Vigile urbano e nesso causale tra ipoacusia e attività lavorativa.
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: MAROTTA CATERINA
Data pubblicazione: 31/03/2016
Fatto
1 – Considerato che è stata depositata relazione del seguente contenuto:
< Per la cassazione di tale sentenza L.T. propone ricorso affidato a due motivi.
Resiste con controricorso l’I.N.A.I.L..
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli arti. 115, 116 e 445 cod. proc. civ. ed omessa e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ.). Si duole del fatto che siano state recepite le conclusioni del c.t.u. officiato in grado di appello sulla base di mere considerazioni di stile e senza spiegare perché si valutava di disattendere la consulenza di primo grado. Rileva che risulta del tutto immotivata l’esclusione della noxa lavorativa con riguardo alla ipoacusia, specie in relazione alle mansioni pacificamente svolte dal L.T. ed alla esposizione di quest’ultimo a rumore.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del d.P.R. n. 1124/1965 e successive modifiche, dell’art. 115 cod. proc. civ. e dell’art. 41 cod. pen. ed omessa e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, nn. 3 e 5 cod. proc. civ.). Lamenta l’esclusione del nesso causale tra l’ipoacusia e l’attività lavorativa in presenza di una mancata contestazione del fatto storico dedotto nel ricorso introduttivo integrante l’esposizione a rischio tecnopatico (guida negli anni dal 1975 al 1993 di motociclette con motore monocilindrico che provocavano rumore molto simile a quello delle affettatrici negli esercizi di generi alimentari, utilizzo di un casco che, all’epoca, lasciava scoperte le orecchie). Critica le valutazioni medico legali relative alla origine costituzionale della malattia in ragione della sottoposizione del ricorrente ad intervento per “agenesia del processo lungo dell’incudine all’orecchio medio di sinistra” evidenziando che lo stesso termine “agenesia”, per l’ alfa privativa che lo contraddistingue, esclude l’origine genetica. Lamenta, altresì, la riduzione al 7% del danno derivato dall’“‘artrosi del rachide cervico lombare” evidenziando anche in questa caso una mancanza di confutazioni delle valutazioni del consulente di primo grado (che tale danno aveva quantificato in una riduzione dell’integrità fisica pari al 15%).
Entrambi i motivi, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono manifestamente infondati.
Costituisce giurisprudenza assolutamente consolidata di questa Corte che, ove il lavoratore deduca l’esistenza di una malattia professionale non tabellata, egli ha l’onere di fornire la prova sia dell’esistenza della malattia, sia delle caratteristiche morbigene della lavorazione svolta, sia, infine, del rapporto eziologico tra questa e la tecnopatia (cfr. ex plurimis Cass. 8 gennaio 2003, n. 87; Cass. 28 maggio 2003, n. 8468; Cass. 25 maggio 2004, n. 10042; Cass. 21 giugno 2006, n. 14308). Le suddette circostanze costituiscono altrettanti fatti, la cui mancata prova ricade a danno del lavoratore ricorrente. Esse richiedono, invero, strumenti probatori diversi. Le modalità della prestazione lavorativa costituiscono un fatto principale, che il lavoratore ha l’onere di allegare e provare, il che normalmente avviene con la descrizione, nel ricorso introduttivo del giudizio, delle proprie mansioni e con la richiesta di prova testimoniale sul tali circostanze, normalmente espletata solo in caso di contestazione (Cass., Sez. un., n. 761/2002). La malattia costituisce anch’essa un fatto, che però può costituire oggetto di prova testimoniale solo nei sui aspetti sintomatici esterni; la sua esistenza e il suo grado invalidante, normalmente riferiti da certificazione medica di parte, devono essere accertati e apprezzati dal giudice con l’ausilio di una consulenza tecnica d’ufficio medico-legale. La componente valutativa è ancora più evidente nell’accertamento del nesso causale, che non può essere affidato alle opinioni soggettive, e perciò inammissibili, dei testi; esso presuppone l’avvenuto accertamento dei due termini, la modalità lavorativa e la malattia, tra cui si deve accertare se esista oppure no un nesso di derivazione causale; l’onere probatorio cui è soggetto il lavoratore ricorrente è dunque quello di illustrare la modalità lavorativa, indicare il presumibile fattore causale, offrire documentazione clinica e sollecitare l’indagine peritale sul nesso causale. Tale carattere valutativo del rapporto tra mansioni c malattia risulta proprio dalla costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il nesso deve essere valutato in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità, per accertare il quale il giudice deve non solo consentire all’assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, ma deve altresì valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale, facendo ricorso anche ad ogni iniziativa ex officio diretta ad acquisire ulteriori elementi in relazione all’entità ed all’esposizione del lavoratore ai fattori di rischio, ed anche considerando che la natura professionale della malattia può essere desunta con elevato grado di probabilità dalla tipologia delle lavorazioni svolte, dalla rumorosità dell’ambiente di lavoro, dalla durata della prestazione lavorativa e dall’assenza di altri fattori extralavorativi, alternativi o concorrenti, che possano costituire causa della malattia (Cass. ex multis Cass. 13 aprile 2002, n. 5352; Cass. 11 giugno 2004, n. 11128; Cass. 8 ottobre 2007, n. 21021; Cass. 10 febbraio 2011, n. 3227).
