Cassazione Civile, Sez. 6, 20 aprile 2016, n. 7840

Malattia professionale contratta a causa delle inadeguatezza delle condizioni di lavoro: domanda di risarcimento.


Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: ARIENZO ROSA
Data pubblicazione: 20/04/2016

FattoDiritto

La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 10.3.2016, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., sulla base della seguente relazione, redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:
“Con sentenza del 16.9.2014, la Corte d’appello di Reggio Calabria accoglieva il gravame proposto dalla s.p.a. Poste Italiane e, in riforma della decisione di primo grado, rigettava la domanda originariamente proposta da S.G. e dalla di lui moglie intesa ad ottenere la condanna della società Poste Italiane, quale datrice di lavoro del primo, al risarcimento dei danni subiti in conseguenza della malattia professionale contratta a causa delle inadeguatezza delle condizioni di lavoro, pregiudizio riconosciuto dal primo giudice che aveva liquidato somme a tale titolo in favore di ciascuno dei ricorrenti.
Rilevava la Corte che era onere del lavoratore di allegare e dimostrare le regole di condotta che assumeva essere state violate dal datore di lavoro e che, pur potendo nella specie essere liberamente valutato come elemento di prova quanto accertato nella sentenza del Tribunale di Locri in ordine al gravoso carico di lavoro cui era stato sottoposto lo S.G., non poteva non considerarsi che quest’ultimo, per il ruolo apicale assunto sin dall’agosto 2000, aveva sopportato un carico di lavoro e di responsabilità connaturati al ruolo rivestito, essendo altresì risultato che la protrazione dell’orario di lavoro non era stata sistematica. Aggiungeva che proprio il contenuto delle mansioni svolte evidenziava che non risultasse raggiunta la prova che il clima lavorativo stressante, cui era stata ricondotta l’insorgenza della malattia professionale, riconosciuta per l’erogazione di rendita INAIL, fosse imputabile alla società per avere omesso l’adozione di misure, mai espressamente individuate dal dipendente, idonee ad impedire la situazione determinatasi. Anche la dedotta carenza di organico non era stata dimostrata, essendo, anzi, la prova documentale fornita da Poste nel senso della corrispondenza dello stesso con quanto previsto in pianta organica.
Era pertanto mancata la dimostrazione che il danno subito dallo S.G. fosse riferibile a colpa della società, per avere la stessa violato obblighi di comportamento imposti da norme di fonte legale o suggerite dalla tecnica e/o dalla esperienza al fine di tutelare l’integrità fisica del lavoratore.
Per la cassazione di tale decisione ricorrono S.G. e G.E.S., affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso, la società.
Con il primo motivo, viene dedotta l’illegittimità della resa pronuncia per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., rilevandosi l’omessa considerazione del fatto relativo all’insalubrità dei locali di lavoro già oggetto di accertamento, idoneo a fondare la responsabilità del datore di lavoro Poste Italiane, ed evidenziandosi che il giudice di primo grado aveva affermato che al normale stress da lavoro si erano uniti elementi derivanti dalla logistica dei locali e che la difesa della società si era imperniata su questioni di forma, senza in alcun modo allegare e provare che gli ambienti di lavoro non presentassero gli elementi negativi già indicati nel procedimento conclusosi con sentenza passata in giudicato. Si ritiene che un più attento esame di fatti su cui era stato fondato l’accertamento del nesso causale tra la patologia diagnosticata e l’attività di lavoro svolta dallo S.G. avrebbe dimostrato la responsabilità della società datrice di lavoro e, per l’effetto, la fondatezza della proposta domanda di risarcimento dei danni.
Con il secondo motivo, viene denunziata violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c. c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c, rilevandosi che non doveva sussistere dubbio alcuno sulla circostanza che l’adibizione continuativa dell’istante ad attività in ambienti insalubri costituisse violazione della norma suindicata, posto che grava sul datore di lavoro, una volta che il lavoratore abbia provato l’esistenza del danno, la nocività dell’ambiente di lavoro ed il nesso causale tra tali due elementi, l’onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno. Si assume che nel caso esaminato era mancata ogni prova contraria da parte del datore di lavoro idonea a contrastare l’accertamento della nocività degli ambienti di lavoro, con conseguente inottemperanza, da parte dello stesso, all’obbligo specifico di adozione di misure atte a creare un ambiente di lavoro salubre e necessarie a tutelare l’integrità fisica del lavoratore.
Quanto alla prima censura, deve rilevarsi che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il ” fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e ii “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Cass., s. u., 8053/2014).
Nella evidente prospettiva della novella introdotta dal legislatore del 2012 – che mira a ridurre drasticamente l’area del sindacato di legittimità attorno ai “fatti” – l’omesso esame del fatto decisivo oggetto di discussione nel giudizio afferisce a dati materiali, ad episodi fenomenici rilevanti, ed alle loro ricadute in termini di diritto, aventi portata idonea a determinare direttamente il giudizio. Per converso, le censure motivazionali formulate dai ricorrenti, anche mediante deduzione di circostanze di fatto non risultanti dalla sentenza impugnata (e senza indicazione del luogo e delle modalità in cui siano state sottoposte al giudice del merito, quindi in violazione del principio di autosufficienza) risultano inammissibili. Nessun fatto decisivo trascurato dalla Corte territoriale viene indicato se non le stesse circostanze valutate nella sentenza impugnata e di cui si vorrebbe una diversa lettura, evidenziandosi che la valutazione espressane aveva considerato globalmente, oltre all’ambiente di lavoro, ulteriori elementi fattuali concausali, dei quali era stata esclusa la concreta ricorrenza nel caso di specie (mansioni di lavoro stressanti in relazione al carico di lavoro, protrazione dell’orario lavorativo, carenza di organico). Nella sostanza viene richiesta una rivalutazione delle prove, senza identificare, come già detto, rispetto a quelli indicati in sentenza, elementi probatori differenti dotati del carattere di decisività, nel senso che la loro valutazione avrebbe condotto ad una decisione difforme.
