Cassazione Civile, Sez. 3, 25 ottobre 2016, n. 21465

Contratto di affitto di azienda: macchinari e attrezzature non conformi.


Presidente: VIVALDI ROBERTA
Relatore: GRAZIOSI CHIARA
Data pubblicazione: 25/10/2016

Fatto

1. Avendo con atto del 26 marzo 2014 A. S.r.l. citato Fornace O. S.r.l. davanti al Tribunale di Voghera perché fosse dichiarato nullo per violazioni di norme imperative il contratto di affitto di azienda che essa, in qualità di affittuaria, aveva stipulato con la convenuta il 19 dicembre 2002, ovvero perché fosse annullato o ne fosse dichiarata la risoluzione per inadempimento di controparte (causa RG 232/2004), ed avendo in altro giudizio (RG 770/2004), poi riunito a quello avviato da A., Banca Popolare Emilia Romagna s.c. a r.l. agito per accertare che Fornace O. non aveva il diritto di escutere la fideiussione che essa il 5 dicembre 2002 aveva rilasciato quanto al pagamento dei canoni d’affitto d’azienda – aderendo la banca alla prospettazione di A. -, ed essendosi in entrambi giudizi costituita Fornace O. resistendo, il Tribunale, con sentenza del 2-15 febbraio 2010 rigettava le domande di A., dichiarava risolto il contratto per inadempimento di quest’ultima, che condannava al pagamento dei canoni, dichiarando la banca tenuta ad adempiere alla fideiussione.
Presentava appello A., e si costituiva Fornace O., resistendo. Con sentenza del 25 settembre-11 ottobre 2013 la Corte d’appello di Milano ha riformato la sentenza di primo grado limitatamente alla determinazione dei canoni che l’appellante è condannata a pagare, per il resto confermandola.
2. Ha presentato ricorso A. sulla base di un unico articolato motivo – sviluppato anche con memoria ex articolo 378 c.p.c. -, da cui si difende con controricorso O. Fornace.

