto a seguito della dedotta attività di mobbing da comportamenti che sarebbero stati tenuti dagli organi sociali con riferimento a prestazioni lavorative da essa svolte in occasione di attività liriche del coro o che si sarebbero concretati nella mancata utilizzazione in attività liriche o che sarebbero consistiti in apprezzamenti relativi alle sue qualità professionali. Taluni di tali comportamenti avrebbero avuto come seguito l’esercizio di poteri disciplinari.
Tutto ciò emerge dalla narrativa del ricorso introduttivo e dai capitoli di prova articolati in esso.
La domanda concerne, dunque, la richiesta di un danno cagionato, a dire della ricorrente, dagli organi sociali o per taluni episodi durante lo svolgimento del rapporto lavorativo di volta in volta stipulato, conforme all’art. 21 dello statuto, per lo svolgimento inerente attività sociali, o un’azione posta in essere con intento lesivo della capacità professionale e, quindi, della posizione della ricorrente quale lavoratrice, cioè quale titolare del diritto al lavoro nell’ambito del rapporto sociale e, quindi, della posizione di possibile esercizio di tale diritto in esso.
La domanda così formulata appariva ed appare certamente come domanda intesa ad ottenere una tutela della posizione della ricorrente quale lavoratrice e non quale socia, cioè come soggetto rivendicante un diritto di partecipazione sociale.
E’ da avvertire che, stante il particolare scopo sociale perseguito dalla società ed il suo svolgimento attraverso attività coristiche di volta in volta esercitate, nel caso di specie lo svolgimento dell’attività lavorativa è avvenuto tramite rapporti di lavoro dipendente di volta in volta stipulati, come ammette del resto la stessa resistente, onde non si è in presenza di un rapporto lavorativo stipulato una volta per tutti. Ciò non toglie che la posizione di lavoratrice della ricorrente siccome lesa, a suo dire, dai comportamenti della resistente, è posizione che rileva come situazione connessa allo svolgimento del peculiare rapporto sociale cooperativistico, in modo costante, cioè proprio perché la ricorrente, nel quadro della sua partecipazione sociale, aveva messo in gioco quella posizione perché potesse concretarsi in attività lavorativa nel quadro dell’attività sociale.
Il fatto che, come detto dal Tribunale in funzione di giudice del lavoro nell’ordinanza dispositiva del mutamento del rito, la ricorrente fosse “continuativamente socia e occasionalmente anche dipendente” non vale, come invece, ritenne lo stesso Tribunale, a giustificare la conclusione che il contesto delle pretese condotte mobizzanti, mancando un continuativo rapporto di lavoro, non fosse riconducibile ai discontinui rapporti lavorativi di volta in volta stipulati e comunque alla posizione di lavoratrice della F.B., bensì al rapporto sociale, in modo che la domanda sia da considerare diretta a tutelare la posizione di socia e non di lavoratrice della ricorrente.
Invero, la previsione della stipula di rapporti di lavoro all’occorrenza non toglieva che in seno alla società la ricorrente avesse comunque la duplice posizione di socia (e come tale di finitrice dello scopo mutualistico della società, con i relativi diritti di partecipazione alla vita sociale) e di lavoratrice, titolare del diritto al lavoro correlato alla sua specifica capacità professionale e concretizzato, come in taluni casi era avvenuto, con le prestazioni lavorative di volta in volta svolte oppure, a suo dire, negato in taluni casi per non essere stata la medesima coinvolta e, quindi, impegnata in attività del coro, oppure rilevante nel senso di una aspettativa di concretizzazione in occasione delle future attività del coro gestito dalla società (secondo la previsione dell’art. 4 dello Statuto).
