Cassazione Civile, Sez. 6, 07 luglio 2016, n.13950

…”si rileva che il motivo all’esame finisce con il lamentare l’omessa valutazione di un fatto storico — la lunghezza delle attese per poter utilizzare il mezzo di trasporto pubblico – che, invece, è stato considerato dalla Corte di appello e, all’esito di una valutazione di merito che ha tenuto conto degli elementi di giudizio sopra elencati, in particolare procedendo ad un bilanciamento di interessi tra le esigenze del lavoro con quelle personali del lavoratore giungendo a ritenere che quelle prospettate come giustificative dell’uso del mezzo proprio rispondessero solo a condotte di vita quotidiana improntate a maggiore comodità o a minori disagi, in quanto tali prive di uno spessore sociale tale da giustificare un intervento a carattere solidaristico a carico della collettività.”


Presidente: ARIENZO ROSA
Relatore: FERNANDES GIULIO
Data pubblicazione: 07/07/2016

FattoDiritto

La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 24 maggio 2016, ai sensi dell’art. 375 c.p.c. sulla base della seguente relazione redatta a norma dell’art 380 bis c.p.c.:
“Con sentenza del 26 novembre 2013, la Corte di Appello di Reggio Calabria confermava la decisione del Tribunale di Locri di rigetto della domanda proposta da P.P. nei confronti dell’INAIL ed intesa al riconoscimento di postumi invalidanti permanenti derivati dall’infortunio “in itinere” verificatosi il 14 febbraio 2003 mentre esso ricorrente si stava recando, con la propria autovettura, presso il comune di Careri ove prestava propria attività lavorativa come lavoratore socialmente utile.
Ad avviso della Corte territoriale l’uso del mezzo di trasporto privato non era necessitato stante la “…esistenza del mezzo pubblico che regolarmente (ossia ogni giorno) collegava il luogo di lavoro con l’abitazione, sia all’andata, al mattino, alle ore 6,45 — con arrivo alla fermata corrispondente al luogo di lavoro alle 6,58 — che, al ritorno, alle ore 13,17 ( con arrivo alla fermata corrispondente alla propria abitazione alle 13,30)”. Precisava la Corte che l’assunto sacrificio di tempo ( l’orario di lavoro aveva inizio alle ore 8,00 del mattino e terminava alle ore 12,00) dovuto alla necessità di attendere alla fermata l’autobus — tanto all’andata che al ritorno – non solo era stato “…condotto in termini generici, non essendo specificato quali esigenze personali e familiari non possano essere soddisfatte per il maggior tempo impiegato nell’attesa… ”, ma neppure erano state allegate circostanze di fatto tali da far ritenere “necessitato” l’uso del mezzo proprio costituendo il “risparmio di tempo” un “…interesse personale del ricorrente che nulla ha a che fare con le esigenze di lavoro”.
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso il P.P. affidato ad un unico motivo.
Resiste con controricorso l’INAIL.
Con l’unico motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2 del D.P.R. n. 1124 del 1965 così come modificato dall’art. 12 del d.Lgs n. 38 del 2000 e degli artt. 3, 31, 32, 35 e 36 della Costituzione ( in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.) nonché omessa, erronea, insufficiente o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia ( in relazione all’art. 360, n. 5 c.p.c.).
Si assume che la Corte di merito aveva omesso di valutare ( o lo aveva fatto in maniera erronea) la seria incompatibilità tra gli orari dell’esistente servizio di trasporto pubblico e gli orari di lavoro del ricorrente che rendeva “necessitato” l’uso del mezzo privato. Ed infatti era stato dimostrato, attraverso l’espletata istruttoria, che l’utilizzo del trasporto pubblico avrebbe comportato tempi di attesa irragionevoli ( un’ora al mattino ed oltre un’ora e mezza alla fine dell’orario lavorativo) ragion per cui l’utilizzazione del veicolo privato non rispondeva affatto ad una scelta arbitraria funzionale al soddisfacimento di esigenze e/o impulsi personali ed egoistici, bensì era l’unica opportunità pratica di percorrere il tragitto in tempi e con modalità tollerabili e compatibili con il rispetto della dignità, della salute e delle esigenze dì vita personale, familiari e sociali del lavoratore secondo al tutela a questi accordata dai menzionati articoli della Costituzione.
Il motivo è infondato nella prima parte ed inammissibile nella seconda.
