Giardinieri e tute da lavoro: DPI e obblighi del datore di lavoro.
Presidente: ARIENZO ROSA
Relatore: PAGETTA ANTONELLA
Data pubblicazione: 16/05/2016
FattoDiritto
La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 5 aprile 2016, ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., sulla base della seguente relazione redatta a norma dell’art, 380 bis cod. proc.civ. : “ Con la domanda di cui al ricorso di primo grado A.S. e C.M., premesso di essere dipendenti del Comune di Napoli con mansioni di giardinieri, hanno allegato che il Comune di Napoli aveva loro fornito, ogni due/tre anni, due tute di stoffa e, saltuariamente, tute “usa e getta” le quali non consentivano la traspirazione ne’ garantivano l’impermeabilità ai liquidi; la scarsità degli indumenti forniti, il lungo lasso di tempo intercorrente tra una fornitura ed un’altra, la necessità di lavaggi frequenti (ai quali avevano provveduto essi lavoratori) avevano determinato pertanto un logorio tale degli abiti da lavoro da indurre i ricorrenti alla loro sostituzione con abiti propri.
Hanno dedotto che la condotta del Comune di Napoli costituiva violazione dell’art. 32 Cost. e art. 2087 cod. civ., del D.P.R. n. 303 del 1956, del D.Lgs. n. 626 del 1994 e della Direttiva europea n. 89/391 CEE e sostenuto di avere diritto all’indennità per il lavaggio delle tute o al risarcimento del danno non patrimoniale per la condotta del Comune.
La domanda è stata respinta dal giudice di prime cure con statuizione confermata in appello.
Per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso l’originario ricorrente sulla base di quindici motivi; ha resistito il Comune con tempestivo controricorso.
Il ricorso è manifestamente infondato alla luce della consolidata giurisprudenza di questa Corte che in controversie aventi identico oggetto a quella in esame ha respinto l’impugnazione dei lavoratori (cfr., tra le altre, Cass. n.16504, n.16503, n. 16159, n.16158, n.16156, n. 14956, n. 1572, n. 13756, n.13755, n. 13754, n. 13753, n. 13751, n. 13750, n. 13749, n. 2748, n. 2747 , tutte del 2014 ).
Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Cost. e dell’art. 2087 c.c.; si sostiene che esiste un generale obbligo del datore di lavoro di lavare le tute, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità; in caso di mancato lavaggio, il lavoratore ha pertanto diritto alla relativa indennità.
Con il secondo motivo si deduce l’omessa o insufficiente o contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto controverso decisivo per il giudizio, nonché la violazione degli artt. 112 e 132 cod. proc. civ.; si assume l’errore del giudice di appello per avere ritenuto che esso ricorrente aveva, in prima battuta, qualificato le tute quali DPI e per avere ignorato la domanda del ricorrente fondata sulla sussistenza di un obbligo generale di lavaggio delle tute da parte del Comune di Napoli.
Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 626 del 1994 e dell’ulteriore normativa in materia di sicurezza del lavoro; dell’art. 32 Cost. e dell’art. 2087 cod. civ.; il provvedimento impugnato è in contrasto con la giurisprudenza della Corte di cassazione. Esiste un obbligo generale del datore di lavoro di lavare le tute in quanto DPI. In caso di mancato lavaggio il lavoratore ha diritto alla relativa indennità.
Con il quarto motivo si deduce l’omessa o insufficiente o contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto controverso decisivo per il giudizio. Non si era esaminata la perizia prodotta e non si erano esaminati i rischi in concreto sofferti dai lavoratori.