Nel caso di specie, il giudice d’appello, conformandosi al giudizio espresso dall’ausiliare appositamente nominato, pur ritenendo accertate (in quanto sostanzialmente incontroverse) le mansioni svolte dal lavoratore, ha tuttavia respinto la domanda sul rilievo della mancanza di prova di una particolare rumorosità dell’ambiente di lavoro (“non si hanno elementi per affermare che l’attività di vigile urbano abbia comportato un’esposizione quotidiana personale a frequenze comprese tra gli 80 e i 95 decibel”) nonché della sussistenza di un nesso causale tra l’ipoacusia e l’attività lavorativa (“il tracciato dell’audiogramma non presenta le caratteristiche tipiche dell’ipoacusia da rumore”….“veniva riscontrata una agenesia del processo lungo dell’incudine dell’orecchio medio di sinistra, fattispecie di chiara origine costituzionale, che di per sé giustifica la perdita uditiva”).
Trattasi di un percorso argomentativo corretto in diritto che, come tale, si sottrae alle censure del ricorrente.
Per il resto i rilievi sollecitano soltanto una nuova lettura delle risultanze probatorie e, in particolare, della consulenza tecnica espletata nel giudizio di appello ed in quello di primo grado, operazione preclusa in sede di legittimità.
Infatti, per costante insegnamento di questa S.C., in materia di prestazioni previdenziali derivanti da patologie relative allo stato di salute dell’assicurato, il difetto di motivazione, denunciatale in cassazione, della sentenza che abbia prestato adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio è ravvisabile solo in caso di palese deviazione dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata, o nell’omissione degli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non si può prescindere per la formulazione di una corretta diagnosi.
Al di fuori di tale ambito la censura anzidetta costituisce mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico formale, che si traduce, quindi, in una inammissibile critica del convincimento del giudice (giurisprudenza consolidata: v. da ultimo Cass. 3 febbraio 2012, n. 1652; ìd. 12 gennaio 2011, n. 569; 8 novembre 2010, n. 22707; 29 aprile 2009, n. 9988).
Consolidato è, del resto, l’orientamento di questa Corte secondo il quale va rigettato il ricorso avverso la sentenza che condividendo la relazione del c.t.u. abbia escluso la derivazione causale della malattia dall’attività di lavoro, quando il ricorrente si limiti ad invocare una diversa valutazione scientifica delle prove raccolte (Cass. 10 ottobre 2010, n. 22707; ìd. 29 aprile 2009, n. 9988; 22 maggio 2004, n. 9869; 17 aprile 2004, n. 7341). Inoltre, per quanto riguarda, in particolare, la valutazione circa la sussistenza o meno del nesso causale in ordine alla origine professionale di una patologia, è altrettanto consolidato l’indirizzo secondo cui tale valutazione costituisce un giudizio di fatto che, se congruamente motivato, non è censurabile dal giudice di legittimità (vedi per tutte: Cass. 26 luglio 2006, n. 17006; id. 24 marzo 2004, n. 5806).
Con il ricorso in esame non vengono dedotti vizi logico-formali che si concretino in deviazioni dalle nozioni della scienza medica o si sostanziano in affermazioni manifestamente illogiche o scientificamente errate (si consideri che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, l’agenesia è un termine usato in medicina per indicare l’assenza di un organo e dunque proprio un difetto di tipo costituzionale), vengono effettuate solo osservazioni concernenti il merito di causa, non deducibili innanzi a questa S.C..
In conclusione, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5>>.
2 – Non sono state depositate memorie ex art. 380 bis, co. 2, cod. proc. civ..
3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla consolidata giurisprudenza di legittimità in materia e che ricorra con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375, n. 5, cod. proc. civ. per la definizione camerale del processo.
4 – In conclusione il ricorso va rigettato.
5 – La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.
6-11 ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 del 2012), che ha integrato l’art. 13 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.
Essendo il ricorso in questione integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore dell’I.N.A.I.L., delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.
Ai sensi dell’art 13, co. 1 quater.; del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13. Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2016