Cerebrovasculopatia e nesso con un precedente infortunio sul lavoro.
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: MAROTTA CATERINA
Data pubblicazione: 10/05/2016
Fatto
1 – Considerato che è stata depositata relazione del seguente contenuto:
< Propone ricorso per cassazione L.A. affidando l’impugnazione a tre motivi.
L’LN.A.I.L. resiste con controricorso.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione ed errata applicazione degli artt. 90 e 91 disp. att. cod. proc. civ.. Si duole della omessa dichiarazione di nullità della consulenza tecnica d’ufficio per la mancata comunicazione dell’inizio delle operazioni peritali sia al consulente di parte nominato all’udienza di giuramento del consulente d’ufficio sia al difensore della parte. Rileva che il termine per impugnare di nullità la c.t.u. non può che decorrere dalla notifica della sentenza ed esplicarsi con il ricorso per cassazione.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione ed errata applicazione degli artt. 125 e 83 cod. proc, civ., 1716, comma 2, cod. civ.. Lamenta che la Corte territoriale non abbia dichiarato l’inammissibilità dell’appello nonostante la mancata sottoscrizione da parte del difensore dell’I.N.A.I.L. dell’originale di tale atto.
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Si duole dell’omessa valutazione di alcuni documenti il cui esame avrebbe consentito di ritenere sussistente il nesso di causalità tra le menomazioni conseguenti all’infortunio e l’evento morte.
Il primo motivo è manifestamente infondato.
Questa Corte ha da tempo affermato che in tema di consulenza tecnica d’ufficio, l’omesso avviso dell’inizio delle operazioni del consulente, da effettuarsi ai sensi dell’art. 91 disp. att. cod. proc. civ., configura un caso di nullità relativa, che la parte interessata è onerata a far valere nella prima istanza o difesa utile successiva al deposito della relazione dell’ausiliario del giudice, verificandosi, in caso di mancata proposizione tempestiva della relativa eccezione, la sanatoria della nullità medesima (così Cass. 1° ottobre 1999, n. 10870; Cass. 15 aprile 2002, n. 5422; Cass. 29 marzo 2006, n. 7243; Cass. 14 gennaio 2011, n. 746).
Pertanto, se il predetto vizio è denunciato con ricorso per cassazione, deve esser indicato, a pena di inammissibilità, il rispetto del suddetto termine (cfr. Cass. 18 maggio 2001, n. 6822).
Nella specie la ricorrente non ha fornito alcuna prova della evidenziata eccezione di nullità alla prima udienza successiva al deposito della consulenza d’ufficio e cioè, come si evince dallo stesso ricorso, all’udienza del 13/12/2012 in cui, poi, la causa era stata trattenuta per la decisione.
Anche il secondo motivo è manifestamente infondato.
Risulta dalla procura generale alle liti per atto notaio Omissis n. 109024 rep. e n. 24810 racc. che il mandato agli avv.ti Omissis era stato conferito “congiuntamente e disgiuntamente”.
Vale allora la regola generale secondo cui se un potere è attribuito a più persone ciascuna può esercitarlo indipendentemente dalle altre, e che il mandato alle liti conferito a più difensori attribuisce a ciascuno dei delegati il potere di agire disgiuntamente dagli altri, salvo espressa ed univoca volontà contraria (cfr. Cass. 12 gennaio 1984, n. 238; Cass. 21 giugno 1985, n. 3745; Cass. 28 novembre 1989, n. 5185; Cass. 8 ottobre 1993, n. 9979; Cass. 16 maggio 1997, n. 4368; Cass. 16 giugno 1997, n. 5389; nonché Cass., sez. Un., 16 giugno 2000, n. 443 secondo cui: “Invero, quanto alla mancata sottoscrizione di uno dei difensori, è ius receptum che qualora nella procura speciale per ricorrere per cassazione ex art. 365 cod. proc. civ. siano indicati contestualmente due o più avvocati, con l’espressa previsione, come nel caso specifico, che il mandato ha carattere congiunto e disgiunto, ciascuno di essi ha pieni poteri di rappresentanza processuale, con la conseguenza che il ricorso è validamente proposto anche se sottoscritto da uno solo dei difensori”).