Con il quinto motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2967 cod. civ. del D.Lgs. n. 626 del 1994 e dell’ulteriore normativa in materia di sicurezza ; incombe sul Comune datore di lavoro la prova che non sono necessari DPI per il lavoro e le mansioni svolte e che le tute non sono DPI; il lavoratore ha solo l’onere di dimostrare le mansioni espletate ed il contatto con le sostanze in cui si imbatte nello svolgimento elle mansioni medesime; Con il sesto motivo si deduce l’omessa o insufficiente o contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto controverso, decisivo per il giudizio. Era onere del Comune di Napoli dimostrare che le tute non sono DPI; è stata omessa la motivazione sul mancato esame della questione attinente all’onere della prova; Con il settimo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Cost. dell’art. 2087 cod. civ. del D.Lgs. n. 626 del 1994 e della normazione in materia di sicurezza del lavoro; è il datore di lavoro che è onerato della prova in ordine alla insussistenza del rischio; Con l’ottavo motivo si deduce omessa o insufficiente o contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto controverso decisivo per il giudizio. Era onere del datore di lavoro dimostrare che non sussisteva un rischio per i lavoratori; la sentenza impugnata manca del tutto di motivazione sul punto;
Con il nono motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Cost.; degli artt. 1218 e 2043 cod. civ.; il provvedimento impugnato si pone in contrasto con la giurisprudenza di legittimità. Nel caso di mancato lavaggio delle tute da lavoro il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale; Con il decimo motivo si deduce l’omessa o insufficiente o contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto controverso, decisivo per il giudizio. La decisione non ha motivato congruamente le ragioni del rigetto della domanda risarcitoria ed in particolare della insussistenza del danno dedotto ;
Con l’undicesimo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Cost. e dell’art. 2059 cod. civ. ribadendosi la sussistenza del danno non patrimoniale risarcibile Con il dodicesimo motivo si allega l’omessa o insufficiente o contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto controverso decisivo per il giudizio insistendosi sulla sussistenza e risarcibilità del danno non patrimoniale Con il tredicesimo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Cost, dell’art. 2967 cod. civ. e dell’art. 4141 cod. proc. civ. censurandosi la decisione per avere disatteso le istanze istruttorie avanzate da parte ricorrente sin dal primo grado do Con il quattordicesimo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Cost., dell’art. 2087 cod. civ.; si censura, in sintesi, la decisione per non avere il giudice di appello esaminato ed accolto la domanda formulata in via gradata attinente all’inosservanza dell’obbligo di fornitura delle tute “siano esse considerate come D.P.I.” ovvero come abiti da lavoro.
Con l’ultimo motivo si deduce omessa o insufficiente o contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto controverso decisivo per il giudizio. La motivazione del provvedimento impugnato era del tutto carente in merito al punto evidenziato nel motivo precedente Il primo ed il secondo motivo, che in quanto connessi sono trattati congiuntamente, devono essere respinti essendo inidonei a validamente censurare la decisione impugnata.
L’assunto dal quale muove parte ricorrente, e cioè l’avere la sentenza impugnata trascurato di pronunciare in merito alla dedotta esistenza di un obbligo di carattere generale dell’ente datore, di provvedere al lavaggio delle tute, a prescindere dalla configurabilità delle stesse quali DPI, non si confronta con le effettive ragioni alla base della decisione impugnata. Invero il giudice di appello ha espressamente esaminato la pretesa fondata sulla esistenza di un obbligo generale del Comune a provvedere al lavaggio degli indumenti da lavoro che vengono a contatto con sostanze imbrattanti o nocive, e la ha ritenuta non meritevole di accoglimento per essere la stessa fondata su deduzioni del tutto apodittiche e non suffragate da alcun richiamo a norme di legge o di contrattazione collettiva prevedenti un obbligo di tale portata riferito a indumenti diversi da quelli qualificati DPI. La valutazione del giudice di appello in ordine alla carenza di adeguate allegazioni in fatto e deduzioni in diritto della pretesa fondata sulla sussistenza di un generale obbligo del Comune datore