Diritto

3. Il ricorso è parzialmente fondato.
In quello che formalmente viene presentato come unico motivo – rubricato come violazione e falsa applicazione degli articoli 1418, 1419 c.c., 6, secondo comma, L. 626/1994 abrogata dal 15 maggio 2008 dal d.lgs. 81/2008, 11 d.p.r. 459/1996, 12 prel., 112 c.p.c., 1453 e 1458 c.c. – la ricorrente in realtà propone due doglianze.
3.1.1 In primo luogo adduce che dall’accertamento tecnico preventivo e dalla consulenza tecnica d’ufficio espletati durante il giudizio di primo grado risulterebbe che i macchinari e le attrezzature dell’azienda non sono conformi alla normativa urbanistica e di igiene pubblica, di prevenzione di incendi, contro l’inquinamento atmosferico e di prevenzione degli infortuni sul lavoro. È necessario quindi, secondo la ricorrente, stabilire la portata precettiva delle norme riguardanti la sicurezza sui luoghi di lavoro, ovvero se la loro violazione comporta nullità del contratto. Il motivo si diffonde sull’evoluzione normativa e infine, sostenendo che la c.t.u. avrebbe “dimostrato che il contratto di affitto d’azienda aveva ad oggetto macchinari privi della marcatura CE”, osserva che l’articolo 11 d.p.r. 459/1996 ha legittimato alla sua entrata in vigore la commercializzazione di macchine senza marcatura CE, di cui però il commerciante deve attestare la conformità alla normativa anteriore al tale regolamento a chi dette macchine riceve per acquisto, noleggio, concessione in uso o in locazione finanziaria. Dalla c.t.u. sarebbe quindi emerso che il contratto in questione fu stipulato violando il citato articolo 11, perché non include alcuna attestazione e i macchinari non rispettano comunque la normativa antinfortunistica. L’articolo 18 d.lgs. 17/2010, in vigore dal 6 marzo 2010, ha abrogato il d.p.r. 459/1996 salvandone però l’articolo 11, commi primo e terzo. Poiché al contratto si applica allora l’articolo 11, avrebbe errato la corte territoriale nell’affermare che il contratto non confligge con norme imperative.
Dall’articolo 1418 c.c., poi – osserva ancora la ricorrente -, deriverebbero tre ipotesi di nullità: testuale (se la legge espressamente indica che la violazione di una determinata norma interattiva comporta nullità), strutturale (nel caso di mancanza o di vizio di un elemento essenziale del contratto) e virtuale, quest’ultima ricorrendo se la norma pone un divieto ed è perciò interattiva, ma non prevede espressamente la nullità: in questo caso la nullità deve essere dichiarata solo se la legge non prevede un diverso rimedio alla violazione. Ad avviso del giudice d’appello non sussiste nullità, perché sia l’articolo 6, secondo comma, l. 626/1994, sia l’articolo 11 d.p.r. 459/1996 non sanzionano di nullità i contratti d’affitto di azienda, anche se comprendenti macchinari non a norma per sicurezza, salute e tutela ambientale. Ma trattandosi di norme imperative, e la cessione di macchinari senza marcatura CE e senza attestazione ex articolo 11 citato facendo presumere la non conformità alla normativa antinfortunistica dei macchinari stessi, sussiste la nullità del contratto per contrasto con gli articoli 1418 c.c. e 11 d.p.r. 459/1996 – norme imperative -, giacché quest’ultimo prevede come necessaria l’attestazione della conformità. Dopo un breve riferimento a nullità per illiceità dell’oggetto del contratto, la ricorrente ribadisce che la nullità sussiste in quanto il macchinario sarebbe destinato proprio ad attività cui si applica la normativa antinfortunistica, e qualifica irrilevante poi la depenalizzazione di normativa antinfortunistica, vista la sua finalizzazione alla tutela di valori costituzionali come il diritto alla salute e al lavoro e in generale comunque di interessi di ordine pubblico. E anche se il contratto d’affitto dell’azienda fosse parzialmente nullo, dal momento che la nullità ne inficia una parte essenziale, tutto il contratto sarebbe nullo ex articolo 1419 c.c., perché nel caso di specie non sussisterebbe altra sanzione.
3.1.2 Invero, il giudice d’appello, se con attenzione si interpreta la sua stringata motivazione (pagina 8 della sentenza), nega che il contratto sia nullo sulla base di due rationes decidendi.
La prima: la nullità non può essere dichiarata per violazione di norme imperative, perché dalla normativa invocata da quella che era la parte appellante – ora la ricorrente -, cioè gli articoli 6, secondo comma, L. 626/1994 nonché 1 e 11 d.p.r. 459/1996 non emerge “sanzione di nullità di contratti di cessione di azienda, seppur comprendenti macchinari non a norma sotto i profili della sicurezza, della salute e della tutela dell’ambiente ivi contemplati”.