Il vizio denunciato, poi, neppure sussiste alla stregua dell’art. 132 c.p.c. e art. 360 c.p.c., n. 4, alla luce dei quali l’inosservanza dell’obbligo di motivazione è deducibile soltanto nelle ipotesi di mancanza assoluta della motivazione, ovvero di motivazione meramente apparente o perplessa o assolutamente illogica, ipotesi nella specie non ravvisabili. Quanto al secondo motivo, non può omettersi di considerare che il potere organizzativo del datore di lavoro comprende senz’altro la predisposizione di regole finalizzate ad una migliore coesistenza delle diverse realtà operanti all’interno dei luoghi di lavoro e ad evitare conflittualità, ma non può tradursi in condotte pregiudizievoli dell’integrità fisica e morale dei prestatori d’opera in quanto nell’equo bilanciamento dell’esigenza di funzionalità dell’impresa e di tutela delle condizioni di lavoro e del lavoratore, il legislatore ha chiaramente privilegiato, con l’art. 41 Cost., ripreso dall’art. 2087 cod. civ., i diritti fondamentali dei lavoratori. Va, tuttavia, rilevato (cfr. Cass. 5.8.2010 n. 18278) che l’art. 2087 cod. civ. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro e, solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze, sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi. Nè la riconosciuta dipendenza delle malattie da una “causa di servizio” implica necessariamente che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell’ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell’organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall’ambito dell’art. 2087 cod. civ. (cfr. Cass. 25.8.2003; Cass. 21.10.1997 n. 10361).
In tema di responsabilità del datore di lavoro per danni asseritamente cagionati al lavoratore, quest’ultimo non deve dimostrare la colpa dell’altra parte – dato che ai sensi dell’art. 1218 cod. civ. è il debitore- datore di lavoro che deve provare che l’impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o comunque il pregiudizio che colpisce la controparte derivano da causa a lui non imputabile – ma è comunque soggetto all’onere di allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l’asserito debitore abbia posto in essere un comportamento contrario alle regole generali di correttezza e buona fede (cfr. Cass. 28.8.2013 n. 19826). Va anche aggiunto che, in tema di danno alla salute del lavoratore, gli oneri probatori spettanti al datore di lavoro ed al lavoratore sono diversamente modulati nel contenuto a seconda che le misure di sicurezza omesse siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva dì rischi specifici, oppure debbano essere ricavate dallo stesso art. 2087 cod. civ., che impone l’osservanza del generico obbligo di sicurezza: nel primo caso, riferibile alle misure di sicurezza cosiddette “nominate”, la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell’insussistenza dell’inadempimento e del nesso eziologico tra quest’ultimo e il danno; nel secondo caso, relativo a misure di sicurezza cosiddette “innominate”, la prova liberatoria a carico del datore di lavoro è invece generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli “standards” di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe (cfr. Cass. 2.7.2014 n. 15082).
Nella specie, sia pure con riguardo alla esistenza di un accertamento istruttorio già compiuto ad altri fini in una pronuncia del Tribunale di Locri, la Corte di appello ha ravvisato l’inesistenza di una colpa datoriale in rapporto alla situazione lavorativa quale risultante dalle prove acquisite, stante la mancanza di ogni riferibilità causale del pregiudizio subito dallo S.G. alla condotta del datore, non imputabile al predetto in termini di colpa per la rilevata insussistenza di ogni dimostrazione della decisività del solo dato fattuale dell’Insalubrità dell’ambiente lavorativo, non connesso a contestuale violazione di obblighi riguardanti i carichi lavorativi, la sufficienza dell’organico e la durata della normale prestazione lavorativa.
A tanto consegue che correttamente è stata esclusa la violazione di regole connesse all’evidenziato riparto dell’onere probatorio, onde la censura proposta deve essere disattesa.
Per le svolte considerazioni si propone la decisione in sede camerale ai sensi dell’art. 375 cpc nel senso del rigetto del ricorso”.
Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio. I ricorrenti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis, secondo comma, c.p.c.
Il Collegio ritiene di condividere integralmente il contenuto e le conclusioni della riportata relazione e concorda, pertanto, sul rigetto del ricorso, rilevando che le osservazioni di cui alle memoria non scalfiscono il contenuto della proposta del relatore con riguardo alla ritenuta incidenza della insalubrità degli ambienti di lavoro, quale accertata nella sentenza del Tribunale di Locri richiamata, resa all’esito di un giudizio cui era rimasta estranea la Società Poste Italiane, per essere tale circostanza, sia pure valutabile liberamente nell’ambito del presente giudizio, priva del carattere della decisività ai cospetto di altri elementi che avevano condotto ad escluderne tale carattere.
Al rigetto del ricorso consegue, per il principio della soccombenza, la condanna dei ricorrenti alla rifusione delle spese del presente giudizio di legittimità – liquidate come da dispositivo – in favore della società.
La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale
o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione sia principale che incidentale, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (cosi Cass. Sez. Un. n. 22035/2014).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi, euro 3000,000 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese generali in misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10.3.2016

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