Repertorio Salute

Cassazione Civile, Sez. 3, 11 aprile 2016, n. 6977

Scarica elettrica durante i lavori di realizzazione di un solaio. Risarcimento dei danni.


Presidente: SALME’ GIUSEPPE
Relatore: ROSSETTI MARCO
Data pubblicazione: 11/04/2016

Fatto

1. Nel 1992 P.C. convenne dinanzi al Tribunale di Pistoia D.C., L.D. e la società U. s.p.a. (che in seguito muterà ragione sociale in C. s.p.a.; d’ora innanzi, per brevità, “C.”), esponendo che:
-) il 28.8.1987, nell’esercizio della propria attività d’impresa, si trovava sul tetto di un immobile in fase di ristrutturazione, e cooperava alle operazioni di realizzazione d’un solaio in cemento;
-) tale lavorazione veniva eseguita per mezzo d’una betoniera munita d’un braccio meccanico, per mezzo del quale veniva fatto affluire il cemento liquido sul tetto dell’immobile oggetto dei lavori;
-) la betoniera suddetta era di proprietà della U. s.p.a., e manovrata da D.C., dipendente di quest’ultima;
-) il direttore dei lavori era in quell’occasione il sig. L.D.;
-) durante l’esecuzione dei lavori il braccio meccanico della betoniera urtò i cavi d’un elettrodotto sovrastante l’immobile stesso, sprigionando una scarica elettrica che folgorò l’attore P.C., provocandogli lesioni personali.
Chiese pertanto la condanna dei convenuti in solido al risarcimento dei danni patiti in conseguenza della folgorazione.
Nel giudizio intervenne volontariamente l’Inail, il quale dichiarò di volersi surrogare nei confronti dei convenuti per l’indennizzo pagato alla vittima.
2. Con sentenza 12.9.2005 n. 918 il Tribunale di Pistoia rigettò tutte le domande.
3. La sentenza di primo grado venne impugnata in via principale da P.C. ed in via incidentale dall’INAIL.
La Corte d’appello Firenze, con sentenza non definitiva 31.3.2010 n. 495:
-) rigettò la domanda proposta nei confronti di L.D.;
-) accolse la domanda proposta nei confronti di D.C. e della C., attribuendo però alla vittima un concorso di colpa del 50%.
Avverso questa sentenza P.C. fece riserva di appello all’udienza del 27.10.2010.
Quindi, proseguito il giudizio per l’accertamento del quantum debeatur, con sentenza definitiva 31.10.2012 n. 1426 la Corte d’appello condannò la C. e D.C., in solido, a pagare a P.C. la somma di 80.092,05 euro più accessori; ed all’INAIL la somma di 13.878,57 euro, più accessori.
4. La sentenza non definitiva d’appello viene ora impugnata per cassazione da P.C., con ricorso fondato su due motivi.
La C. ha resistito con controricorso e proposto ricorso incidentale fondato su tre motivi.
L’Inail ha resistito con controricorso al ricorso incidentale proposto dalla C..