La seconda: in considerazione della tassatività delle ipotesi di nullità dei contratti – “in ossequio al principio di libertà negoziale, salvi solo i limiti esplicitamente imposti dalla legge” -, il contratto di affitto di azienda non può considerarsi, neppure in via analogica, come erroneamente dedotto dall’appellante mediante la nullità virtuale, “rivolto a finalità contrarie alla legge e comunque in violazione di norme imperative, che sanzionano di nullità, invece, per finalità legislative di agevole intuibilità, la vendita di beni strumentali non in regola con la suddetta normativa”.
Il motivo in esame, come risulta dalla illustrazione del suo contenuto appena offerta, censura entrambe le rationes decidendi.
3.1.3 Il giudice d’appello, allora, a ben guardare, prende le mosse da un sostanziale diniego dell’esistenza della c.d. nullità virtuale, che fonda sulla tassatività delle ipotesi di nullità del contratto quale imprescindibile riflesso della libertà negoziale. Questa impostazione, peraltro, non è condivisibile, in quanto la libertà negoziale non può non coordinarsi con gli altri valori tutelati dall’ordinamento, onde la tassatività della sanzione di nullità, nel senso di sua irrogazione formale ovvero espressa, trova effettivo limite proprio nella sistemica c.d. nullità virtuale. Consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte ha infatti riconosciuto che il contrasto del contratto con norma imperativa che non prevede per la sua violazione la nullità in modo espresso lo conduce comunque alla nullità nel caso in cui detta norma non sia presidiata da rimedi diversi dall’invalidità del contratto (ex multis v. S.U. 19 dicembre 2007 n. 26724 e S.U. 28 marzo 2006 n. 7033; e tra gli arresti più recenti cfr. Cass. sez. L, 21 aprile 2016 n. 8066; Cass. sez. 1, 10 aprile 2014 n. 8462; Cass. sez.6-3, ord. 14 dicembre 2010 n. 25222). E proprio in ipotesi di violazione della normativa antinfortunistica è stata riconosciuta la nullità per siffatto contrasto con norma imperativa (tra gli arresti massimati, oltre a Cass. sez. 2, 27 novembre 1975 n. 3974, richiamata dalla ricorrente – per cui genera la nullità del contratto ex articolo 1418 c.c. il contrasto con una norma imperativa che, anche se non commina esplicitamente tale sanzione civilistica, è sufficiente “sia stata posta per motivi di ordine pubblico, tra i quali vanno ravvisati la tutela della salute dei cittadini (art 32 Cost) e del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni (art 35 Cost)”: si trattava di un contratto di vendita di un attrezzo non munito del dispositivo di protezione normativamente previsto -, vi è la recente Cass. sez. 2, 30 dicembre 2011 n. 30634 – che dichiara nullo ex articolo 1418, primo comma, c.c. il contratto avente ad oggetto macchine, parti di macchine, attrezzature, utensili ed apparecchi non conformi alla normativa di prevenzione degli infortuni sul lavoro -; sugli effetti di nullità virtuale del contrasto con norme imperative che tutelano interessi pubblici cfr., oltre agli arresti già citati, per varie fattispecie Cass. sez. 3, 16 febbraio 2010 n. 3672, Cass. sez. 1, 5 aprile 2001 n. 5052 e Cass. sez. L, 22 marzo 1989 n. 1437) .
3.1.4 Peraltro, come si è visto, il giudice d’appello pone a base della sua decisione un’ulteriore ratio decidendi che, in sintesi, può tradursi nell’affermazione che la normativa invocata dall’attuale ricorrente non concerne il contratto di affitto di azienda.
L’articolo 11 d.p.r. 459/1996 stabilisce che “chiunque venda, noleggi o conceda in uso o in locazione finanziaria macchine o componenti di sicurezza già immessi sul mercato o già in servizio alla data di entrata in vigore del presente regolamento e privi di marcatura CE deve attestare, sotto la propria responsabilità, che gli stessi sono conformi, al momento della consegna a chi acquisti, riceva in uso, noleggio o locazione finanziaria, alla legislazione previgente alla data di entrata in vigore del presente regolamento”. È chiaro che letteralmente nella norma non rientra il contratto di affitto di azienda; considerata però la natura di forte rilievo costituzionale del bene presidiato dalla norma attraverso il riferimento alle disposizioni antinfortunistiche, cioè la salute dei lavoratori, questo “silenzio formale” di per sé non esclude radicalmente l’applicabilità della norma stessa. E’ logico infatti escludere, alla luce della sua ratio di preventiva salvaguardia dall’utilizzo di mezzi