di provvedere al lavaggio degli indumenti, viene del tutto pretermessa dall’odierno ricorrente nella illustrazione del motivo. Per sollecitare il sindacato di legittimità in ordine al mancato accoglimento della domanda era necessario contrastare la valutazione di inadeguatezza operata dal giudice di appello evidenziando profili di incongruità e illogicità del ragionamento decisorio. Parte ricorrente si è sottratto a tale onere avendo incentrato i motivi di ricorso su censure già in astratto inidonee a inficiare le ragioni alla base del decisum sul punto. Per completezza di esposizione può aggiungersi che la correttezza della decisione in ordine alla insussistenza di un generale obbligo per il datore di lavoro di provvedere alla manutenzione ed al lavaggio degli indumenti (ove questi, pur non costituendo DPI, per le peculiari caratteristiche dell’attività lavorativa, fossero soggetti a sporcarsi di frequente) non contrasta, al contrario di quanto assume parte ricorrente, con la giurisprudenza di questa Corte richiamata nella illustrazione delle censure. Invero tali precedenti concernono espressamente ipotesi nelle quali gli indumenti in relazione ai quali è stata affermato l’obbligo datoriale di provvedere alla manutenzione costituivano DPI. In particolare, si legge nella sentenza n. 18573 del 2007, richiamata da parte ricorrente come espressione di indirizzo consolidato del giudice di legittimità: “L’idoneità degli indumenti di protezione che il datore di lavoro deve mettere a disposizione dei lavoratori – a norma del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 379 fino alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 626 del 1994 e ai sensi degli art. 40, 43, commi 3 e 4, di tale decreto, per il periodo successivo – deve sussistere non solo nel momento della consegna degli indumenti stessi, ma anche durante l’intero periodo di esecuzione della prestazione lavorativa. Le norme suindicate, infatti, finalizzate alla tutela della salute quale oggetto di autonomo diritto primario assoluto (art. 32 cosi.), solo nel suddetto modo conseguono il loro specifico scopo che, nella concreta fattispecie, è quello di prevenire l’insorgenza e il diffondersi d’infezioni. Ne consegue che, essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza, esso non può non essere a carico del datore di lavoro, quale destinatario dell’obbligo previsto dalle citate disposizioni.” (Cass., 5 novembre 1998 n. 11139; 14 novembre 2005 n. 22929; 26 giugno 2006 n. 14712; 13 ottobre 2006 n. 22049)”.
Esclusa la esistenza di un obbligo generale della parte datoriale di provvedere, anche al di fuori dell’ipotesi contemplata dal D.Lgs. n. 626 del 1994, alla fornitura e manutenzione degli indumenti da lavoro, diviene irrilevante il richiamo di parte ricorrente, richiamo invero generico, al notorio rappresentato dal fatto che, secondo la comune esperienza, i lavoratori addetti ad un certo tipo di lavoro si imbrattano giornalmente con un tipo di sporco che richiede un lavaggio particolare. Tale circostanza risulta infatti inidonea a fondare di per sè l’obbligo datoriale a provvedere al lavaggio degli indumenti.
Il terzo ed il quarto motivo, con i quali viene censurato, in sintesi, il mancato riconoscimento della natura e finalità di DPI., alle tute fornite dal Comune, sono anch’essi manifestamente infondati.
La Corte territoriale ha escluso che le tute in questione costituissero dispositivi individuali di protezione, ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 40 e 41 in considerazione delle caratteristiche intrinseche degli indumenti (tute di stoffa) che li rendevano inidonei a svolgere una funzione di protezione della salute del lavoratore da rischi specifici dell’ambiente di lavoro ed in particolare dal contatto con sostanze nocive.
Il giudice d’appello è partito dal necessario accertamento se le tute distribuite ai lavoratori, anche se a cadenze assolutamente insufficienti, quelle monouso e quelle di stoffa, potessero essere considerate DPI (dispositivi di protezione individuale) ai sensi della normativa in vigore, ciò in quanto si evince dallo stesso ricorso e dalla ricostruzione della vicenda processuale che l’assimilazione tra le tute in parola e i veri e propri DPI sia stato sempre argomento centrale della tesi di parte ricorrente in quanto la normativa sui DPI – proprio in relazione alle lavorazioni cui era addetto il lavoratore – vuole dare concretezza e specificazione alle norme di ordine generale ed astratto come l’art. 32 Cost. e l’art. 2087 c.c..