Quanto alla dedotta violazione di legge vale ricordare che questa Corte ha avuto modo di chiarire che l’art. 12 del D.Lgs. n. 38 del 2000, (v. Cass. 6-7-2007 n. 15266), in materia di infortuni sul lavoro, ha espressamente ricompreso nell’assicurazione obbligatoria la fattispecie dell’infortunio “in itinere”, inserendola nell’ambito della nozione di occasione di lavoro di cui al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 2, indicando anche dei criteri normativi (come quelli di “interruzione o deviazione del tutto indipendenti da lavoro o comunque, non necessitate”) che delimitano l’operatività della garanzia assicurativa.
La norma, in sostanza, recependo i principi già affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, prevedendo, che “l’assicurazione opera anche nel caso di utilizzo del mezzo di trasporto privato, purché necessitato”, richiede che tale uso sia effettivamente “necessitato”, cioè funzionalizzato, in relazione alle circostanze di tempo e di luogo in cui avviene, ad un corretto e puntuale adempimento dei compiti lavorativi”.
In particolare, è stato specificato che l’indennizzabilità dell’infortunio in itinere, subito dal lavoratore nel percorrere, con mezzo proprio, la distanza fra la sua abitazione e il luogo di lavoro, postulava: a) la sussistenza di un nesso eziologico tra il percorso seguito e l’evento, nel senso che tale percorso costituisca per l’infortunato quello normale per recarsi al lavoro e per tornare alla propria abitazione; b) la sussistenza di un nesso almeno occasionale tra itinerario seguito ed attività lavorativa, nel senso che il primo non sia dal lavoratore percorso per ragioni personali o in orari non collegabili alla seconda; c) la necessità dell’uso del veicolo privato, adoperato dal lavoratore, per il collegamento tra abitazione e luogo di lavoro, considerati i suoi orari di lavoro e quelli dei pubblici servizi di trasporto {ex plurimis Cass. n. 7717 del 2004).
L’uso del mezzo proprio, con l’assunzione degli ingenti rischi connessi alla circolazione stradale, deve essere valutato dunque con adeguato rigore, tenuto conto che il mezzo di trasporto pubblico costituisce lo strumento normale per la mobilità delle persone e comporta il grado minimo di esposizione al rischio di incidenti (Cass. n. 19940 del 2004).
E’ stato, infine anche precisato che “in materia di indennizzabilità dell’infortunio “in itinere” occorso al lavoratore che utilizzi il mezzo di trasporto privato, non possono farsi rientrare nel rischio coperto dalle garanzie previste dalla normativa sugli infortuni sul lavoro situazioni che senza rivestire carattere di necessità – perché volte a conciliare in un’ottica di bilanciamento di interessi le esigenze del lavoro con quelle familiari proprie del lavoratore – rispondano, invece, ad aspettative che, seppure legittime per accreditare condotte di vita quotidiana improntate a maggiore comodità o a minori disagi, non assumono uno spessore sociale tale da giustificare un intervento a carattere solidaristico a carico della collettività” (v. Cass. 29 luglio 2010 n. 17752; Cass. 27-7-2006 n. 17167).
Tali principi fissati con riferimento alla disciplina antecedente alla entrata in vigore dell’art. 12 del d.Lgs. n. 38 del 2000, ovviamente tuttora utilizzabili per verificare se l’utilizzo del mezzo proprio da parte del lavoratore sia “necessitato”, sono stati correttamente applicati dalla Corte di appello come emerge dalla riportata motivazione sulla scorta di una valutazione di merito degli elementi emersi dall’istruttoria non sindacabile in questa sede.
Quanto alla censura pure contenuta nel motivo, concernente il vizio di motivazione la stessa è inammissibile.
Preliminarmente, va rilevato che alla presente controversia va applicato il nuovo testo dell’art. 360, secondo comma, n. 5, c.p.c. (come modificato dall’art. 54, comma 1° lett. b) d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. con modifiche in legge 7 agosto 2012 n. 134) essendo stata pubblicata l’impugnata sentenza dopo 11 settembre 2012 ( ai sensi dell’art. 54, comma 3° d.l. cit.).