Nel caso di specie, non risulta dalla procura, espressamente, l’obbligo di agire congiuntamente. Il carattere disgiuntivo del mandato comporta, allora, che gli atti processuali possano essere posti in essere anche da uno solo dei legali (cfr. anche Cass. 12 marzo 2015, n. 4875; Cass. 25 maggio 2009, n. 12036).
Ciò consente di ritenere valido l’atto di appello sottoscritto solo dagli avv.ti Omissis.
Il terzo motivo è inammissibile.
La denuncia dei pretesi vizi motivazionali è stata prospettata in riferimento al testo dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. nella previgente formulazione, non applicabile, ratione temporis, al presente ricorso. La sentenza impugnata è stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012 con la conseguenza che la norma cui occorre fare riferimento è quella dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., come sostituito dall’art. 54, comma primo, lett. b), del d.l. n. 83 del 2012 (applicabile, ai sensi del cit. art. 54, comma 3, alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, cioè alle sentenze pubblicate a decorrere dal 12.9.12 e, quindi, anche alla sentenza della cui impugnazione si discute) che consente la censura soltanto per .
Il motivo mira a provocare, in realtà, non solo il controllo sulla motivazione della sentenza (come si evince chiaramente dal riferimento alla pretesa insufficienza e contraddittorietà di quest’ultima), non più consentito da detta norma, ma un rinnovato esame del materiale probatorio e della sua idoneità a fondare la pretesa; esame, questo, inammissibile anche in passato.
Come è noto, secondo le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 7 aprile 2014, emesse dalle S.U. di questa S.C., la suddetta modifica legislativa deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. La medesima, dunque, non consente di denunciare un vizio di motivazione se non quando esso si converta, in realtà, in una vera e propria violazione di legge, vale a dire dell’art. 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ.; ciò avviene soltanto in caso di mancanza grafica della motivazione, o di motivazione del tutto apparente, oppure di motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile, oppure di sua manifesta ed irriducibile contraddittorietà e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sé, restando esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima in raffronto con le risultanze probatorie.
L’omesso esame deve riguardare un fatto inteso nella sua accezione storico-fenomenica (e quindi non un punto o un profilo giuridico), un fatto principale o primario (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè un fatto dedotto in funzione probatoria). Tuttavia il riferimento al fatto secondario non implica – e la citata sentenza n. 8053 delle S.U. lo precisa chiaramente – che possa denunciarsi ex art. 360, co. 1, n. 5 cod. proc. civ. anche l’omessa o carente valutazione di determinati elementi probatori: basta che il fatto sia stato esaminato, senza che sia necessario che il giudice abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all’esito dell’istruttoria come astrattamente rilevanti. A sua volta deve trattarsi di un fatto processualmente esistente, per esso intendendosi non un fatto storicamente accertato, ma un fatto che in sede di merito sia stato allegato dalle parti: tale allegazione può emergere già soltanto dal testo della sentenza impugnata (e allora si parlerà di rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza del dato extra-testuale).
Nel caso in esame, i fatti controversi da indagare (da non confondersi con la valutazione delle relative prove atteso che non può fondare il motivo in questione l’omesso esame di una risultanza probatoria, quando essa attenga ad una circostanza che è stata comunque valutata dal giudice del merito) sono stati manifestamente presi in esame dalla Corte territoriale; sicché non di omesso esame si tratta, ma di accoglimento di una tesi diversa da quella sostenuta dalla parte odierna ricorrente.
In conclusione, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5>>.
2 – Va preliminarmente esaminata l’eccezione di inammissibilità del controricorso formulata dal ricorrente in sede di memoria ex art. 380, comma 2, cod. proc. civ..
Tale eccezione è fondata.
Va, al riguardo, rilevato, che la ricorrente, in sede di ricorso per cassazione, ha eletto domicilio presso lo studio dell’avv. Omissis. Il controricorso risulta essere stato notìficato in data 18/7/2013 in Roma Omissis (con consegna a persona qualificata dall’ufficiale giudiziario come incaricata/addetta alla ricezione) dopo che il precedente tentativo di notifica presso l’indirizzo di via Omissis, non era andato a buon fine (si veda la relata del 27/6/2013 – con richiesta in pari data e, dunque, nei termini di cui all’art. 370, comma 1, cod. proc. civ. – da cui si evince che il destinatario, e cioè l’avv. Omissis, “secondo la portiera dello stabile” si era “trasferito per ignota destinazione”).