La Corte territoriale correttamente ha osservato che se le tute fornite dal datore di lavoro Comune di Napoli si dovessero considerare DPI, allora non vi sarebbe alcun dubbio del connesso obbligo per il Comune di tenere indenni i lavoratori dai costi e dai disagi del loro frequente lavaggio. In concreto tuttavia – ha rilevato – le allegazioni di cui al ricorso inducevano ad escludere che le tute fornite – sia quelle di stoffa sia quelle monouso – avessero le caratteristiche di mezzi di protezione individuale; in particolare ha convenuto con il giudice di primo grado nel senso di ritenere che in base alla stessa prospettazione attorea le tute adoperate avevano esclusivamente la funzione di coprire o sostituire gli indumenti personali dei lavoratori per preservarli dall’imbrattamento; non potevano pertanto essere qualificate come DPI, in quanto non garantivano un’ adeguata protezione dai rischi di contatto con sostanze nocive (per lavorazioni come quelle cui era addetto il ricorrente) essendo stati forniti solo per preservare gli abiti civili dall’usura connessa all’espletamento dell’attività lavorativa. Si tratta di un accertamento di natura squisitamente fattuale motivato congniamente ed ancorato ad elementi desunti dalla stesse prospettazioni di parte ricorrente e quindi insindacabile come tale in questa sede, che porta ad escludere in radice non solo la dedotta assimilazione tra le tute fomite al dipendente del Comune di Napoli e i DPI, ma anche ogni nesso tra la tutela della salute e dell’igiene del dipendente ex art. 32 Cost. ed ex art. 2087 c.c. e la domanda formulata in questa sede processuale. Parte ricorrente a sostegno dell’assunto della finalità di DPI delle tute fornite dal Comune richiama la perizia della RIVI Consulting e la relazione Asl di Milano. La mera evocazione di tali atti risulta inidonea ad incidere sull’accertamento di fatto del giudice di appello in merito alle assenza nelle tute fornite delle caratteristiche proprie dei dispositivi individuali di protezione, oggetto dell’obbligo di sicurezza datoriale. Questa Corte ha chiarito che “Il controllo della congruità e logicità della motivazione, al fine del sindacato di legittimità su un apprezzamento di fatto del giudice di merito, postula la specificazione da parte del ricorrente – se necessario, attraverso la trascrizione integrale nel ricorso – della risultanza (parte di un documento, di un accertamento del consulente tecnico, di una deposizione testimoniale, di una dichiarazione di controparte, ecc.) che egli assume decisiva e non valutata o insufficientemente valutata dal giudice, perché solo tale specificazione consente al giudice di legittimità – cui è precluso, salva la denuncia di error in procedendo, l’esame diretto dei fatti di causa – di deliberare la decisività della risultanza non valutata, con la conseguenza che deve ritenersi inidoneo allo scopo il ricorso con cui, nel denunciare l’omessa valutazione da parte del giudice di merito di una circostanza decisiva, ci si limiti a rinviare alla prospettazione fatta negli atti di causa”(Cass. n. 6679 del 2006).
Parte ricorrente non ha osservato gli oneri prescritti al fine della valida censura dell’accertamento di fatto del giudice di merito. Non ha, in primo luogo, in violazione del disposto dell’art. 366 cod. proc. civ., specificato il luogo processuali in cui risultavano prodotti i documenti menzionati n e, soprattutto, non ha indicato quali erano le circostanze emergenti da tali documenti, aventi carattere di decisività, trascurate dal giudice di merito. Il terzo e quarto motivo vanno quindi respinti. Il quinto, il sesto, il settimo e l’ottavo motivo di ricorso, trattati congiuntamente in quanto tutti attinenti al tema dell’onere della prova, sono anche essi infondati.
