Infortunio in itinere e utilizzo del mezzo di trasporto privato “necessitato”.
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: FERNANDES GIULIO
Data pubblicazione: 20/04/2016
FattoDiritto
La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 9 marzo 2016, ai sensi dell’art. 375 c.p.c. sulla base della seguente relazione redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:
“Con sentenza del 15 gennaio 2013, la Corte di Appello di Messina confermava la decisione del Tribunale in sede di rigetto della domanda proposta da I.M. nei confronti dell’INAIL ed intesa al riconoscimento di postumi invalidanti permanenti derivati dall’infortunio “in itinere” verificatosi il 4 febbraio 2002 mentre essa ricorrente si stava recando, a bordo del proprio ciclomotore, sul posto di lavoro ( l’Istituto Comprensivo n. 18 “Petrarca” presso la scuola elementare Letterio Donato ove svolgeva l’attività di insegnante di sostegno).
Ad avviso della Corte territoriale, per quello che ancora rileva in questa sede, l’uso del mezzo di trasporto privato non era necessitato e la prova testimoniale articolata dalla I.M. era inconducente (nella parte in cui era intesa a dimostrare che l’utilizzazione del mezzo di trasporto pubblico per coprire il tragitto dalla propria abitazione al luogo di lavoro non fosse particolarmente agevole) e generica (laddove era volta a provare che, talvolta, il mezzo pubblico subiva ritardi o saltava delle corse). La Corte , quindi, riteneva che nel caso in esame le esigenze prospettate rispondevano solo ad una mera comodità della lavoratrice consistente nell’impiego di un minor tempo, rispetto a
quello necessario servendosi del trasporto pubblico, per recarsi al lavoro e tornare a casa al termine dello stesso.
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la I.M. affidato a due motivi.
L’INAIL ha depositato procura per poter partecipare alla discussione. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2 del D.P.R. n. 1124 del 1965 così come modificato dal d.Lgs n. 38 del 2000 ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.).
Si assume che la Corte di merito aveva omesso di valutare la inadeguatezza dei mezzi pubblici in relazione alla distanza tra l’abitazione ed il posto di lavoro e la circostanza che vi erano anche esigenze familiari – il dover prestare assistenza al padre malato e bisognoso di cure — che rendevano l’uso del mezzo privato “necessitato”.
Con il secondo motivo viene lamentato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in relazione agli arti. 115 e 116 c.p.c. per non avere la Corte di merito ammesso la prova testimoniale con la quale si intendeva dimostrare la difficoltà di far ricorso al trasporto pubblico e per non aver valutato la documentazione prodotta agli atti ( le direttive per il buon funzionamento dell’istituto Comprensivo e la documentazione anagrafica e medica relativa al padre della I.M.).
Entrambi i motivi, da trattare congiuntamente in quanto logicamente connessi, sono inammissibili.
Quanto alla dedotta violazione di legge vale ricordare che questa Corte ha avuto modo di chiarire che l’art. 12 del D.Lgs. n. 38 del 2000, (v. Cass. 6-7-2007 n. 15266), in materia di infortuni sul lavoro, ha espressamente ricompreso nell’assicurazione obbligatoria la fattispecie dell’infortunio “in itinere”, inserendola nell’ambito della nozione di occasione di lavoro di cui al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 2, ha espresso dei criteri normativi (come quelli di “interruzione o deviazione del tutto indipendenti da lavoro o comunque, non necessitate”) che delimitano l’operatività della garanzia assicurativa”.
La norma, in sostanza, recependo i principi già affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, prevedendo, che “l’assicurazione opera anche nel caso di utilizzo del mezzo di trasporto privato, purché necessitato”, richiede che tale uso sia effettivamente “necessitato”, cioè funzionalizzato, in relazione alle circostanze di tempo e di luogo in cui avviene, ad un corretto e puntuale adempimento dei compiti lavorativi”.
In particolare, è stato specificato che l’indennizzabilità dell’infortunio in itinere, subito dal lavoratore nel percorrere, con mezzo proprio, la distanza fra la sua abitazione e il luogo di lavoro, postulava: a) la sussistenza di un nesso eziologico tra il percorso seguito e l’evento, nel senso che tale percorso costituisca per l’infortunato quello normale per recarsi al lavoro e per tornare alla propria abitazione; b) la sussistenza di un nesso almeno occasionale tra itinerario seguito ed attività lavorativa, nel senso che il primo non sia dal lavoratore percorso per ragioni personali o in orari non collegabili alla seconda; c) la necessità dell’uso del veicolo privato, adoperato dal lavoratore, per il collegamento tra abitazione e luogo di lavoro, considerati i suoi orari di lavoro e quelli dei pubblici servizi di trasporto (e plurimis: Cass. n. 7717 del 2004).