Diritto

1. Il primo motivo del ricorso principale.
1.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sia affetta sia da una violazione di legge, ex art. 360, n. 3, c.p.c.; sia da un vizio di motivazione, ex art. 360, n. 5, c.p.c. (nel testo applicabile ratìone temporis).
Il motivo, formalmente unitario, contiene in realtà due diverse censure.
Con la prima si lamenta che la Corte d’appello avrebbe erroneamente qualificato P.C. come “appaltatore” dei lavori che stava eseguendo, e da ciò ha tratto la conclusione che egli era in colpa per non avere adottato adeguate misure di protezione; deduce che tale statuizione sarebbe erronea perché in realtà P.C. era un artigiano che aveva stipulato un mero contratto d’opera.
Con la seconda censura lamenta che in ogni caso la Corte d’appello non avrebbe adeguatamente spiegato le ragioni per le quali ha individuato una colpa concorrente a carico della vittima.
1.2. La prima delle censure sopra riassunte è inammissibile per difetto di rilevanza.
La Corte d’appeilo, infatti, ha ritenuto P.C. corresponsabile del danno da lui stesso patito, per essersi incautamente avvicinato ad un elettrodotto senza protezioni adeguate: si tratta dunque d’un profilo di colpa generica, ovvero per violazione delle regole di comune prudenza, che sussisterebbe a carico tanto dell’appaltatore, quanto del prestatore d’opera, quanto ancora del quivis de populo.
Pertanto qualificare il contratto stipulato tra P.C. ed il committente come “contratto d’opera” invece che come “appalto” non travolgerebbe affatto le statuizioni della Corte d’appello in punto di colpa concorrente della vittima.
1.3. La seconda delle censure riassunte a § 1.1. è fondata.
La Corte d’appello, infatti, a p. 4 della sentenza impugnata, nel ricostruire la dinamica del sinistro afferma: “deve escludersi che il sinistro sia stato determinato da un contatto o avvicinamento” della vittima all’elettrodotto. La Corte d’appello, dunque, ha ritenuto in punto di fatto che la vittima non solo non toccò, ma nemmeno si avvicinò ai cavi dell’elettrodotto.
Alla successiva p. 6 della sentenza impugnata, invece, pervenuta al punto di stabilire se vi fosse o meno un concorso di colpa della vittima, la Corte d’appello afferma che la vittima ha concausato il danno per non avere adottato una adeguata protezione “rispetto ad accidentali contatti o avvicinamenti” all’elettrodotto.
Tra le due affermazioni sopra trascritte esiste una insuperabile contraddizione: se infatti la vittima non toccò i cavi dell’alta tensione né si avvicinò ad essi, non si comprende quale effetto salvifico avrebbe potuto avere l’adozione dì misure per “prevenire contatti od avvicinamenti”.
La motivazione adottata dalla Corte d’appello è dunque “contraddittoria” ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis.
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo di ricorso P.C. lamenta che la sentenza impugnata sia affetta da una violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c..
Deduce che erroneamente la Corte d’appello l’avrebbe ritenuto in colpa per avere violato l’art. 11 d.pr. 164/56 (secondo cui “non possono essere eseguiti lavori in prossimità di linee elettriche aeree a distanza minore di cinque metri dalla costruzione o dai ponteggi, a meno che, previa segnalazione all’esercente le linee elettriche, non si provveda da chi dirige detti lavori per una adeguata protezione atta ad evitare accidentali contatti o pericolosi avvicinamenti ai conduttori delle linee stesse”)’, tale norma infatti si applica ai datori di lavoro, ai dirigenti ed ai preposti, e non agli artigiani quale era la vittima.
2.2. Il motivo è assorbito dall’accoglimento del primo motivo di ricorso.
3. Il primo motivo del ricorso incidentale C..
3.1. Col primo motivo del proprio ricorso incidentale la C. lamenta sia il vizio di violazione di legge (art. 360, n. 3, c.p.c.); sia il vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).
Il motivo, formalmente unitario, si articola in più censure, così riassumibili:
(a) la Corte d’appello ha errato nel ritenere in colpa D.C., manovratore del braccio meccanico della betoniera, per avere violato l’art. 11 d.p.r. 164/56; tale norma infatti pone obblighi di cautela solo a carico del direttore dei lavori, non del gruista;
(b) la Corte d’appello ha erroneamente escluso un concorso di colpa del committente e del direttore dei lavori.
3.2. La censura sub (a) è infondata.