E’ pur vero che, in tema di notificazione degli atti processuali, qualora la notificazione dell’atto, da effettuarsi entro un termine perentorio, non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha la facoltà e l’onere di richiedere all’uffìciale giudiziario la ripresa del procedimento notificarono, e, ai fini del rispetto del termine, la conseguente notificazione avrà effetto dalla data iniziale di attivazione del procedimento sempreché la ripresa del medesimo sia intervenuta entro un termine ragionevolmente contenuto, tenuti presenti i tempi necessari, secondo la comune diligenza, per conoscere l’esito negativo della notificazione e assumere le informazioni del caso (cfr. ex plurimis Cass. 13 ottobre 2010, n. 21154; Cass. 11 settembre 2013, n. 20830; Cass. 25 settembre 2015, n. 19060).
In adesione agli indicati principi, non potrebbe certo addebitarsi al richiedente l’esito negativo del primo tentativo di notifica (soprattutto considerando i pochi giorni trascorsi tra l’elezione di domicilio contenuta nel ricorso per cassazione ed il “trasferimento per ignota destinazione” attestato dall’ufficiale giudiziario); inoltre la ripresa del procedimento noticatorio è, nella specie, avvenuta in un termine ragionevolmente contenuto, il che consentirebbe di far retroagire gli effetti dell’avvenuta notifica dalla data iniziale di attivazione del procedimento.
Tuttavia, la ricorrente assume che la suddetta notifica effettuata presso l’indirizzo di viale Omissis sia del tutto irrituale per essere tale indirizzo ricollegabile a persona diversa dal difensore presso il cui studio vi era stata l’elezione di domicilio.
Effettivamente risulta dall’estratto iscrizione all’Albo degli avvocati del Ministero della Giustizia versato in atti dalla ricorrente che l’indirizzo di viale Omissis corrisponde alla dott.ssa Omissis (praticante presso lo studio Omissis), persona diversa dal domiciliatario avv. Omissis.
Ed allora va ritenuto che, nonostante la regolare ripresa del procedimento notificatorio, l’esito di quest’ultimo non sia rituale, essendo mancata la ricezione dell’atto da parte dell’effettivo destinatario.
Il controricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile e dello stesso non può tenersi conto.
3 – Per il resto, questa Corte ritiene che le considerazioni e conclusioni svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla consolidata giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalla memoria ex art. 380, comma 2, cod. proc. civ. con la quale la ricorrente si limita a ripercorrere i fatti di causa e a ribadire quanto già evidenziato in ricorso.