L’uso del mezzo proprio, con l’assunzione degli ingenti rischi connessi alla circolazione stradale, deve essere valutato dunque con adeguato rigore, tenuto conto che il mezzo di trasporto pubblico costituisce lo strumento normale per la mobilità delle persone e comporta il grado minimo di esposizione al rischio di incidenti (Cass. n. 19940 del 2004).
È stato, infine anche precisato che “in materia di indennizzabilità dell’infortunio “in itinere” occorso al lavoratore che utilizzi il mezzo di trasporto privato, non possono farsi rientrare nel rischio coperto dalle garanzie previste dalla normativa sugli infortuni sul lavoro situazioni che senza rivestire carattere di necessità – perché volte a conciliare in un’ottica di bilanciamento di interessi le esigenze del lavoro con quelle familiari proprie del lavoratore – rispondano, invece, ad aspettative che, seppure legittime per accreditare condotte di vita quotidiana improntate a maggiore comodità o a minori disagi, non assumono uno spessore sociale tale da giustificare un intervento a carattere solidaristico a carico della collettività” (v. Cass. 29 luglio 2010 n.17752; Cass. 27-7-2006 n. 17167).
Tali principi fissati con riferimento alla disciplina antecedente alla entrata in vigore dell’art. 12 del d.Lgs. n. 38 del 2000, ovviamente tuttora utilizzabili per verificare se l’utilizzo del mezzo proprio da parte del lavoratore sia “necessitato”, sono stati correttamente applicati dalla Corte di appello come emerge dalla motivazione sopra riportata sulla scorta di una valutazione di merito non sindacabile in questa sede. Quanto alla censura pure contenuta in entrambi i motivi, concernente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, la stessa è inammissibile.
Le Sezioni Unite di questa Corte ( SU n. 8053 del 7 aprile 2014) hanno chiarito – con riferimento allo specifico vizio previsto dal nuovo testo dell’art. 360, n. 5, c.p.c., in cui è scomparso il termine motivazione – che deve trattarsi di un omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione e che abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
Le Sezioni unite hanno anche specificato che “la parte ricorrente dovrà indicare — nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4, c.p.c.- il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui risulti resistenza, il come ed il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la decisività del fatto stesso”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Ciò detto, si rileva che i motivi all’esame finiscono con il lamentare la omessa ammissione della prova testimoniale ed una non adeguata considerazione dei documenti prodotti (nel secondo motivo prospettata anche come violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.) che, come chiarito dalle Sezioni unite, non integrano il vizio di omesso esame di un fatto storico.
Peraltro, non può non rilevarsi che la Corte di appello non ha ammesso la prova testimoniale con una motivazione fondata su una valutazione di fatto non inficiata da incongruenze di ordine logico ed insindacabile in questa sede (Cass. n. 2201 del 31/01/2007; Cass. n. 18222 del 10/09/2004) già prima della riformulazione dell’art. 360, n.5, c.p.c. ad opera dell’art. 54, comma 1° lett. b) d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. con modifiche in legge 7 agosto 2012 n. 134.
Va, altresì, evidenziato che il secondo motivo è inammissibile perché non autosufficiente, nella parte in cui lamenta il mancato esame della produzione documentale non essendo riportato il contenuto di detti documenti né la sede in cui gli stessi sono rinvenibili (fascicolo d’ufficio o di parte) ( ex multis, Cass. n. 16900 del 19/08/2015; Cass. n. 8569 del 09/04/2013).
Per tutto quanto sopra considerato, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5.”.
Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.
La I.M. ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c. in cui si ribadiscono le argomentazioni di cui ai motivi di ricorso ma che il Collegio non considera idonee a scalfire il contenuto sopra riportato della relazione che è pienamente condivisibile anche se deve essere corretto nelle conclusioni in quanto il ricorso, stante la inammissibilità di entrambi i motivi, va dichiarato inammissibile.
Le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico della ricorrente e vengono liquidate come da dispositivo .
Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013). Tale disposizione trova applicazione ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, quale quello in esame, avuto riguardo al momento in cui la notifica del ricorso si è perfezionata, con la ricezione dell’atto da parte del destinatario (Sezioni Unite, sent n. 3774 del 18 febbraio 2014). Inoltre, il presupposto di insorgenza dell’obbligo del versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (Cass. n. 10306 del 13 maggio 2014).
P.Q.M.
La Corte, dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio liquidate in euro 100,00 per esborsi, euro 2.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese forfetario nella misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Cosi deciso in Roma, 9 marzo 2016.