La tesi di parte ricorrente è che sul Comune ricadeva l’onere di provare che l’attività espletata dal lavoratore non esigeva l’adozione di DPI e quindi l’assenza di rischio, mentre il lavoratore era tenuto esclusivamente a provare le mansioni svolte ed il contatto con sostanze nocive; censura quindi che la Corte territoriale non abbia motivato in ordine alla questione relativa all’onere della prova che assume sollevata con il ricorso in appello.
Si premette che, come correttamente rilevato dalla Corte d’appello, oggetto della domanda era l’accertamento dell’obbligo per il Comune di fornire le tute prima indicate e comunque di tenerle pulite e, in linea subordinata, di risarcire il dipendente dalle spese sostenute di lavaggio delle tute, questione completamente estranea al tema della tutela della salute e dell’igiene nel luogo di lavoro ex art. 32 Cost. ed ex art. 2087 c.c., posto che le ricordate tute non erano fornite a tale scopo, ma solo per preservare gli abiti civili dall’usura dovuta all’attività lavorativa svolta. La domanda non concerneva quindi, in prima battuta, la fornitura di DPI ove necessario al fine di salvaguardare i beni costituzionalmente protetti prima ricordati, ma riguardava direttamente il tipo di tute distribuite (saltuariamente, a stare alla prospettazione di parte ricorrente) dal Comune di Napoli, non altre vestizioni o altro tipo di protezione. Tale ricostruzione del contenuto della domanda non è stato oggetto di specifica contestazione da parte dell’odierno ricorrente.
E in relazione a tale articolazione della originaria domanda che deve quindi essere verificato il rispetto della regola sulla distribuzione dell’onere probatorio. La Corte territoriale, nel confermare la decisione di primo grado che aveva rigettato la domanda del lavoratore, ha implicitamente posto a carico di quest’ultimo l’onere di provare la sussistenza dell’obbligo dell’ente datore di fornire e provvedere alla manutenzione delle tute, dalla cui pretesa violazione scaturisce la pretesa risarcitoria azionata nel presente giudizio. Il criterio applicato dalla Corte di merito risulta coerente con il canone di cui all’art. 2697 cod. civ. secondo il quale “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”. Per completezza di esposizione può soggiungersi che la regola di cui all’art. 2967 cod. civ. in tema di responsabilità datoriale, ove dedotta la violazione del disposto dell’art. 2087 cod. civ., richiede, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, comunque l’adeguata allegazione prima ancora che la prova da parte del lavoratore del danno sofferto e del nesso causale tra detto pregiudizio e le caratteristiche di nocività dell’ambiente di lavoro e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (ex plurimis : Cass. n. 2038 del 2013). Parte ricorrente si è sottratta agli oneri sopra delineati, secondo quanto ritenuto, con affermazione non specificamente contrastata in ricorso, dalla Corte di merito in ordine alla genericità di prospettazione con riferimento al possibile contatto con sostanze nocive.
L’accertata insussistenza dell’obbligo – legale o contrattuale – per il Comune di Napoli di provvedere al lavaggio delle tute assorbe le censure formulate con il nono e decimo motivo, attinenti al mancato accoglimento della domanda di risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale E ciò anche a prescindere dal rilievo del giudice di appello in ordine alla inadeguatezza delle allegazioni in tema di danno non patrimoniale, a fondare, la pretesa risarcitoria.