Va, comunque, ulteriormente precisato, con riguardo al secondo motivo di ricorso, che, dovendosi prescindere da quanto evidenziato in sede di controricorso circa l’esatto contenuto della procura, il motivo è nondimeno infondato. Ed infatti: – dalla sentenza impugnata si rileva l’esistenza di un mandato conferito a più difensori; – non ci sono elementi per ritenere che vi sia stato un omesso deposito della procura speciale alle liti rilasciata ai sensi dell’art. 83, co. 3, cod. proc. civ., che sia stata semplicemente enunciata o richiamata negli atti della parte, e, d’altra parte, non si evince che il giudice di appello sia stato sollecitato ad invitare parte appellante a produrre l’atto eventualmente mancante (in conformità con l’interpretazione dell’art. 182, co. 1, cod. proc. civ., non interessato dalla modifica di cui alla L. n. 69 del 2009, offerta da questa Corte: si veda Cass. 22 maggio 2014, n. 11359; si veda anche, con riguardo alla procura rilasciata con atto notarile, che si presume esistente, Cass. 10 dicembre 2008, n. 28942); – non v’è motivo di dubitare della validità della sottoscrizione dell’atto di appello da parte di due soltanto dei difensori cui il mandato era stato conferito, non sussistendo alcuna prova di una espressa ed inequivoca volontà contraria all’esercizio dei poteri rappresentativi disgiuntamente per ciascuno di essi; – dal ricorso per cassazione non si evince se e quando la parte appellata abbia posto al giudice del gravame la questione del carattere congiuntivo del mandato ovvero abbia sollecitato la verifica dell’eventuale nullità della procura. Vanno, allora, applicati i principi generali in tema di procura alle liti (artt. 83 e 365 cod. proc. civ.) e di mandato (art. 1716 cod. civ,, disciplinante l’ipotesi di pluralità di mandatari), secondo i quali, ove il mandato alle liti venga conferito a più difensori, si presume che esso sia conferito disgiuntamente a ciascuno di essi, salvo inequivoca manifestazione di volontà della parte in favore del carattere congiuntivo dello stesso; ne consegue che ciascun difensore è autonomamente legittimato alla sottoscrizione dell’atto introduttivo del giudizio in assenza di una espressa volontà delle parti circa il carattere congiuntivo del mandato stesso, con conseguente esclusione di ogni profilo di nullità dell’atto, dovuto all’eventuale mancanza della firma degli altri difensori – cfr., ex plurìmis, Cass. 5 dicembre 2014, n. 25797; Cass. 11 giugno 2008, n. 15478; Cass. 29 marzo 2007, n. 7697; Cass. 2 febbraio 2007, n. 2309; Cass. 8 marzo 2006, n. 4921; Cass., Sez. Un., 17 luglio 2003, n. 11188-.
Neppure può prospettarsi, quanto al terzo motivo di ricorso, un vizio di motivazione così grave da convertirsi, in realtà, a termini del nuovo testo dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., in una vera e propria violazione di legge (ex art. 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ.: mancanza grafica della motivazione, o motivazione del tutto apparente, oppure motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile) atteso che, nella specie, la Corte territoriale, lungi da un laconico richiamo agli esiti della c.t.u. ha di quest’ultima riportato tutte le considerazioni medico-legali e le conclusioni, ritenendo le stesse pienamente condivisibili. Del resto, anche nella vigenza del testo dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. anteriore alle modifiche di cui alla riforma del 2012, non incorreva nel vizio di carenza di motivazione la sentenza che avesse recepito, anche per relationem, le conclusioni della relazione di consulenza tecnica d’ufficio (si veda Cass. 22 febbraio 2006, n. 3881 secondo cui: “La consulenza tecnica d’ufficio non è un mezzo istruttorio in senso proprio, poiché ha la finalità di aiutare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze, per cui non è qualificabile come una prova vera e propria e, come tale, è sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice del merito. Qualora sia stata disposta e ne condivida i risultati, il giudice non è tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento, atteso che la decisione di aderire alle risultanze della consulenza implica valutazione ed esame delle contrarie deduzioni delle parti, mentre l’accettazione del parere del consulente, delineando il percorso logico della decisione, ne costituisce motivazione adeguata, non suscettibile di censure in sede di legittimità”; si vedano anche le conformi Cass. 18 aprile 2008, n. 10202; Cass. 24 dicembre 2013, n. 28647).
4 – Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375, n. 5, cod. proc. civ. per la definizione camerale del processo.
5 – In conclusione il ricorso va rigettato.
6 – Infine non vi è luogo a condanna della parte soccombente alle spese, dovendo il controricorso essere considerato inammissibile e non avendo la parte intimata, pur a fronte della non incidenza di tale inammissibilità sulla validità ed efficacia della procura speciale rilasciata a in calce al medesimo controricorso, partecipato, in base alla stessa, alla discussione orale.
7-11 ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 del 2012), che ha integrato l’art. 13 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”. Tuttavia, risultando la ricorrente ammessa al gratuito patrocinio (si veda il provvedimento del Consiglio dell’ordine degli Avvocati di Catanzaro del 4/6/2013 in atti), la stessa non deve essere onerata delle conseguenze amministrative previste dal suddetto comma 1 quater (Cass. 2 settembre 2014, n. 18523).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13. Così deciso in Roma, l’11 febbraio 2016