In situazioni nelle quali la cooperativa di lavoro ha un oggetto sociale la cui realizzazione non suppone uno svolgimento tramite un’attività che richieda la stipula con i soci lavoratori di permanente rapporti di lavoro dipendente, bensì solo la stipula di rapporti di lavoro dipendente temporanei, come sarebbe avvenuto nella specie, il coinvolgimento del socio sia come tale sia come lavoratore non viene meno. Ne segue che permane la distinzione fra ciò che appartiene allo svolgimento del rapporto sociale quale espressione dell’esigenza di mutualità costituente lo scopo sociale e ciò che appartiene alla particolare posizione di lavoratore del socio, cioè nella specie di soggetto che espleti prestazioni lavorative di volta in volta o si aspetti di espletarle, essendosi a tanto impegnato proprio come implicazione della sua posizione di socio.
§8. Le svolte considerazioni impongono la conclusione che la domanda, per come proposta, era da ricondurre, conforme all’orientamento sopra ricordato, alla competenza del giudice del lavoro.
Raggiunta tale conclusione, la clausola compromissoria statutaria avrebbe dovuto essere considerata e deve considerarsi invalidamente stipulata, atteso il regime della compromettibilità in arbitri delle controversie di lavoro vigente al momento della conclusione della deliberazione dello statuto sociale.
Tale regime, infatti, era quello del testo dell’art. 806 c.p.c. anteriore alla modifica introdotta con l’art. 20 del d.lgs. n. 40 del 2006, risalendo lo statuto a data anteriore ed operando il testo modificato, giusta l’art. 27, comma 3, del d.lgs. solo per le convenzioni di arbitrato stipulate dopo l’entrata in vigore del d.lgs.
L’art. 806 nel testo vigente all’epoca della approvazione dello statuto escludeva, com’è noto, la compromettibilità in arbitri delle controversie di lavoro, la quale poteva essere prevista solo con una clausola di richiamo di previsioni di accordi o contratti collettivi.
Ed infatti, è stato statuito che «La controversia fra il socio e la cooperativa di produzione e lavoro, attinente a prestazioni lavorative comprese fra quelle che il patto sociale pone a carico dei soci per il conseguimento dei fini istituzionali, per effetto dell’art. 5 della 1. n. 142 del 2001, rientra nella competenza funzionale del giudice del lavoro in quanto il rapporto da cui trae origine è, di natura complessa, insieme associativo e di lavoro autonomo o subordinato. Ne consegue che la clausola compromissoria, contenuta nello statuto della cooperativa, non è idonea ad impedire la valida adizione dell’autorità giudiziaria ove tale facoltà non fosse stata prevista, in conformità della previsione di cui all’art. 412 ter (nel testo vigente “ratione temporis”, in sede di accordo collettivo nazione di lavoro». (Cass. n. 16620 del 2011; n. 17868 del 2014).
§9. Dalle considerazioni svolte emerge che, previo rilievo della invalidità della clausola arbitrale di cui all’art. 42 dello statuto sociale con riferimento alla controversia, dev’essere dichiarata la competenza dell’a.g.o. essendo la controversia di lavoro e non essendo essa compromettibile in arbitri secondo la disciplina dell’art. 806 c.p.c. applicabile ragione temporis.
Le parti vanno rimesse in conseguenza dinanzi al Tribunale di Ancona in funzione di giudice del lavoro, perché la competenza individuata da questa Corte in sede di statuizione sul presente regolamento è quella del giudice del lavoro.
Il termine per la riassunzione è quello di cui all’art. 50 c.p.c, che decorrerà dalla comunicazione del deposito della presente.
§10. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo ai sensi del d.m. n. 55 del 2014.

P.Q.M.

La Corte dichiara la competenza del Tribunale di Ancona in funzione di giudice del lavoro. Fissa per la riassunzione il termine di cui all’art. 50 c.p.c. con decorso dalla comunicazione del deposito della presente. Condanna parte resistente alla rifusione alla ricorrente delle spese del giudizio di regolamento, liquidate in euro tremilaottocentoquarantacinque, di cui duecento per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge ed oltre il diritto alla restituzione del contributo unificato, se corrisposto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta Sezione Civile-3, il 17 aprile 2015.

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