pericolosi, che, qualora i beni che compongono l’azienda siano tutti o comunque in misura nettamente prevalente qualificabili come macchine o componenti di sicurezza necessitanti dell’attestazione di cui sopra, la qualificazione come affitto di azienda – anziché come uso, noleggio o leasing dei beni stessi – del passaggio della loro disponibilità li esoneri da essa: in un caso del genere, quindi, fuoriuscire dall’ambito di applicazione della norma imperativa sarebbe erroneo, in quanto configgente, appunto, con la ratio di tutela della norma ed incentivante l’elusione o comunque la violazione delle disposizioni antinfortunistiche. L’ambito di applicazione di una norma, invero, è ben noto che non può ermeneuticamente circoscriversi al suo tenore letterale, dovendo comunque essere identificato dal punto di vista della ratio della norma stessa. Nel caso, invece, in cui l’affitto di azienda comporti la messa in disponibilità dell’affittuario di beni non tutti o non prevalentemente riconducibili ai macchinari soggetti alla normativa antinfortunistica, non è effettivamente sostenibile che la norma invocata dalla ricorrente possa essere “dilatata” a tal punto, effettuando, in luogo di una corretta percezione del sostanziale – e quindi non formalistico – dettato della norma, una lettura di questa che assuma una inaccettabile funzione trasformante e deformante.
Nel caso di esame, pur avendo la ricorrente fatto qualche cenno al riguardo laddove richiama risultati della c.t.u., il motivo non presenta sufficiente specificità per quanto concerne la necessaria completa descrizione dei beni componenti dell’azienda. Pertanto, sotto tale aspetto non gode di autosufficienza, carenza, questa, che impedisce di accoglierlo perché, non illustrando in modo esaustivo il presupposto di fatto, non consente di valutare l’applicabilità nel caso concreto della normativa invocata.
3.3 Il secondo motivo che si evince dall’effettivo contenuto di quella che è stata formalmente proposta come unica doglianza concerne la violazione dell’articolo 112 c.p.c., ed è stato presentato in subordine rispetto al primo. Denuncia infatti la ricorrente che la corte territoriale ha ritenuto che l’appellante non abbia riproposto nel gravame la domanda di risoluzione: al contrario questa sarebbe stata riproposta nelle conclusioni e nell’atto d’appello, alternativamente alla dichiarazione di nullità. Pertanto la corte sarebbe incorsa in violazione dell’articolo 112 c.p.c. per omessa pronuncia, onde, nel caso in cui non si dichiari la nullità del contratto, la sentenza dovrebbe essere cassata per questo.
A differenza che nel motivo precedente, la presente censura è stata presentata in modo sufficientemente specifico (v. ricorso, inizio di pagina 28); e non può non rilevarsi, inoltre, che nelle conclusioni riportate a pagina 4 nella sentenza impugnata, dopo avere chiesto dichiararsi la nullità del contratto ovvero annullarlo, l’allora appellante chiedeva: “in alternativa, risolvere ovvero, in ogni caso, dichiarare invalido e comunque inefficace il contratto sopra indicato” e, “conseguentemente, comunque dichiarare che nulla è dovuto alla società convenuta per i rapporti per cui è causa”, con condanna poi della controparte a “restituzione dell’importo di €84.000.00 oltre ad interessi e rivalutazione dalla data dei singoli pagamenti a quella della effettiva restituzione”.
Erra dunque realmente la corte territoriale laddove, all’inizio dell’esposizione delle ragioni della sua decisione, premette “che non vi è impugnazione per quanto attiene il rigetto della domanda della attrice in primo grado, odierna appellante… tesa ad ottenere la risoluzione del contratto… per inadempimento, aspetto della causa che non è dunque oggetto di devoluzione”, risultando altresì “le doglianze relative alla invocata restituzione dell’importo pagato di €84.000.00… sprovviste di corredo motivazionale” (motivazione, pagina 8). La corte, in tal modo, ha effettivamente omesso di pronunciare su una parte del devolutum, per cui in relazione a questa censura, meritevole di accoglimento, la sua sentenza deve essere cassata.
In conclusione, del ricorso deve essere rigettato il primo motivo e accolto il secondo, in relazione al quale la sentenza deve essere cassata con conseguente rinvio ad altra sezione della corte territoriale.

P.Q.M.

Rigetta il primo motivo, accoglie il secondo e in relazione cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Milano.
Così deciso in Roma il 28 settembre 2016

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