Repertorio Salute

Cassazione Civile, Ord. Sez. 6, 22 marzo 2016, n. 5631

Malattia professionale e nesso causale.


Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: GARRI FABRIZIA
Data pubblicazione: 22/03/2016

FattoDiritto

La Corte di appello di L’Aquila ha confermato la sentenza del Tribunale di Pescara che aveva rigettato la domanda di B.R. tesa al riconoscimento dell’indennizzo in relazione alla malattia professionale contratta sul luogo di lavoro.
Il giudice di appello in esito ad una nuova consulenza medico legale ha escluso l’origine professionale della spondilo artropatia del rachide cervicale e lombo sacrale sottolineando che le pur gravose lavorazioni non richiedevano “correlate prove quanto ad intensità durata e ripetitività nelle otto ore lavorative.”
Per la cassazione della sentenza ricorre B.R. che denuncia la violazione e falsa applicazione degli arti. 40 e 41 c.p., 112,115,191 e 194 c.p.c., 3, 79, 84 d.P.R. 1124 del 1965 ed art. 1, lista 1, gruppo 2 d.m. 14.1.2008 in relazione all’art. 360 comma 1 nn. 3 e 5 c.p.c.. Con il secondo motivo, poi, censura la sentenza per avere violato e falsamente applicato l’art. 116 c.p.c. e le Tabelle delle menomazioni Inail, voci n. 192 e 193 del d.M. 12.7.2000. Con il terzo motivo infine denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c..
L’INAIL si è costituito per resistere con controricorso.
Tanto premesso con i primi due motivi di ricorso è censurata la ricostruzione effettuata dal giudice di merito che, in adesione alle conclusioni alle quali era pervenuto il consulente medico nominato nel giudizio di appello, aveva escluso l’esistenza di un nesso causale tra la patologia accertata (spondilo artropatia del rachide cervicale e lombo sacrale) e l’attività lavorativa svolta sul rilevo che, pur essendo stato esposto a ripetute sollecitazioni, non vi era tuttavia evidenza clinica diretta della connessione causale tra gli sforzi eseguiti e la patologia accertata. La Corte territoriale, pertanto, sarebbe incorsa nei vizi denunciati avendo omesso di pronunciare sul nesso concausale accertato. Più nello specifico si evidenzia che il consulente di appello, pur sollecitato in sede di note critiche, nell’escludere l’esistenza del nesso di causalità, non avrebbe considerato che agenti patogeni lavorativi avevano concorso a causare la malattia tal che la stessa doveva essere ritenuta di origine professionale. Inoltre posto che la patologia rientrava nelle tabelle di cui al d.m. 14.1.2008, secondo il ricorrente era sufficiente allegare e dimostrare l’esistenza di un fattore scatenante per ritenere operante la presunzione legale di dipendenza causale tra attività e malattia. Ancora, la Corte di appello avrebbe aderito acriticamente alle conclusioni del consulente nonostante questi avesse del tutto pretermesso le risultanze degli accertamenti strumentali che deponevano per il carattere intermittente della malattia ma pur sempre rilevante ai fini del riconoscimento della prestazione azionata.
Le censure sono inammissibili e comunque infondate.
Da un canto, seppur in parte formulate come violazioni di legge, esse tendono nella sostanza ad ottenere dalla Corte di legittimità una diversa valutazione delle risultanze istruttorie attraverso un nuovo esame delle stesse non consentito al giudice di legittimità.
Va sottolineato poi che la Corte territoriale ha chiarito che sebbene le mansioni svolte dal B.R. si caratterizzassero per la loro gravosità quanto ad intensità, durata e ripetitività, tuttavia non vi era una chiara evidenza del nesso causale con la diffusa spondilo artrosi certificata e ritenuta dal consulente ben collegabile con l’età “non più giovanile del periziato”.
La Corte territoriale, nella sostanza, in assenza di evidenze cliniche o strumentali dirette della esistenza di incidenze funzionali negative sulla colonna, ha registrato un complessivo stato di buona salute ed un’incidenza funzionale negativa sulla colonna rimasta integra.
Orbene va rammentato che le valutazioni espresse dal consulente medico legale e recepite dal giudice nella sua sentenza possono essere censurate in sede di legittimità solo ove si traducano in carenze o deficienze diagnostiche, o in affermazioni illogiche e scientificamente errate, o nella omissione degli accertamenti strumentali dai quali non possa prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, non essendo sufficiente la mera prospettazione di una semplice difformità tra le valutazioni del consulente e quella della parte circa l’entità e l’incidenza del dato patologico.
Al di fuori di tale ambito, la censura di difetto di motivazione costituisce un mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico e si traduce in una inammissibile richiesta di revisione del merito del convincimento del giudice (cfr. Cass. n. 12244 del 2015 e già n. 7341 del 2004)
Non pertinente e comunque infondata è poi la denuncia di violazione degli arti. 40 e 41 c.p. una volta che sia stata esclusa, come nella specie il giudice di merito ha escluso, l’esistenza di un nesso causale tra la patologia e l’attività lavorativa svolta.
L’ultimo motivo di ricorso è anch’esso infondato.
Ai sensi dell’art 92, secondo comma, cod. proc. civ. nella formulazione vigente “ratione temporis’, introdotta dall’art. 45, comma 11, della legge 18 giugno 2009, n. 69, può essere disposta la compensazione delle spese in assenza di reciproca soccombenza soltanto in presenza di “gravi ed eccezionali ragioni”, la cui configurabilità è rimessa all’apprezzamento del giudice di merito che è tenuto a darne conto in motivazione. La norma attribuisce la facoltà di compensare – “ il giudice può compensare” – mentre vieta di porre a carico della parte totalmente vincitrice le spese.
La Corte di appello si è attenuta a tale regola ed ha correttamente applicato il principio della soccombenza previsto quale regola generale dalTart. 91 c.p.c..
Conseguentemente anche tale motivo di ricorso deve essere rigettato. Per tutto quanto sopra considerato, il ricorso, manifestamente infondato, deve essere rigettato con ordinanza in camera di consiglio ex art. 375 cod. proc. civ., n. 5.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., Sez. Un., n. 22035/2014).

PQM

La Corte, rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 2500,00 per compensi professionali, € 100,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie ed accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002 da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.p.r..
Così deciso in Roma l’11 febbraio 2016

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