Orbene, le Sezioni Unite di questa Corte ( SU n. 8053 del 7 aprile 2014) hanno avuto modo di precisare che a seguito della modifica dell’art. 360, comma 1° n. 5 cit. il vizio di motivazione si restringe a quello di violazione di legge c, cioè, dell’art. 132 c.p.c., che impone al giudice di indicare nella sentenza “la concisa esposizione delle ragioni di fatto c di diritto della decisione”.
Ed infatti perché violazione sussista si deve essere in presenza di un vizio “così radicale da comportare con nferimento a quanto previsto dall’art. 132, n. 4, c.p.c. la nullità della sentenza per mancanza di motivazione” fattispecie che si verifica quando la motivazione manchi del tutto oppure formalmente esista come parte del documento, ma le argomentazioni siano svolte in modo “talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del del decisum.
Pertanto, a seguito della riforma del 2012 scompare il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sulla esistenza (sotto il profilo della assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta).
Inoltre, il vizio può attenere solo alla questio facti (in ordine alle questio juiris non è configurabile un vizio di motivazione) e deve essere testuale, deve, cioè, attenere alla motivazione in sè, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Quanto invece allo specifico vizio previsto dal nuovo testo dell’art. 360, n. 5, c.p.c., in cui è scomparso il termine motivazione, deve trattarsi di un omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali che abbia costituito oggetto di discussione e che abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
Le Sezioni unite hanno specificato che “la parte ricorrente dovrà indicare — nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4, c.p.c.- il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extratestualc (emergente dagli atti processuali), da cui risulti resistenza, il come ed il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la decisività del fatto stesso”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per se, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Ciò detto si rileva che il motivo all’esame finisce con il lamentare l’omessa valutazione di un fatto storico — la lunghezza delle attese per poter utilizzare il mezzo di trasporto pubblico – che, invece, è stato considerato dalla Corte di appello e, all’esito di una valutazione di merito che ha tenuto conto degli elementi di giudizio sopra elencati, in particolare procedendo ad un bilanciamento di interessi tra le esigenze del lavoro con quelle personali del lavoratore giungendo a ritenere che quelle prospettate come giustificative dell’uso del mezzo proprio rispondessero solo condotte di vita quotidiana improntate a maggiore comodità o a minori disagi, in quanto tali prive di uno spessore sociale tale da giustificare un intervento a carattere solidaristico a carico della collettività.
In effetti il motivo, in questa parte, finisce con il sollecitare una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (in termini, da ultimo, Cass. SS.UU. n. 24148 del 2013).
Per tutto quanto sopra considerato, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell’art 375 cod. proc. civ., n. 5.”.
Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.
Il Collegio condivide pienamente il contenuto della riportata relazione e, quindi, rigetta il ricorso.
Le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico del ricorrente e vengono liquidate come da dispositivo.
Sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013). Tale disposizione trova applicazione ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, quale quello in esame, avuto riguardo al momento in cui la notifica del ricorso si è perfezionata, con la ricezione dell’atto da parte del destinatario (Sezioni Unite, sent n. 3774 del 18 tebbraio 2014). Inoltre, il presupposto di insorgenza dell’obbligo del versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 qimter, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (Cass. n. 10306 del 13 maggio 2014).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio liquidate in euro 100,00 per esborsi, curo 2.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese forfetario nella misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 qua ter, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ultenore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Roma, 24 maggio 2016.

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