L’undicesimo e dodicesimo motivo con i quali viene censurata sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione la mancata ammissione di mezzi istruttori articolati in ricorso, sono entrambi infondati. . Questa Corte ha chiarito che “Quando sia denunziato, con il ricorso per cassazione, un vizio di motivazione della sentenza sotto il profilo della mancata ammissione di un mezzo istruttorio, è necessario che il ricorrente non si limiti a censure generiche di erroneità e/o di inadeguatezza della motivazione, ma precisi e specifichi, svolgendo critiche concrete e puntuali, seppure sintetiche, le risultanze e gli elementi di giudizio dei quali lamenta la mancata acquisizione, evidenziando altresì in cosa consistesse e con quali finalità e in quali termini la richiesta fosse stata formulata. Più in particolare, ove trattisi di una prova per testi, è onere del ricorrente, in virtù del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, indicare specificamente le circostanze concrete che formavano oggetto della prova, quale ne fosse la rilevanza, e a quale titolo i soggetti chiamati a rispondere su di esse potessero esserne a conoscenza, atteso che il controllo deve essere consentito alla Corte di cassazione sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative. (Cass. n. 9290 del 2004 Cass. n. 5479 del 2006, n. 10357 del 2005) e che “In materia di consulenza tecnica d’ufficio la decisione del giudice di merito che ne esclude l’ammissione non è sindacabile in sede di legittimità, posto che compete al giudice del merito l’apprezzamento delle circostanze che consentano di escludere che il relativo espletamento possa condurre ai risultati perseguiti dalla parte istante, sulla quale incombe pertanto l’onere di offrire gli elementi di valutazione.” (Cass. n. 26264 del 2005).
Parte ricorrente si è sottratta agli oneri, sopra delineati, su di essa ricadenti al fine della valida censura della mancata ammissione dei mezzi istruttori e del mancato espletamento della consulenza tecnica d’ufficio; pur avendo, infatti, riprodotto in ricorso le richieste
istruttorie di prime cure ed in particolare i capitoli in relazione ai quali era stata formulata la richiesta di prova orale, nel censurare la mancata ammissione della stessa, si è limitata a dedurne, in maniera assertiva, la rilevanza . Non ha in alcun modo argomentato sulle ragioni dello specifico rilievo delle circostanze oggetto di prova, alla luce degli elementi in atti, neT ha specificato quale fatto, avente carattere di decisività, essa era destinata a dimostrare. Analoga genericità si rileva in relazione alla denunzia di mancata ammissione della ctu dovendosi, anzi, evidenziare che alla stregua delle medesime prospettazioni del ricorrente alla stessa era demandato la verifica di circostanze che avrebbero dovuto costituire prima oggetto di puntuale allegazione. Invero, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la consulenza tecnica d’ufficio non costituisce un mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze; in conseguenza suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati. (Principio affermato ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., comma 1, da Cass. ord. n. 3130 del 2011). Nel caso di specie, invece, la consulenza tecnica d’ufficio era destinata a supplire alla carenza e genericità di allegazione in ordine all’esposizione al rischio del lavoratore, secondo l’insindacabile accertamento fattuale del giudice di appello.
Il tredicesimo, il quattordicesimo motivo ed il quindicesimo motivo, con Ì quali è denunziato, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, l’omesso esame della domanda subordinata, intesa all’accertamento dell’obbligo del Comune a provvedere al lavaggio delle tute di stoffa, siano esse considerate DPI o come meri abiti da lavoro, non si confrontano con le ragioni a base del decisum della sentenza impugnata. La Corte territoriale, infatti, ha espressamente valutato l’obbligo datoriale di provvedere al lavaggio tute sia con riferimento alla configurabilità delle stesse come DPI sia con riferimento alla configurabilità come meri abiti da lavoro e ritenuto quest’ultima domanda fondata su deduzioni del tutto apodittiche e non suffragate da alcun richiamo a norme di legge o di contrattazione collettiva; tale valutazione, come già evidenziato non è stata specificamente censurata da parte ricorrente.
In conclusione, in coerenza con precedenti di questa Corte, il ricorso deve essere respinto in quanto manifestamente infondato
.Si chiede che il Presidente voglia fissare la data per l’Adunanza camerale.”
Ritiene questo Collegio che le considerazioni svolte dal Relatore sono del tutto condivisibili siccome coerenti alla ormai consolidata giurisprudenza in materia . Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375, comma 1°, n. 5 cod. proc. Civ. , per la definizione camerale..
Consegue il rigetto del ricorso e la condanna dei ricorrenti alla rifusione delle spese di lite , liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna in solido i ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in € 1.800,00 per compensi professionali, € 100,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15%, oltre accessori di legge .
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13 .
Roma, camera di consiglio del 5 aprile 2016