Il rifiuto di ferie e lo straordinario non dovuto non costituiscono mobbing. Soprattutto se il lavoro è divenuto “troppo” per l’inadempienza del lavoratore stesso.
Fatto
EF esponeva al Giudice del lavoro del Tribunale di Bergamo di essere dipendente delle P spa, responsabile del sindacato con mansioni di portalettere, e di avere subito un atteggiamento persecutorio nel posto di lavoro ove il direttore dell’ufficio postale di X lo aveva sottoposto a continue richieste ingiustificate (come prestazioni di lavoro
straordinario non dovuto, rifiuto di ferie etc.) e lo aveva anche più volte insultato. Gli erano state inflitte sanzioni disciplinari in relazione all’abnorme quantitativo di giacenza di corrispondenza non imputabile ai portalettere: uno dei provvedimenti disciplinari era stato poi annullato in sede disciplinare. Pertanto deduceva di essere stato vittima di mobbing e chiedeva il risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale conseguente al subito mobbing. Si costituiva la società P. , che contestava la fondatezza della domanda rimarcando le plurime contestazioni disciplinari inflitte al dipendente ribelle ai richiami ed alle direttive aziendali sulle giacenze di corrispondenza e protagonista di reiterate insubordinazioni. Il Tribunale di Bergamo accoglieva parzialmente la domanda ritenendo sussistente un danno biologico e morale connesso ad una condotta del datore di lavoro ma accertava un concorso dello stesso lavoratore nella causazione del danno nella misura del 50%. Entrambe le parti proponevano appello e la Corte di appello di Brescia con sentenza del 30.4.2009 rigettava l’appello principale dei F ed accoglieva quello incidentale delle P con il rigetto della domanda. La Corte territoriale osservava che le varie sanzioni disciplinari e le condotte ascritte al lavoratore erano state confermate in sede giudiziaria; la mancata attribuzione delle ferie era giustificata così come non appariva illegittima la richiesta di lavoro straordinario (areola). Era stato quindi già accertata l’illegittimità del comportamento tenuto dal lavoratore nel suo complesso che aveva accumulato rilevanti giacenze di corrispondenza anche quando non lavorava presso l’Ufficio diretto dal sig. S . La reazione del lavoratore al mutamento di orario era già stata acclarata come illegittima. Altri episodi rilevanti sul piano disciplinare erano stati accertati nel 2004 si da portare ad una nuova sanzione disciplinare ed altre contestazioni erano avvenute anche nel 2005. Pertanto le sanzioni inflitte e le contestazioni disciplinari non potevano essere considerate come discriminatorie né motivate da una sorta di guerra psicologica nei confronti del dipendente posto che era quest’ultimo ad essere poco collaborativo, negligente e restio a seguire direttive ed ordini dei superiori, avvelenando il clima dell’ufficio. Le frasi pronunciate dal direttore andavano interpretate in questo contesto ed in questo clima, giustificate anche per il comportamento del dipendente e non rivelavano alcuna volontà obiettivamente e soggettivamente persecutoria posto che le P avevano dato 5 anni di tempo al dipendente per ravvedersi irrogando solo sanzioni conservative nonostante una recidiva sempre più consistente.
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso il F con tre motivi; resistono le P con controricorso corredato da memoria ex art. 378 c.p.c.
Diritto
Con il primo motivo si allega la violazione e falsa applicazione dell’art. 244 e ss. c.p.c. Il Giudice di primo grado aveva ammesso le prove orali richieste dal ricorrente ma non aveva rivolto le relative domande.
Il motivo è inammissibile in quanto parte ricorrente nemmeno deduce di avere sollevato in appello la questione oggi sollevata (la sentenza impugnata non ne fa menzione) non la comprova in alcun modo nel motivo. Infine nulla è allegato circa la decisività delle domande asseritamente non poste ai testimoni.
