Infortunio sul lavoro: nesso causale con la depressione endoreattiva.
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: GARRI FABRIZIA
Data pubblicazione: 22/03/2016
FattoDiritto
La Corte di appello di Napoli ha rigettato il gravame proposto da G.G. ed ha confermato la sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che aveva accertato in esito ad una consulenza medico legale, che a causa dell’infortunio sul lavoro del 9.7.1995 era residuata, alla data della revoca da parte dell’lnail della rendita originariamente erogata nella misura del 14% (il 6.3.2001), una inabilità permanente in misura inferiore al minimo indennizzabile (6%).
In particolare evidenzia la Corte che la depressione endoreattiva certificata nel 2006 nel 2010 e ancora nel 2012 non era riferibile causalmente all’infortunio subito nel 1995 e che anche la certificazione del 6.12.2012 che diagnostica una sindrome ansioso depressiva reattiva specificando che il paziente era assoggettato a cicli di cura farmacologica, proveniente da un medico generico e non specialista, non è comunque qualificata in termini di gravità.
Sottolinea infine che il consulente medico d’ufficio aveva escluso che il G.G. versasse in uno stato di alterazione delle facoltà mentali che apporti gravi e profondi perturbamenti alla vita organica e sociale considerato anche che lo stesso era occupato come portiere presso un cementificio.
Per la cassazione della sentenza ricorre il G.G. che denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. in relazione all’art. 41 c.p. per aver escluso che la depressione endoreattiva fosse conseguenza dell’infortunio ed incidesse sulla capacità lavorativa dell’assicurato riducendola, assieme alle altre, nella misura del 14%.
Deduce inoltre la violazione e falsa applicazione della disciplina di cui al d.P.R. 1124 del 1965 in relazione all’esatta quantificazione del danno derivato dal sinistro conseguente oltre che da una errata valutazione delle patologie da parte del ctu anche da una errata applicazione delle tabelle che non potevano essere quelle di cui al decreto legislativo n. 38 del 2000 ma piuttosto quelle allegate al d.P.R. n. 1124 del 1965.
L’inail si è costituito con controricorso insistendo per l’inammissibilità delle censure formulate e comunque per la loro infondatezza.
Tanto premesso il primo motivo di ricorso è inammissibile poiché, pur formulato come violazione dell’art. 41 c.p. pretende dalla Corte di Cassazione un nuovo esame del merito non consentito in sede di legittimità.
Ci si duole infatti della valutazione data dal consulente medico nominato nel corso del giudizio di appello alle patologie da cui è affetto il ricorrente ed in particolare del loro collegamento causale con l’infortunio occorso al ricorrente nel 1995.
Tuttavia la valutazione circa l’esistenza del nesso causale tra l’evento morboso e l’infortunio verificatosi in occasione di lavoro, costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione sufficiente ed immune da vizi logici e giuridici (cfr. tra le più recenti Cass. n. 15584 del 2015 e n. 11727 del 2014).
Nel caso in esame la Corte territoriale, conformandosi alle conclusioni della consulenza tecnica, ha ritenuto che non fosse accertata l’esistenza del nesso causale tra la depressione endoreattiva severa e l’infortunio osservando che la patologia denunciata è compatibile con diverse e sopravvenute cause esistenziali legate al personale vissuto.
In ogni caso, ha poi osservato che la patologia aveva registrato un sostanziale miglioramento attestato anche dalla discontinuità dei trattamenti farmacologici ai quali il ricorrente si era sottoposto nel tempo.
Orbene va ribadito che, qualora il giudice di merito fondi la sua decisione sulle conclusioni del consulente tecnico officiato in giudizio, facendole proprie, per infirmare, sotto il profilo dell’insufficienza argomentativa, la motivazione che recepisca, per relationem, le conclusioni e i passi salienti della consulenza tecnica d’ufficio di cui dichiari di condividere il merito, è necessario che la parte alleghi le critiche mosse alla consulenza tecnica d’ufficio già dinanzi al giudice a quo, la loro rilevanza ai fini della decisione e l’omesso esame in sede di decisione. Al contrario, una mera disamina, corredata da notazioni critiche, dei vari passaggi dell’elaborato peritale richiamato in sentenza, si risolve nella prospettazione di un sindacato di merito, inammissibile in sede di legittimità (cfr., Cass. n.15584 del 2015 cit. e già Cass. 4 maggio 2009, n. 10222).
Le conclusioni del consulente tecnico d’ ufficio, sulle quali si fonda la sentenza impugnata, possono essere contestate in sede di legittimità se le relative censure contengano la denuncia di una documentata devianza dai canoni fondamentali della scienza medico-legale sicché, in mancanza di detti elementi, le censure, configurando un mero dissenso diagnostico, sono inammissibili in sede di legittimità.
Nel caso in esame, il giudizio di fatto è stato congruamente e logicamente motivato. La valutazione di compiutezza si ricava anche dall’espresso riferimento fatto dalla Corte territoriale alla motivata risposta fornita dal Consulente ai chiarimenti richiesti a seguito delle note critiche, ai quali la difesa ricorrente non riferisce di avere mosso ulteriori obiezioni.
In conclusione il primo motivo è inammissibile.
Anche la censura che investe la sentenza sotto il profilo di una erronea applicazione delle tabelle allegate al d.lgs. n. 38 del 2000 in luogo di quelle allegate al d.P.R. 1124 del 1965 è infondata.
La Corte territoriale, infatti, ha chiaramente spiegato che il consulente, in sede di chiarimenti sollecitati dall’assicurato, aveva sottolineato che il riferimento ai criteri di valutazione INAIL degli infortuni contenuti nel d.m. 12.7.2000 rafforzava il giudizio già espresso sulla base delle tabelle allegate al testo unico del 1965.
Non vi è pertanto alcuna violazione o falsa applicazione della normativa vigente ratione temporis posto che il riferimento al d.m. del 2000 costituisce semplicemente un argomento motivazionale ulteriore e confermativo delle valutazioni già espresse.
Alla luce delle esposte considerazioni il ricorso, manifestamente infondato, deve essere rigettato e le spese del giudizio di legittimità regolate secondo il criterio della soccombenza — non sussistendo i presupposti per l’esonero ex art. 152 disp, att. c.p.c. — sono liquidate in dispositivo.
La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano
funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., Sez. Un., n. 22035/2014).
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che si liquidano in € 2000,00 per compensi professionali, € 100,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie ed accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002 da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.p.r..
Così deciso in Roma 1’11 febbraio 2016