La Corte d’appello, infatti, ha ritenuto D.C. responsabile dell’accaduto per avere violato norme di “elementare prudenza”, definita “desumibile anche” dall’art. 11 d.p.r. cìt..
Dunque, nell’economia della motivazione, l’art. 11 cit. non è stato applicato in via diretta, ma in via analogica, quale precetto dal quale desumere l’esistenza d’una regola di “elementare prudenza” consistente nell’obbligo di adottare cautele e precauzioni prima di accostarsi a cavi elettrici.
Si tratta d’una statuizione corretta sia nel procedimento logico (il ricorso all ‘analogia iuris era giustificato dalla mancanza di previsioni specìfiche); sia nel risultato raggiunto (la violazione di regole di comune prudenza costituisce una condotta colposa, ai sensi dell’art 1176 c.c.).
3.3. La censura sub (b) è manifestamente inammissibile.
Nella parte in cui lamenta l’omesso esame della colpa del committente, lo è perché questi non fu parte del giudizio, sicché nulla al riguardo doveva accertare o statuire la Corte d’appello.
Nella parte in cui lamenta l’esclusione della colpa del direttore dei lavori, il motivo è invece inammissibile perché C. non risulta avere svolto alcuna domanda di regresso o di accertamento nei confronti di questi: sicché la doglianza è nuova.
V’è solo da aggiungere come nessun pregio possa avere la deduzione conclusiva svolta dalla ricorrente incidentale a p. 18 del proprio ricorso, secondo cui – questo il succo della censura – poiché il sinistro era ascrivibile anche a responsabilità di terzi, la responsabilità della C. doveva essere proporzionalmente ridotta.
La tesi, infatti, sembra dimenticare il disposto dell’alt. 2055 c.c., in virtù del quale quando il danno è concausato da più autori, tutti rispondono per l’intero ed in solido verso il danneggiato.
4. Il secondo motivo del ricorso incidentale C..
4.1. Col secondo motivo del proprio ricorso incidentale la C. lamenta che la sentenza impugnata sia affetta da un vizio di violazione di legge, ex art. 360, n. 3, c.p.c..
Deduce che Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto sussistente la colpa della C., che invece non era stata dimostrata.
4.2. Il motivo è manifestamente inammissibile, in quanto sollecita da questa Corte una nuova ed ulteriore valutazione delle prove, rispetto a quella compiuta dal giudice del merito.
Deve solo aggiungersi che in ogni caso la C., quale proprietaria del mezzo che causò il danno, ne risponderebbe ai sensi dell’art. 2054, comma 3, c.c., dal momento che anche il danno causato dal movimento di singole parti d’un veicolo a motore costituisce danno causato dalla circolazione, così come stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 8620 del 29/04/2015, Rv. 635401).
5. Il terzo motivo del ricorso incidentale C..
5.1. Col terzo motivo di ricorso la C. – pur senza qualificare espressamente il vizio denunciato – nella sostanza lamenta il vìzio di nullità processuale, al sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c..
Deduce, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere rinunciata la domanda di regresso da essa proposta nei confronti di D.C., il conducente della betoniera e manovratore del braccio meccanico.
5.2. Il motivo è infondato.
E’ la stessa società ricorrente, infatti, a dichiarare di avere affermato, nel giudizio di merito, di “riservarsi di agire” contro il D.C. in sede di regresso. Ora, chi “si riserva di agire” in futuro vuol dire che allo stato non agisce, e dunque non propone alcuna domanda. Dunque correttamente la Corte d’appello ritenne non proposta, ovvero proposta ma rinunciata, la domanda di regresso tra condebitori.
6. La sentenza impugnata deve dunque essere cassata con rinvio alla Corte d’appello di Firenze, la quale nell’esaminare la condotta della vittima tornerà a motivare circa la sussistenza o meno d’un suo concorso di colpa, sanando la contraddizione in cui cadde la sentenza impugnata.
7. Le spese.
Le spese del presente grado di giudizio saranno liquidate dal giudice del rinvio.

P.Q.M.

la Corte di cassazione, visto l’art. 380 c.p.c.:
(-) accoglie il ricorso principale, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione;
(-) rigetta il ricorso incidentale;
(-) demanda al giudice di rinvio la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità;
(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dall’alt. 13, comma 1 quater, d.p.r. 30.5.2002 n. 115, per il versamento da parte di C. s.p.a. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, addì 16 dicembre 2015.

Lascia un commento