Con il secondo motivo si allega la violazione degli artt. 113,115 e 116 c.p.c., nonché la carenza e contraddittorietà della motivazione su un punto essenziale della controversia. I comportamenti persecutori erano iniziati dopo il periodo esaminato dai Giudici di appello nel quale erano stati comminate le sanzioni disciplinari esaminate nella sentenza impugnata: non vi era alcuna obbligazione di risultato a recapitare tutta la corrispondenza; il comportamento tenuto dal Responsabile dell’Ufficio era stato gravemente discriminatorio posto che questi aveva rivolto gravi offese al lavoratore come confermato dai testi.
Il motivo appare inammissibile nella sua prima parte e per il resto infondato. Circa la doglianza per cui sarebbero stati presi in considerazione dalla Corte di appello episodi e circostanze sulle quali non vi era stato contraddittorio, tale doglianza non appare comprovata con una ricostruzione puntuale delle difese delle parti in primo grado sicché sul punto il motivo non appare autosufficiente. Per il resto si tratta di censure di merito, dirette ad una “rivalutazione del fatto” come tale inammissibile in questa sede, la Corte territoriale ha ricostruito analiticamente gli addebiti mossi negli anni al dipendente ed ha sottolineato anche che le sanzioni inflitte erano state confermate in sede giudiziaria (tranne una); le prestazioni di lavoro straordinario (areola) sono state ritenute legittime, così come non può accogliersi la tesi per cui nel recapito della corrispondenza possano accumularsi quantitativi ingenti di giacenza, salvo che si provi il carattere incolpevole di tale accumulo o un abnorme carico giornaliero, il che è stato escluso dalla Corte di appello. Circa l’epoca di tali omissioni (che comprendono anche una sorta di “automutamento” dell’orario) la Corte ha evidenziato come le inadempienze siano continuate anche nel 2004 e nel 2005. Pertanto, ha concluso la Corte, le sanzioni inflitte e le contestazioni disciplinari non potevano essere considerate come discriminatorie né motivate da una sorta di guerra psicologica nei confronti del dipendente posto che era quest’ultimo ad essere poco collaborativo, negligente e restio a seguire direttive ed ordini dei superiori, avvelenando il clima dell’ufficio. Le frasi pronunciate dal direttore andavano interpretate in questo contesto ed in questo clima, giustificate anche per il comportamento del dipendente e non rivelavano alcuna volontà obiettivamente e soggettivamente persecutoria posto che le P avevano dato 5 anni di tempo al dipendente per ravvedersi irrogando solo sanzioni conservative nonostante una recidiva sempre più consistente. La motivazione appare congrua e logicamente coerente ed offre un riferimento puntuale a circostanze ed elementi obiettivi; le censure sono, come già detto, di merito e non offrono nemmeno una ricostruzione organica delle dichiarazioni rese dal testi in ordine alle pretese offese verbali subite dal lavoratore.
Con il terzo motivo si allega la violazione e/o falsa applicazione degli artt, 2087, 2043 c.c, e degli artt. 2,4 e 32 della Costituzione, nonché la carenza e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata in ordine ad un punto essenziale della controversia. Il ricorrente era stato vittima di comportamenti mobbizzanti del datore di lavoro che ne aveva leso l’integrità psìco-fisica.
Il motivo appare infondato posto che ci si limita a richiamare quanto già detto nel secondo motivo ed a ricordare le fonti di legge e costituzionali della “figura” del mobbing che è stato escluso dalla Corte di appello con una motivazione, come già detto, congrua, logicamente coerente e fondata su una attenta valutazione delle circostanze e degli elementi di causa cui nel motivo si contrappone apoditticamente alcune considerazioni meramente di ordine generale.
Si deve quindi rigettare il ricorso. Le spese di lite del giudizio di legittimità- liquidate come al dispositivo- seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in euro 100,00 per esborsi, nonché in euro 2.500,00 per compensi oltre accessori come per legge. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 11.11.2015